Giacomo Leopardi
L’opera di Giacomo Leopardi costituisce un riferimento imprescindibile nella tradizione letteraria italiana. Sembra anche ormai acquisita la sua dimensione filosofica, nel contesto di una riflessione compiuta sulla modernità, nell’Italia di primo Ottocento. Nel suo «pensiero in movimento» egli tocca i principali ambiti dell’indagine filosofica: dalla riflessione sulla scienza e sulla conoscenza a quella sul linguaggio, sulla religione, sulla morale, su rilevanti problemi antropologici, sociali e politici. Il focus di tale ricognizione filosofica, fissato sulla questione della felicità umana, individuale e collettiva, può ritenersi un cardine di quella dimensione civile che rende originale la filosofia italiana.
Nato il 29 giugno 1798 a Recanati, discendente di un’aristocratica famiglia marchigiana, Giacomo Leopardi trascorrerà buona parte della sua breve vita, ventotto dei suoi trentanove anni, nella piccola città natale, a lungo sede episcopale autonoma e borgo tradizionalmente fedele al papato. La sua formazione, curata personalmente dal padre Monaldo, seguì sostanzialmente il corso di studi di tradizione gesuitica: grammatica, umanità, retorica, matematica, filosofia morale (etica aristotelica), filosofia (logica e fisica aristoteliche), casi di coscienza, teologia scolastica, lingua ebraica, Sacra Scrittura. Essa si esercitò in gran parte nella biblioteca realizzata da Monaldo, dotata nel 1812, anno della sua apertura al pubblico, di circa dodicimila volumi e per la sua consistenza e varietà ritenuta a metà Ottocento una delle migliori in Italia.
Destinato dal padre alla carriera ecclesiastica, Giacomo stupirà presto parenti e amici per la precocità e l’ampiezza del suo ingegno, dedicandosi – già in giovanissima età (a partire da dieci anni) – alla scrittura di componimenti poetici, traduzioni, specie dal greco e dal latino, studi filologici, ricerche di astronomia, fisica, chimica, storia naturale, logica, ontologia, morale. Le sue prime pubblicazioni, destinate a riviste di rilievo, lo accreditano come filologo ed esperto di lingua greca. Su queste basi avvia, nel marzo 1817, una corrispondenza con lo scrittore e filologo Pietro Giordani, che diverrà un amico tra i più affezionati per tutta la vita. Sempre nel 1817 (tra luglio e agosto) inizia a redigere le note che costituiranno – fino al 4 dicembre 1832 – le 4526 pagine di quello ‘scartafaccio’ che l’11 luglio 1827, a Firenze, chiamerà Zibaldone di pensieri, stendendone un indice tematico.
Studi, letture e primi rapporti con la comunità dei letterati lo portano – dopo la ‘conversione poetica’ del 1816 – alla ‘conversione filosofica’, maturata nell’autunno del 1819 nel confronto con Madame de Staël, senza che venga meno la vena poetica, che aveva già prodotto le prime Canzoni (la prima, All’Italia, è del settembre 1818) e i primi Idilli (L’infinito è del 1819). Lo «studio matto e disperatissimo» aveva già contribuito a compromettere irreversibilmente la salute del giovane studioso, aggravando i sintomi di quella che oggi appare una tubercolosi ossea. Dopo tre anni di intensa attività poetica e filosofica (1819-22), il 17 novembre 1822 realizza l’agognato viaggio a Roma, dove rimarrà meno di sei mesi, provando una grande delusione per il mondo dei salotti romani e scoprendo la natura tragica della cultura greca arcaica.
Tra la fine del 1823 e il 1824 trarrà le conseguenze filosofiche e letterarie della sua concezione dell’infelicità della condizione umana, oltre che nelle pagine dello Zibaldone, nelle ventiquattro Operette morali che condensano, in un originale stile letterario e in forme pressoché definitive, la sua filosofia della natura e dell’uomo.
Grazie all’invito per alcune collaborazioni editoriali da parte dello stampatore Antonio Fortunato Stella, il 12 luglio 1825 potrà nuovamente allontanarsi da Recanati, recandosi a Bologna, Milano, Firenze e Pisa, entrando in contatto con numerosi letterati, che gli saranno amici, tra i quali il giovane mecenate italo-greco Antonio Papadopoli, l’editore Maurizio Brighenti, il medico universitario Giacomo Tommasini, l’avvocato Ferdinando Maestri, il letterato Carlo Pepoli, l’editore e mecenate Giovan Pietro Vieusseux, il poligrafo e storico dell’arte Giovanni Rosini, frequentando salotti intellettuali, dove non mancheranno gli incontri sentimentali, come quello con Teresa Carniani Malvezzi a Bologna, e realizzando vari progetti, sia personali – la scrittura di altre Operette (le Operette morali saranno pubblicate dallo Stella nel giugno 1827) e la pubblicazione di una prima raccolta di Idilli –, sia richiesti dal contratto editoriale con Stella, come il commento alle Rime di Francesco Petrarca e la cura di due Crestomazie della prosa e della poesia italiane. Si trasferirà da Bologna a Firenze e poi a Pisa, dove soggiornerà fino a quando per la prematura morte del fratello Luigi dovrà tornare a Recanati, non prima di aver composto, nell’aprile 1828, i primi Canti pisano-recanatesi, e di aver conosciuto l’altro grande amico per la vita, l’esule napoletano Antonio Ranieri.
Il ritorno a Recanati fornisce nuovo alimento alla vena poetica, con altri importanti Canti, come il Canto notturno di un pastore errante dell’Asia, fin quando gli «amici di Toscana» non gli assegnano un appannaggio annuo che può consentirgli la tanto attesa ‘fuga’ dal «natio borgo selvaggio», il 30 aprile 1830. Il tempo restante della sua vita Leopardi lo trascorrerà a Firenze, a Roma per un breve soggiorno, quindi nuovamente a Firenze, dove si troncherà dolorosamente la passione per la contessa Fanny Targioni Tozzetti e si consumeranno le amicizie e gli ultimi interessi editoriali (la prima edizione dei Canti verrà pubblicata nell’aprile del 1831 da Piatti), e infine a Napoli, dove arriverà con l’amico Ranieri il 2 ottobre 1833. Qui Leopardi vive in un sostanziale isolamento, legato a Ranieri e a qualche suo amico, come l’avvocato Giuseppe Ferrigni, che lo ospita nella sua villa a Torre Annunziata, componendo gli ultimi Canti, tra i quali spicca La ginestra o il fiore del deserto, e assistendo impotente al progressivo peggioramento della propria malferma salute. Morirà il 14 giugno 1837 e verrà seppellito, grazie all’intervento di Ranieri, nella chiesa di San Vitale Fuorigrotta.
Non è stato facile riconoscere il valore assoluto del pensiero leopardiano e collocarlo nel quadro della cultura nazionale. Nonostante la qualifica di ‘filosofo’ gli sia stata attribuita già in vita nella cerchia degli amici, che conoscevano lo Zibaldone, e dei lettori, che intendevano – per volontà esplicita di Leopardi – le Operette morali come «libro filosofico», e sia stata variamente espressa dallo stesso Leopardi nello Zibaldone, dove ricorre l’espressione «il mio sistema filosofico», e nonostante Giordani nel Proemio al terzo volume dell’edizione postuma delle sue Opere (1845) lo celebri anche come «sommo filosofo», almeno fino al 1947 – data della svolta interpretativa introdotta da Cesare Luporini e Walter Binni – la collocazione di Leopardi tra i filosofi italiani è rimasta incerta.
Parimenti incerto si è rivelato lo status della sua collocazione nella tradizione filosofica nazionale, se ancora agli inizi del Novecento, nella quinta edizione del Grundriss der Geschichte der Philosophie diretto da Friedrich Überweg, nella sezione sulla filosofia italiana, curata da Luigi Credaro – Die Philosophie des Auslandes vom Beginn des 19. Jahrhunderts bis auf die Gegenwart, hrsg. T.K. Oesterreich, 1928 –, il nome di Leopardi veniva appena citato tra i pensatori eclettici (cfr. p. 209), richiamando la prima edizione dello Zibaldone edita da Giosue Carducci (Pensieri di varia filosofia e di bella letteratura, 7 voll., 1898-1900).
Superate tali difficoltà interpretative, il valore del pensiero leopardiano viene oggi riconosciuto nel contesto più generale di una ricognizione sulla modernità partecipe della prospettiva peculiare connessa alla tradizione culturale italiana. È possibile indicare il quadro espositivo di tale riflessione muovendo dagli scritti più propriamente filosofici, quali lo Zibaldone, le Operette morali e i 111 Pensieri, senza tuttavia trascurare i Canti e i Paralipomeni della Batracomiomachia.
La riflessione leopardiana affronta gli aspetti più significativi dell’analisi filosofica: filosofia della scienza e della conoscenza, filosofia del linguaggio e della religione, filosofia morale, ricognizione di consistenti problemi antropologici, sociali e politici connessi alla modernità. Si può senz’altro rilevare come già nel percorso di formazione del giovane Leopardi fosse forte la connessione tra teologia e metafisica, filosofia della natura e filosofia pratica, motivata dal cursus studiorum di origine aristotelica. Uno sguardo complessivo alla filosofia leopardiana è ostacolato tuttavia dal carattere frammentario del suo «pensiero in movimento», spesso orientato da letture e discussioni contingenti e non espresso in uno stile trattatistico e sistematico. Si dovranno isolare le fasi più significative dell’attività filosofica di Leopardi, distinguendo il periodo formativo, che si conclude nel 1819, anno della ‘conversione filosofica’; il periodo di maggiore impegno teorico nello Zibaldone, racchiuso tra il 1820 e il 1823; la svolta verso il materialismo ‘stratonico’ e la concezione tragica della natura umana, compiuta nel 1824 e mantenuta fino alla morte.
Il periodo della formazione consiste di uno «studio matto e disperatissimo» articolato nell’insieme delle discipline canoniche della ratio studiorum, con particolare impegno per l’apprendimento delle lingue e delle letterature greca, latina ed ebraica, e di alcune discipline scientifiche di base, quali l’astronomia, la fisica, la chimica, la storia naturale. L’orientamento di tale formazione, realizzata grazie alle indicazioni paterne, all’insegnamento dei precettori e soprattutto alla lettura diretta e in gran parte libera di opere raccolte nella biblioteca di casa Leopardi, consisteva in un tradizionalismo cattolico ‘illuminato’ che, senza distaccarsi dall’ortodossia cattolica, faceva tesoro della trattatistica, soprattutto gesuitica e in massima parte di tradizione aristotelica, attenta a recepire i risultati più rilevanti della scienza moderna e a contrastare le teorie dei philosophes e le opere classiche non allineate alla tradizione dogmatica.
In gran parte delle opere giovanili, e in misura più evidente nel Saggio sopra gli errori popolari degli antichi (1815), Leopardi si fa paladino di tale orientamento volto a valorizzare le scienze e le conoscenze dei moderni, unitamente ai principi del cattolicesimo, di fronte agli ‘errori’ che la superstizione e il paganesimo avevano diffuso nei popoli antichi. A questo periodo risalgono le prime solide conoscenze della filosofia classica e moderna, da Lucrezio a John Locke, da Cicerone a Pierre Bayle, che rimarranno sempre vive in età matura, se pure in forme più estese, approfondite e critiche.
Dopo la ‘svolta filosofica’ si infittiscono nello Zibaldone le note di pensiero, variamente indirizzate su temi connessi alla scienza, alla conoscenza, al linguaggio, alla morale, alla religione, alla storia, alla società e alla politica. Iniziano a costituirsi alcuni nodi teorici privilegiati che saranno oggetto di approfondimenti ricorrenti, riproponendosi in forma persistente nello sviluppo del pensiero leopardiano. Ad esempio, la direttrice che conduce dalle conoscenze naturalistiche e metafisiche alla filosofia pratica e civile è presente negli studi giovanili e viene ripercorsa nello sviluppo del pensiero della maturità racchiuso nello Zibaldone. Una direttrice parallela può rintracciarsi nell’orientamento che dalla filosofia pratica generalmente intesa conduce a notazioni antropologiche empiriche: Leopardi sente la necessità di ancorare considerazioni generali sull’uomo a contesti empirici definiti che riguardano uomini individuati in società e comunità storicamente e antropologicamente circoscritte, di connettere dialetticamente uno sguardo esistenziale, psicologico e sociale sugli uomini con uno sguardo metafisico sull’uomo, che condurrà all’impietrito silenzio della Natura dinanzi all’Islandese in una delle Operette morali.
Il problema della conoscenza assume presto un rilievo significativo per chi, come Leopardi, aveva studiato la teoria aristotelica della conoscenza e in essa aveva trovato elementi di comprensione delle facoltà cognitive e sensibili, e del ruolo svolto dall’immaginazione in funzione della produzione poetica. La scoperta di Locke, e successivamente del sensismo e delle ricerche degli idéologues, apre a Leopardi un campo di riflessione che modifica la sua originaria impostazione del problema della felicità umana, visto rousseauianamente nei termini negativi connessi alla progressiva divaricazione tra la dimensione naturale e quella razionale dell’umanità.
Il criterio che orienta Leopardi nella lettura di Locke e dei filosofi tardoilluministici ha una sua radice nella formazione aristotelico-gesuitica e nella maturazione della svolta poetica, precedente a quella filosofica, che lo aveva condotto non soltanto all’esaltazione della cultura greca classica, ma soprattutto – sul piano del pensiero – all’impostazione della querelle des anciens et des modernes in chiave di contrapposizione tra la positività naturale del mondo arcaico, specie greco, e la negatività razionale del mondo moderno, orientato dalla rivoluzione scientifica e dalla filosofia cartesiana. Il mondo antico, al quale si aggiungerà, a partire dal luglio 1820, quello ‘selvaggio’ dei Californi, rendeva possibile una naturalità umana in sintonia con la naturalità terrestre e cosmica, che favoriva l’immaginazione e la creazione poetica, potenziata dalla varietà e solidità delle illusioni.
La modernità è segnata dalla critica delle illusioni, emblematicamente simbolizzata da un lato dalla teoria eliocentrica di Nicola Copernico, che ha dissolto la concezione antropocentrica, e dall’altro dal metodo cartesiano con la sua procedura del dubbio metodico. La filosofia moderna si consolida tra René Descartes, che dissipa le fallacie degli aristotelici, e Locke, che dissolve, contro Platone e Gottfried Wilhelm von Leibniz, la credenza nelle idee innate.
Fin dalle prime pagine dello Zibaldone la conoscenza razionale, esaltata dalla scienza moderna, viene intesa come motore di distruzione delle illusioni naturali:
[3.] Considero che la ragione, la quale si vuole avere per fonte della nostra grandezza, e cagione della nostra superiorità sopra gli altri animali, qui non ha che far niente, se non per distruggere; per distruggere quello che v’ha di più spirituale nell’uomo, perché non c’è cosa più spirituale del sentimento né più materiale della ragione, giacché il raziocinio è un’operazione matematica dell’intelletto, e materializza e geometrizza anche le nozioni più astratte. [4.] Che le illusioni sono anzi affatto naturali, animali, atti dell’uomo e non umani secondo il linguaggio scolastico, ed appartenenti all’istinto, il quale abbiamo comune cogli altri animali, se non fosse affogato dalla ragione (Zibaldone, pp. 180-81, 12-23 luglio 1820).
Nella sua propensione alla determinazione e alla delimitazione, essa viene quindi considerata come fonte principale di quel passaggio a una condizione artificiale dell’umanità che abbandona la dimensione sentimentale originaria, illusoria, ma naturale:
Così la scienza è nemica della grandezza delle idee, benché abbia smisuratamente ingrandito le opinioni naturali. Le ha ingrandite come idee chiare, ma una piccolissima idea confusa, è sempre maggiore di una grandissima, affatto chiara (Zibaldone, pp. 1464-65, 7 agosto 1821).
Il decadimento pieno e irreversibile del genere umano è dovuto, in definitiva, al troppo conoscere e alla troppa, innaturale, ragione: è comprovato, asserisce Leopardi l’11 luglio 1823,
che questa corruttela e decadimento del genere umano da uno stato felice, sia nato dal sapere, e dal troppo conoscere, e che l’origine della sua infelicità sia stata la scienza e di se stesso e del mondo, e il troppo uso della ragione (Zibaldone, p. 2939).
Mentre le illusioni rimangono «ingredienti essenziali del sistema della natura umana, [...] propri veramente dell’uomo e voluti dalla natura, e senza cui la vita nostra sarebbe la più misera e barbara cosa» (Zibaldone, p. 51).
Ma tale contrapposizione schematica natura-ragione si arricchisce e si diversifica proprio grazie all’interpretazione della gnoseologia critica di Locke, conosciuto soprattutto tramite traduzioni e divulgazioni (importante in tal senso la mediazione di padre Francesco Soave). Il segno della modernità filosofica non viene riconosciuto nel razionalismo cartesiano, che viene valorizzato soltanto nel principio del dubbio, ma – in sintonia con le predilezioni illuministiche – nella tradizione empirista e nel suo più noto esponente. Da Locke Leopardi trae il valore del nesso esperienza-criticismo come criterio per la conoscenza della realtà. Il disvelamento veritativo della realtà prodotto dall’empirismo critico viene tuttavia articolato in un processo analitico più radicale che trova due momenti di consistenza teoretica: lo «scetticismo ragionato» e il materialismo ‘stratonico’.
La critica lockiana all’innatismo diviene precondizione per uno «scetticismo ragionato e dimostrato» che, affermando la varietà e la complessità della natura, legata a innumerevoli e contingenti circostanze e irriducibile a una conoscenza univoca, conduce a un radicale relativismo conoscitivo, la cui radice ontologica si ritrova metafisicamente nella maggiore estensione della possibilità sulla necessità: «Non v’è quasi altra verità assoluta se non che Tutto è relativo. Questa dev’esser la base di tutta la metafisica» (Zibaldone, p. 452, 22 dicembre 1820).
Il mio sistema introduce non solo uno Scetticismo ragionato e dimostrato, ma tale che, secondo il mio sistema, la ragione umana per qualsivoglia progresso possibile, non potrà mai spogliarsi di questo scetticismo; anzi esso contiene il vero, e si dimostra che la nostra ragione, non può assolutamente trovare il vero se non dubitando; ch’ella si allontana dal vero ogni volta che giudica con certezza; e che non solo il dubbio giova a scoprire il vero (secondo il principio di Cartesio ec. v. Dutens, par. 1, c. 2., § 10), ma il vero consiste essenzialmente nel dubbio, e chi dubita, sa, e sa il più che si possa sapere (Zibaldone, p. 1655, 8 settembre 1821).
L’affermazione di un sistema razionale dello scetticismo costituisce il primo approdo teoretico della riflessione leopardiana sulla scienza e sulla conoscenza. A esso si aggiunge e progressivamente si sostituisce – irreversibilmente a partire dal 1824 – un convinto materialismo, arricchito da una moderna visione dinamica e chimica della natura definibile, dal luogo di sua migliore espressione (l’operetta Frammento apocrifo di Stratone di Lampsaco), ‘stratonismo’. Anche il dibattito sulla ‘materia pensante’ aveva una sua radice in Locke (e, per letture leopardiane, in Soave interprete di Locke), ma anche in Bayle, del quale Leopardi si premura di smentire il presunto paradosso:
Che la materia pensi, è un fatto. Un fatto, perché noi pensiamo; e noi non sappiamo, non conosciamo di essere, non possiamo conoscere, concepire, altro che materia. Un fatto, perché noi veggiamo che le modificazioni del pensiero dipendono totalmente dalle sensazioni, dallo stato del nostro fisico; che l’animo nostro corrisponde in tutto alle varietà ed alle variazioni del nostro corpo. Un fatto, perché noi sentiamo corporalmente il pensiero: ciascun di noi sente che il pensiero non è nel suo braccio, nella sua gamba; sente che egli pensa con una parte materiale di se, cioè col suo cervello, come egli sente di vedere co’ suoi occhi, di toccare colle sue mani. Se la questione dunque si riguardasse, come si dovrebbe, da questo lato; cioè che chi nega il pensiero alla materia nega un fatto, contrasta all’evidenza, sostiene p. lo meno uno stravagante paradosso; che chi crede la materia pensante, non solo non avanza nulla di strano, di ricercato, di recondito, ma avanza una cosa ovvia, avanza quello che è dettato dalla natura, la proposizione più naturale e più ovvia che possa esservi in questa materia; forse le conclusioni degli uomini su tal punto sarebbero diverse da quel che sono, e i profondi filosofi spiritualisti di questo e de’ passati tempi, avrebbero ritrovato e ritroverebbero assai minor difficoltà ed assurdità nel materialismo (Firenze, 18. Sett. 1827) (Zibaldone, pp. 4288-89).
La teoria della ‘materia pensante’ viene in tal modo risolta nella ovvietà di una verità naturale. Peraltro tale teoria viene intesa nel suo portato antiantropocentrico e nella prospettiva di un pensiero dell’animalità; anche gli animali, nella loro ‘materia pensante’, posseggono in forme diverse intelligenza e sensi, come ricorda nel canto VII dei Paralipomeni:
Che certo s’estimar materia frale / dalla retta ragion mi si consente / l’io del topo, del can, d’altro mortale, / che senta e pensi manifestamente, / perché non possa il nostro esser cotale / non veggo: e se non pensa in ver né sente / il topo o il can, di dubitar concesso / m’è del sentire e del pensar mio stesso (Canto VII, ott. 13).
Il materialismo leopardiano si iscrive nella tradizione illuministica (rilevante il rapporto, anche in questo caso dovuto soprattutto a citazioni indirette e a traduzioni, con Paul Henri Dietrich barone d’Holbach, e con il suo Système de la nature, summa del materialismo ateo e antiantropocentrico settecentesco), ma si arricchisce di una prospettiva naturalistica e cosmica non estranea alla cultura scientifica del tempo. Mi riferisco in particolare alla ‘filosofia chimica’ che tramite un uomo di scienza amico di Leopardi, quale fu Domenico Paoli, teorizza un dinamismo universale retto da continui moti di produzione e distruzione dei corpi naturali a partire da elementi materiali eterni.
Aspetti di tale ‘filosofia chimica’ penetrano anche nel sapere medico, punta avanzata di un materialismo scientifico, inteso come profonda conoscenza della materia e della sua origine. Il materialismo dinamico e cosmico che ne deriva combacia con lo ‘stratonismo’ presentato nel Frammento apocrifo. E anche in questo caso, come in quello dello «scetticismo ragionato», l’esito appare risolutamente antiantropomorfico e critico delle illusioni; si tratta – è stato scritto – di un «materialismo non ingenuo» che distrugge le illusioni sul significato cosmico dell’uomo svelando la sua limitatezza e l’incommensurabilità fra i suoi desideri e il potere della natura:
Materialismo non ingenuo e, anche, dolorosamente fondato sulla presa di coscienza della disparità tragica tra il piccolo uomo copernicano, che ha perduto le illusioni d’essere significato e metro del cosmo, e la sterminata estensione ed enigmaticità delle travature grandi e piccole dell’universo, inteso come esterno e impassibile rispetto ai nostri desideri, immutabile rispetto al potere dei principi e indifferente di fronte alle nostre paure della morte o alla “vanità dei discorsi popolari”, che tanto più sono “leggeri e stolti” quanto più sono condivisi da moltissimi uomini (E. Bellone, Introduzione a G. Leopardi, Il Copernico. Dialogo, a cura di E. Bellone, 1983, p. 12).
Inoltre, il richiamo alla figura di Stratone rimanda anche a un ulteriore aspetto del materialismo di Leopardi,
ovvero al suo esito ateo, in quanto proprio a Stratone si attribuisce la negazione di ogni intervento divino nell’origine dell’universo.
Resta il fatto che la scelta di quel prestanome era una professione di materialismo e di ateismo: Stratone era colui che aveva negato ogni intervento degli dei nell’origine del mondo e che aveva trovato troppo fantasiosa e priva di rigore scientifico perfino la fisica di Democrito (S. Timpanaro, Il Leopardi e i filosofi antichi, in Id., Classicismo e illuminismo nell’Ottocento italiano, 1965, 19692, p. 224).
Sia lo «scetticismo ragionato» che il materialismo ‘stratonico’ si presentano come due filosofie della natura non metafisiche, ricche di riferimenti meditati alle due scienze che maggiormente hanno inciso nella formazione leopardiana e nella sua matura riflessione e produzione poetica: l’astronomia e la chimica. In entrambi i casi si mostra come le più recenti teorie astronomiche (l’eliocentrismo, non ancora pienamente recepito dagli ambienti ecclesiastici, che trovava nel padre Monaldo un acerrimo avversario) e chimiche (la chimica di Antoine-Laurent Lavoisier, estesa a una vera e propria filosofia) vengono a sostanziare una visione della natura che vuole comunque mantenere anche una patina di classicità.
In aggiunta, la chimica lavoisieriana dà sostanza a una riflessione logico-linguistica che Leopardi tradurrà anche in termini di poetica. La distinzione, di straordinario rilievo teorico nella poetica leopardiana, fra i ‘termini’, espressione del carattere definitorio e de-terminato del linguaggio scientifico, e le ‘parole’, vaghe e indefinite, quindi proprie dell’espressione poetica, richiama la discussione sulla necessità di una terminologia razionale appropriata alla scienza moderna, avviata a partire dalle teorie linguistiche di Étienne Bonnot de Condillac e concretizzatasi nella nuova nomenclatura chimica di Lavoisier. La centralità dei termini nel nuovo linguaggio chimico converge – per Leopardi – con la scientificità della lingua francese, la più «geometricamente nuda ch’esista oramai»:
Il pericolo grande che corre ora la lingua francese è di diventar lingua al tutto matematica e scientifica, per troppa abbondanza di termini in ogni sorta di cose, e dimenticanza delle antiche parole (Zibaldone, p. 110, 15-30 aprile 1820).
In questo noto pensiero dell’aprile 1820 la necessità della terminologia scientifica – «Le voci scientifiche presentano la nuda e circoscritta idea di quel tale oggetto, e perciò si chiamano termini perché determinano e definiscono la cosa da tutte le parti» – diviene speculare rispetto a quella di una lingua letteraria e poetica, le cui parole possono evocare dimensioni immaginative e sentimentali:
E riducendo l’osservazione al generale troveremo il suo fondamento nella natura delle cose, vedendo come [...] tutto il bello di questo mondo consista nella immaginazione che si può paragonare alle parole e alla costruzione libera varia ardita e figurata.
La riflessione leopardiana sul linguaggio si estende ben oltre la distinzione tra termini e parole e risulta strettamente connessa alla storia della linguistica moderna e della teoria della conoscenza. La sua originalità risiede nella riconduzione dell’analisi del linguaggio nel contesto della gnoseologia sei-settecentesca, da Locke a Destutt de Tracy, e specificamente nella individuazione di una dimensione semantica del linguaggio che va indagata in ragione del funzionamento della mente e insieme della configurazione antropologica e sociale dell’umanità. In altri termini Leopardi unisce una linea di lettura gnoseologica della produzione linguistica a un’indagine storico-comparativa, che spazia dalle lingue antiche (sanscrito, greco, latino) alle moderne (francese).
La combinazione di elementi ‘endogeni’ ed ‘esogeni’ nella formazione intellettuale di Leopardi si ripete dunque nella particolarissima sintesi della sua filosofia del linguaggio, che per un verso è un tipico risultato della tradizione italiana, per un altro si ricollega, saltando criticamente la tradizione francese, a una linea di pensiero semantico e di apertura antropologico-linguistica, che dalle ricerche pionieristiche di Leibniz conduce a Johann Gottfried von Herder e a Wilhelm von Humboldt (cfr. S. Gensini, Leopardi filosofo del linguaggio e la tradizione italiana, in Leopardi e il pensiero moderno, a cura di C. Ferrucci, 1989, p. 195).
La filosofia del linguaggio costituisce il trait d’union che dalla filosofia della natura conduce alla filosofia pratica, vero fulcro del pensiero leopardiano, in quanto luogo problematico della questione cruciale della possibile, o impossibile, felicità propria della condizione umana. La consequenzialità fra filosofia della natura e filosofia pratica ha una chiara radice ontologica. Il nesso tra visione generale e cosmica della natura e posizione dell’interrogativo sul raggiungimento possibile di una felicità per gli uomini e per gli esseri viventi è presente fin dagli anni della formazione e costituisce forse la cifra caratteristica della modalità del pensare leopardiano. A partire da tale nesso viene ripensata la condizione umana, dimodoché l’indagine morale si iscrive in una ricognizione che raccoglie documentazioni storiche e antropologiche, mantenendosi sempre aderente a una prospettiva empirica e critica.
Dal 1820 in poi gli studi sulla condizione umana nel mondo antico, peculiari dell’impostazione filologica della formazione di Leopardi, si connettono in modo sempre più coerente con le conoscenze acquisite dalle prime indagini antropologiche sul terreno, specie rivolte a conoscere usi e costumi delle popolazioni originarie dell’America. L’esito principale di tale arricchimento documentario consiste nel progressivo, ma irreversibile, passaggio da una visione del selvaggio come primitivo, buono e potenzialmente felice, racchiusa nel ‘mito’ dei Californi, che raggiunge la sua massima espressione nella quinta strofa dell’Inno ai Patriarchi (luglio 1822), a una visione ‘negativa’ del selvaggio, che diviene barbaro, privo di ogni vincolo posto dalla civilizzazione ed esposto al più radicale egoismo, icasticamente raffigurato nell’operetta La scommessa di Prometeo (30 aprile-8 maggio 1824).
Leopardi sviluppa al proposito una riflessione sull’amor proprio che, da un lato, richiama il dibattito sulla moral attraction, diffuso nella filosofia di lingua inglese (David Hume, Ralph Cudworth, Isaac Newton), anche in funzione della definizione di una legge unica fisico-morale, nel rispetto dell’omologia fondamentale tra la newtoniana attrazione-repulsione e il conflitto amore-odio; dall’altro fa propria la teoria dell’amor proprio di Jean-Jacques Rousseau, secondo il quale esistono due forme di amor proprio: l’amore di sé (amour de soi), sentimento assoluto, naturale e buono per definizione, perché assicura l’autoconservazione dell’individuo, e l’amor proprio relativo (amour propre), sempre negativo, in quanto, nascendo dal confronto con gli altri, si configura come sentimento sociale ed è quindi subordinato all’opinione.
Anche Leopardi sostiene l’ineliminabilità dell’amor proprio e del desiderio di piacere di ogni essere vivente, costitutivo della sua materialità vitale individuale e tendenzialmente infinito:
Così il desiderio che ha l’uomo di amare, è infinito non per altro se non perché l’uomo si ama di un amore senza limiti. E conseguentemente desidera di trovare oggetti che gli piacciano, di trovare il buono (intendendo per buono anche il bello, e tutto ciò che affetta gradevolmente qualunque delle nostre facoltà); desidera dunque di amare, ossia di determinarsi piacevolmente verso gli oggetti. E lo desidera senza confini, tanto rispetto al numero di questi oggetti, quanto rispetto alla misura della loro bontà, amabilità, piacevolezza. Questo è desiderio innato, inerente, indivisibile dalla natura non solo dell’uomo, ma di ogni altro vivente, perché è necessaria conseguenza dell’amor proprio, il quale è necessaria conseguenza della vita. Ma non prova che la facoltà di amare sia infinita nell’uomo: e così il desiderio infinito di conoscere non prova che la sua facoltà di conoscere sia infinita: prova solamente che il suo amor proprio è illimitato o infinito (Zibaldone, pp. 388-89, 8 dicembre 1820).
L’amor proprio condivide con la materia il carattere assoluto dell’infinito:
L’amor proprio non può, non solo svanire, ma scemar mai di un menomissimo grado; e si può dire di lui ciò che della materia, che tanta né più né meno ve n’ha oggi, e ve n’avrà, quanto al principio del mondo, e che la sua quantità, non è mai né cresciuta né scemata di un nulla. Giacché anche l’amor proprio come non può scemare, così non può mai crescere in verun individuo, dal principio della vita alla fine (Altra prova, ed osservazione analoga a mostrare, che e come l’amor proprio sia infinito) (Zibaldone, pp. 2154-55, 23 novembre 1821).
Esso confligge senza soluzione con il processo cosmico naturale, eterno e dinamico, inteso dall’uomo come male radicale, in quanto distruttivo di ogni ente individuale. La tendenza umana verso un piacere infinito consegue a tale dimensione ontologica individuale e non può essere mai del tutto eliminata, ma soltanto affievolita e indirizzata diversamente dall’apertura di uno spazio per le illusioni, religiose, immaginative, poetiche, che si è configurato storicamente fin dalle prime comunità sociali. Il passaggio dall’amor di sé, naturale e necessario a ogni vivente per la sua autoconservazione, all’amor proprio, che si genera nel confronto e nel conflitto sociale e viene a indirizzarsi, con la modernità, in forme sempre più individualistiche ed egoistiche, costituisce per Leopardi una chiave di lettura storico-sociale.
La distinzione tra le società larghe del primum aevum, più vicine alla natura e proprie anche delle comunità animali (castori, api, formiche: «Anche gli animali, p. e. le formiche, le api, i castori, hanno fra loro tanta società quanto basta ai loro bisogni o comodi», Zibaldone, p. 370, 2 dicembre 1820), e le società strette, legate al potere e a un rigido sistema di leggi, primitive e sostanzialmente barbariche, fonte di egoismo, odio e guerra, è innanzitutto segnata dalla separazione tra natura (animale) e civiltà:
La natura ha destinato molte specie di animali a servir di cibo e sostentamento l’une all’altre, ma che un animale si pasca del suo simile, e ciò non per eccesso straordinario di fame, ma regolarmente, e che lo appetisca, e lo preferisca agli altri cibi; questa incredibile assurdità non si trova in altra specie che nell’umana. Nazioni intere, di costumi quasi primitive, se non che sono strette in una informe società, usano ordinariamente o usarono p. secoli e secoli questo costume, e non pure verso i nemici, ma verso i compagni, i maggiori, i genitori vecchi, le mogli, i figli (Zibaldone, p. 3797, 25-30 ottobre 1823).
Nello stesso lungo pensiero, quasi un saggio di filosofia sociale, teso a smentire l’affermazione che «l’uomo per natura sia più sociale di tutti gli altri esseri viventi», Leopardi aveva anche sostenuto la dimensione costitutivamente antisociale dell’uomo:
Infinite forme di società hanno avuto luogo tra gli uomini per infinite cagioni, con infinite diversità di circostanze. Tutte sono state cattive; e tutte quelle che oggi hanno luogo, lo sono altresì. I filosofi lo confessano; debbono anche vedere che tutti i lumi della filosofia, oggi così raffinata, come non hanno mai potuto, così mai non potranno trovare una forma di società, non che perfetta, ma passabile in se stessa. Nondimeno ei dicono ancora che l’uomo è il più sociale de’ viventi. […] I loro individui [fra le api, fra le formiche, fra i castori, fra le gru e simili] cospirano tutti e sempre al ben pubblico, e si giovano scambievolmente, unico fine, unica ragione del riunirsi in società; e se l’uno nuoce mai all’altro, ciò non è che per accidente, né il fine e lo scopo di ciascheduno è immancabilmente e continuamente quello di soverchiare o di nuocere in qualunque modo altrui. […] Leggi, pene, premi, costumi, opinioni, religioni, dogmi, insegnamenti, coltura, esortazioni, minacce, promesse, speranze e timori di un’altra vita, niente ha potuto far mai, niente è né sarà bastante di fare, che l’individuo di qualsivoglia società umana, conformata come si voglia, non dico giovi altrui, ma si astenga dall’abusarsi, o vogliamo dire dal servirsi di qualunque vantaggio egli abbia sugli altri, per far bene a se col male altrui, dal cercare di aver più degli altri, di soverchiare, di volgere in somma quanto è possibile, tutta la società al suo solo utile o piacere, il che non può avvenire senza disutile e dispiacere degli altri individui (Zibaldone, pp. 3774-75).
Nel medesimo piccolo saggio Leopardi articola il proprio modello introducendo le società larghissime, le società quasi naturali dei selvaggi, come quella dei Californi, in contrapposizione alle società strette, moderne e civilizzate, di conseguenza egoistiche e individualistiche:
I Californi, popolo di vita forse unico, non avendo tra loro società quasi alcuna, se non quella che hanno gli altri animali, e forse non i più socievoli (come le api ec.), quella ch’è necessaria alla propagazione della specie ec. e credo, nessuna o imperfettissima lingua, anzi linguaggio, sono selvaggi e non sono barbari, cioè non fanno nulla contro natura (almeno per costume), né verso se stessi, né verso i lor simili, né verso checchessia. Non è dunque la natura, ma la società stretta la qual fa che tutti gli altri selvaggi sieno o sieno stati di vita e d’indole così contrari alla natura (Zibaldone, p. 3801).
Sarà il Discorso sopra lo stato presente dei costumi degl’italiani (1824) lo scritto che intreccerà la teoria sociale di Leopardi a una trattazione storica e antropologica della modernità finalizzata a descrivere i costumi degli italiani. Nelle moderne società strette sono scomparse le illusioni che cementavano l’unione comunitaria, come quella patriottica e mitico-religiosa, ma permangono – è il caso delle più progredite tra le nazioni europee, come l’Inghilterra e la Francia –, se pure in forma affievolita, illusioni legate alla stima e alla dignità reciproche e confluenti nella cosiddetta opinione pubblica. Non così in Italia, dove la tendenza all’individualismo egoistico ha raggiunto, anche per cause storico-politiche, una tale estensione da produrre una vera e propria forma di cinismo sociale, che ha cancellato la possibilità stessa di una sfera dell’opinione pubblica, riducendo la socialità a passatempo, svago o superficiale espressione religiosa: «Il passeggio, gli spettacoli, e le Chiese sono le principali occasioni di società che hanno gl’italiani, e in essi consiste, si può dir, tutta la loro società», ed è per questo che «dell’opinione pubblica gl’italiani in generale, e parlando massimamente a proporzione degli altri popoli, non ne fanno alcun conto» (G. Leopardi, Tutte le poesie e tutte le prose, a cura di L. Felici, E. Trevi, 1997, p. 1015).
Lo sguardo alla società moderna, con la significativa torsione interpretativa su quella italiana, si inserisce, in definitiva, in una complessa teoria dello sviluppo dei processi di civilizzazione che fa tesoro di conoscenze antropologiche, sia sul mondo antico che sulle comunità primitive extraeuropee, di osservazioni sociologiche sulla modernità, espresse per la prima volta in ambiente illuministico, di frammenti di analisi morale, tesaurizzati dalla grande tradizione moralistica francese nata con le Pensées di Blaise Pascal. In quest’ultima direzione va considerata la meditata raccolta aforistica dei 111 Pensieri, che riunisce e ordina in un progetto di precettistica morale empirica e materialistica applicata alla modernità pensieri variamente tratti dallo Zibaldone, in una direzione più antropologica che filosofica, più consentanea a Francesco Guicciardini che non a Niccolò Machiavelli.
Tuttavia il testo letterario che rappresenterà con maggiore efficacia la filosofia pratica, e in alcuni casi anche la filosofia naturale e metafisica, di Leopardi saranno le Operette morali. Senza poterne richiamare la varietà stilistica e tematica, basti ricordare come in quella che Leopardi considerò opera «filosofica, benché scritta con leggerezza apparente» (Lettera ad Antonio Fortunato Stella, Recanati, 6 dicembre 1826) sono presenti tutti i principali temi della riflessione pratica leopardiana: la ricerca della felicità e del piacere (per es., nel Dialogo della Natura e di un Islandese: richiamo tra parentesi un solo titolo esemplificativo), la questione della lunghezza e vivacità della vita (Dialogo di un fisico e di un metafisico), gli interrogativi sulla perfezione e perfettibilità umana (La scommessa di Prometeo), la critica dell’antropocentrismo (Dialogo della Terra e della Luna), un’analitica – diffusa in più operette – delle illusioni religiose, conoscitive, sociali.
Nella volontà di sostituire alle credenze un esame coraggioso dei fatti, empirico e critico, Leopardi rinnova, nella ricchezza di stili letterari aperti, come il dialogo, la propria intenzione filosofica empirica, critica e demistificatrice di ogni a priori. In tal modo egli rigetta le filosofie idealistiche e spiritualistiche dominanti nel proprio tempo e rende anche poco stabili le fondamenta stesse di ogni edificio filosofico.
E a proposito dell’uso meditato del termine filosofia nello Zibaldone va segnalata un’oscillazione tra una propensione ad autodefinire il proprio sistema come ‘filosofico’ e una volta non soltanto a negare ogni valore alla filosofia tradizionalmente e modernamente intesa (diremmo alla filosofia kantiana, idealistica e metafisica), ma soprattutto a fornire una propria torsione concettuale del termine con l’introduzione dei concetti di ‘mezza filosofia’ e di ‘ultrafilosofia’. Per quanto riguarda il primo aspetto potrebbe dirsi che Leopardi valorizza la capacità critica e ‘distruttiva’ della filosofia, specie moderna, che dissolve le illusioni riconducendo all’«arido vero» e con ciò annullando la sua propria funzione razionale e critica. Ma mantiene anche un’idea sistematica del filosofare, l’esigenza di uno sguardo complessivo sull’ordine naturale e umano che, muovendo dall’analisi critica, conduca a una visione sistematica, non metafisica o idealistica, ma aderente alla realtà empirica:
Sia che si voglia supporre tutta la natura ordinata secondo un sistema, tutto legato ed armonico, e corrispondente in ciascuna sua parte; ovvero divisa in tanti particolari sistemi, indipendenti l’uno dall’altro, ma però ben armonici e collegati e corrispondenti nelle loro parti rispettive; certo è che l’idea di sistema, cioè di armonia, di convenienza, di corrispondenza, di relazioni, di rapporti, è idea reale, ed ha il suo fondamento, e il suo soggetto nella sostanza, e in ciò ch’esiste (Zibaldone, p. 1089, 26 maggio 1821).
La teoresi – aggiunge Leopardi nello stesso pensiero – potrà condurre alla definizione di un sistema «immaginario, o anche arbitrario», ma «sarà falso quel tal sistema, non però l’idea ch’esso include, che la natura e le cose sieno regolate e ordinate in sistema». Per quanto concerne il secondo aspetto Leopardi introduce in un pensiero del 17 gennaio 1821 (cfr. Zibaldone, pp. 520-22) il concetto di ‘mezza filosofia’ per distinguere dalla filosofia moderna la filosofia degli antichi, la cui positività risiede nella commistione di sentimento e ragione e nell’assenza della negatività critica e distruttiva propria del pensiero moderno. Più ambiguo appare il concetto di ‘ultrafilosofia’, che viene contrapposto all’idea moderna e razionale della filosofia, la quale, distruggendo le illusioni, anche religiose, senza alcuna alternativa può divenire una «scelleraggine ragionata» (Zibaldone, p. 125, 16 giugno 1820). L’esigenza di una ‘ultrafilosofia’ viene proposta – in un noto pensiero dello Zibaldone del 7 giugno 1820 – come condizione per una possibile rigenerazione, dopo la crisi, anche sociale e civile, provocata dalla ragione illuministica: «La civiltà delle nazioni consiste in un temperamento della natura colla ragione». E
perciò la nostra rigenerazione dipende da una, per così dire, oltrafilosofia [così nel ms.], che conoscendo l’intiero e l’intimo delle cose, ci ravvicini alla natura. E questo dovrebb’essere il frutto dei lumi straordinari di questo secolo (Zibaldone, pp. 114-15).
Si potrebbe intendere l’‘ultrafilosofia’ nel senso della svolta proposta da Leopardi sul piano epistemico e metodologico, intesa a riunire ragione filosofica e immaginazione poetica al fine di cogliere nella sua complessità «l’intiero e l’intimo delle cose» e di giungere a una comprensione profonda e integrale, non soltanto analitica e critica, della realtà naturale. Ma la proposta di rigenerazione coinvolge anche l’aspetto civile, con la concezione di una futura società ‘mezzana’, che richiami alcuni aspetti delle società antiche e, pur fruendo degli effetti della civilizzazione, ritrovi un nuovo equilibrio fra natura e ragione, senza cadere nell’eccesso illuministico, fonte di dispotismo:
Non c’è altro stato intollerante di tirannia, o capace di esserne esente, fuorché lo stato naturale e primitivo, o una civilizzazione media, com’è ora quella della Spagna, com’era quella de’ Romani ec. Atene e la Grecia quando furono sommamente civili, non furono mai libere veramente (Zibaldone, p. 315, 10 novembre 1820).
L’esempio della Spagna rende conto per Leopardi di come un Paese possa guadagnare dall’espansione dei Lumi senza cadere negli errori dovuti a un loro «uso eccessivo». La rigenerazione possibile con l’‘ultrafilosofia’, iscritta nella tradizione già platonica dell’anakúklosis e certamente affine alla teoria dei corsi di Giambattista Vico, è quindi anche un «risorgimento»:
Risorgimento incominciato in Europa dalla rivoluzione francese, risorgimento debole, imperfettissimo, perché derivato non dalla natura, ma dalla ragione, anzi dalla filosofia, ch’è debolissimo, tristo, falso, non durevole principio di civiltà. Ma pure è una specie di risorgimento (Zibaldone, p. 1078, 23 maggio 1821).
Conseguente comunque a quello di un secolo, il 18°, che rimane per Leopardi «l’epoca di un vero risorgimento da una vera barbarie, anche nel gusto» (Zibaldone, p. 1078, 23 maggio 1821).
L’evocazione, appena accennata, di una ‘ultrafilosofia’ può trovare la sua più significativa testimonianza proprio nell’ultima produzione poetica di Leopardi, esemplificabile nei Paralipomeni e in quel suo testamento poetico unanimemente individuato nella Ginestra (primavera 1836).
Leopardi diviene ‘ultrafilosofo’ negli ultimi anni di vita, testimoniando in tal modo un impegno morale e civile coerente e costante, nello spirito di quella cultura illuministica consolidata già nella fase della formazione e attestata anche nella ‘conversione filosofica’ del 1819, ispirata dalle pagine di De l’Allemagne di Madame de Staël, dove alla filosofia tedesca kantiana e idealistica si opponeva la necessità di «une philosophie plus étendue», tale da esaminare i rapporti reali fra le cose, che aveva avviato alla grande stagione poetica dei Canti. La nuova originale sintesi fra poesia e filosofia realizzata negli ultimi anni si mostra ancor più solida nell’intreccio dei contenuti. Ora si realizza – in forme stilisticamente diverse nei Paralipomeni e nella Ginestra, e con diversi risultati poetici – una convergenza completa tra filosofia naturale e cosmica, e filosofia pratica e sociale.
Nei Paralipomeni la più appariscente critica che accomuna le ideologie liberali e progressiste a quelle monarchiche, tradizionalistiche e assolutistiche, espressione di una posizione coerentemente contraria a tutte le forme di liberalismo del primo Ottocento, si distende su un quadro naturalistico e cosmico che mette in rilievo la dimensione animale.
Nel canto VII il viaggio di Dedalo alla ricerca dell’aldilà dove risiederebbero le anime dei topi non vuole soltanto rivoltare sarcasticamente le certezze del dibattito sei-settecentesco, ben noto al giovane Leopardi, sull’anima dei bruti, proponendone una soluzione materialistica di stampo epicureo (gli animali posseggono un’anima materiale diversa in grado, ma non in sostanza, da quella degli uomini), ma predispone a uno sguardo cosmico sulla Terra, descritta anche nella sua storia evolutiva (cfr. le ottave 29-36), che costituisce un efficace ridimensionamento delle vicende politico-militari descritte nella ‘batracomiomachia’ leopardiana.
Il più efficace e noto effetto dell’‘ultrafilosofia’ leopardiana è realizzato nella Ginestra che, sposando la metodologia illuministica nell’impegno di sostituire alle credenze un esame coraggioso dei fatti, unisce con uno straordinario rilievo lirico la visione naturalistica evocata nella descrizione del golfo di Napoli e della ‘sublime’ eruzione del Vesuvio del 79 d. C., la prospettiva cosmica, condensata nella quarta stanza, che dissolve ogni presunzione antropocentrica alla luce di un solido sapere astronomico, e l’impeto civile rivolto a ridurre sofferenze e mali dell’umana stirpe, chiaro nella rivendicazione di una continuità con il «verace saper» del secolo dei lumi e chiarissimo nel noto invito alla solidarietà che stringa «i mortali in social catena».
Il problema del nichilismo leopardiano si raccoglie nel contrasto ontologico irrisolvibile, espresso anche nell’esecuzione lirica della parola filosofica prodotta dalla Ginestra, tra la fragilità della condizione di ogni vivente, ginestra compresa, e l’ordine cosmico della natura. Il riconoscimento della presenza non accidentale del male in tale presunto cosmo divino e naturale, del «male nell’ordine» (Zibaldone, p. 4511, 17 maggio 1829), dissolve ogni visione ontologica sulla pienezza dell’essere, e di conseguenza ogni fondamento del bene, del vero e del bello, conducendo a quella comprensione dell’insensatezza della condizione umana, esito ultimo della distruzione moderna delle illusioni e delle certezze metafisiche, che non può che risolversi nel silenzio oppure nel grido accorato volto a ritrovare la dignità e la solidarietà della specie umana.
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