Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
L’opera di Giacomo Leopardi si presenta come un sistema complesso e dinamico, fondato sulla mescolanza e sull’intreccio di generi che mette in crisi il concetto stesso di opera: l’espressione "mes petits morceaux de littérature", che si trova in una sua lettera, indica la chiara percezione che Leopardi ha dei suoi scritti, monumentalizzati poi dalla critica in un ordine gerarchico che va dalla lirica alla prosa, dal "canto" al "pensiero", secondo uno sviluppo che Leopardi stesso applica alla sua vicenda intellettuale, ma che in realtà i fatti smentiscono.
Il primo periodo della vita di Leopardi – quello che comunemente si considera impiegato nello studio filologico – è racchiuso entro i confini del paese natale, Recanati, e più precisamente nella biblioteca del padre Monaldo; qui il giovane Giacomo impara il greco da autodidatta e studia in modo molto intenso i classici, arrivando a tradurre in proprio testi quali la Batracomiomachia ("Battaglia di rane e topi", attribuita a Omero). Lo studio forsennato di materiali eruditi costituisce la base per lo sviluppo dei temi principali della poesia leopardiana, che comincia a delinearsi proprio in questi anni e, più precisamente, nel 1816, l’anno a cui egli stesso assegna il passaggio "dall’erudizione al bello". Occorre tuttavia tener presente che la filologia di Leopardi presenta aspetti ludici che alimentano la stessa meditazione negativa intorno alla storia dell’individuo e dell’umanità e che questa è spesso unita a un atteggiamento parodico.
Esempi di questi primi nuclei della poetica leopardiana si ritrovano nella traduzione di un’Ode di Orazio (III, 9 A Grosfo), condotta sotto la guida del precettore Sebastiano Sanchini (1809), riutilizzata poi all’interno dell’Epistola al Pepoli del 1826, in cui il motivo classico della ricerca dell’ otium viene completamente sovvertito alla luce di una visione ormai interamente negativa di ogni attività umana. Nel 1811 Leopardi traduce, sempre da Orazio, l’Arte poetica "travestita, ed esposta in ottava rima", e negli stessi mesi tenta l’esperimento teatrale La virtù indiana, dove il principe Amet vendica il padre, vittima di un colpo di stato, e sale al trono invocando nuove leggi più giuste: l’eroismo alfieriano è già introiettato nella storia personale, ma soprattutto è interessante lo svolgimento del tema della virtù che esige un sacrificio; tema che impregnerà ad anni di distanza le canzoni civili.
Gli autori greci e latini non sono però le uniche componenti della formazione leopardiana. In essa reagisce infatti prontamente l’ideologia critica di stampo illuminista e nascono così a breve distanza la Dissertazione sopra l’anima delle bestie, del 1811 (dove Leopardi dialoga con Descartes, Maupertuis, Rousseau e Pope), la Storia della astronomia dalla sua origine fino all’anno MDCCCXI, del 1813 (nella quale troviamo molti dei motivi cosmologici poi entrati nelle Operette morali) e il Saggio sopra gli errori popolari degli antichi, vera e propria indagine critico-ironica sul grande tema mitologico della vivificazione della natura antica di cui si discuterà continuamente in poesia e in prosa (si consideri solo il capitolo "Del meriggio" e i rapporti con la canzone Alla primavera). Accanto alla ragione che condanna le tradizioni e le credenze popolari del passato Leopardi pone la fantasia degli antichi, capaci di vedere "il bello" più che "il vero".
Tra i documenti del primo Leopardi non si possono trascurare alcune pagine di diario, andate poi sotto il nome di Ricordi d’infanzia e di adolescenza. Questi materiali costituiscono l’abbozzo di un progetto autobiografico databile fra marzo e maggio 1819 e mostrano il passaggio esplosivo dal ricordo personale alla meditazione universale, tipico poi della struttura espositiva di alcuni grandi canti. Mentre la brevissima esperienza biografica sembra conclusa e osservata a distanza, affiorano frammenti di letture (Virgilio, Omero, Orazio, Ariosto, Goethe) attraverso le quali la voce narrante nega la realtà tangibile a se stessa e all’intero mondo degli uomini, avvalendosi della dialettica di finito e infinito, soggetto e mondo, che troviamo al centro di tutta la meditazione romantica.
In Leopardi la frattura tra antico e moderno e la ricognizione continua della cultura antica non escludono l’interesse per i pensatori cronologicamente più vicini. Se possiamo documentare la lettura diretta di Teofrasto ed Epitteto, parzialmente tradotti, e il difficile rapporto con Platone, alternativamente criticato e ammirato, non possiamo ignorare che molti aspetti della cultura classica vengono recepiti da Leopardi attraverso repertori come il Florilegio delle Sententiae greche di Stobeo. Molte idee sulla cultura moderna romantica più che da letture dirette gli derivano dalle opere di Madame de Staël, ammirata come pensatrice e come scrittrice: La Germania e Corinne sono testi con i quali Leopardi continua a confrontarsi per tutta la vita. D’altra parte è sempre un’opera settecentesca, il Viaggio del giovane Anacarsi in Grecia dell’abate Jean-Jacques Barthélemy che rimodella, a cominciare dal 1823, la visione degli antichi che troveremo nelle prose morali. Mentre opere meno canoniche, quali ad esempio le Rovine del conte di Volney e l’Origine di tutti i culti di Charles Dupuis, confluiranno nella sperimentazione poetica dell’ultimo periodo napoletano (1833-1837), che viene emblematicamente riassunta nei versi del Tramonto della luna e della Ginestra.
Il punto di partenza ufficiale per lo sviluppo della dialettica tra antichi e moderni resta comunque la presa di posizione contro Di Breme e Byron nel Discorso di un italiano intorno alla poesia romantica (1818), dove la funzione della poesia è ancora strettamente connessa al rapporto dell’uomo con la natura; rapporto che il romanticismo sta stravolgendo in nome di una poesia "sentimentale". Per Leopardi invece "il poeta deve illudere, e illudendo imitar la natura, e imitando la natura dilettare". La consonanza con la natura diventa allora recupero della memoria, perché è nel primo momento della vita che la fantasia produce le condizioni di una prossimità poi perduta: "quello che furono gli antichi, siamo stati noi tutti, e quello che fu il mondo per qualche secolo, siamo stati noi per qualche anno, dico fanciulli e partecipi di quella ignoranza e di quei timori e di quei diletti e di quelle credenze e di quella sterminata operazione della fantasia". In seguito questa sicurezza andrà perduta, e allora si tratterà di elaborare una letteratura simile a quella di "antichi che pensassero alla moderna", cioè di riconoscere come inevitabile la poesia "sentimentale", in quanto è andata perduta l’immediatezza dell’immaginazione. Quest’ultima è però recuperabile in qualche modo grazie ai frammenti di rivelazione che passano attraverso i "moti del cuore".
Così, nel dicembre del 1821 e nel maggio del 1822, Leopardi scriverà i due grandi componimenti che danno voce agli antichi per esprimere la condizione tragica dell’esistenza: saranno Bruto minore e Saffo, un uomo e una donna, un eroe e una poetessa, le figure poste a segnare due grandi passaggi dell’umanità, antichi portatori di un pensiero universale. A questo punto la sperimentazione si muove su due piani paralleli: per quanto riguarda la poesia Leopardi comincia a percorrere la strada dell’interiorizzazione negli Idilli (e rispunterà fuori il progetto autobiografico), pur continuando ad usare lo stile alto e classicheggiante nelle Canzoni. Entrambi i progetti poetici vengono elaborati a partire dal 1818; le Canzoni sono pubblicate per la prima volta nel 1824, gli Idilli nel ’26. Il termine "idillio" è ripreso dalla letteratura greca, dove indicava un componimento di carattere pastorale. Leopardi invece usa quest’espressione con un’accezione interiore: "situazioni, affezioni, avventure storiche dell’animo mio" (così scrive nei Disegni letterari).
Due piani paralleli caratterizzano anche il rapporto con il passato, che si divide tra l’ammirazione incondizionata per gli esempi degli antichi e la loro irrisione dentro il tessuto fantastico della prosa meditativa delle Operette morali, che cominciano a delinearsi nella mente del poeta a partire dal 1820. Qui, nell’operetta dove Ercole e Atlante dialogano sulla fine della vita terrestre, l’epicureo Orazio diventa comicamente una macchietta che "va canticchiando certe sue canzonette, e fra l’altre una dove dice che l’uomo giusto non si muove se ben cade il mondo".
"Nella carriera poetica il mio spirito ha percorso lo stesso stadio che lo spirito umano in generale": così scrive Leopardi tra il giugno e il luglio del 1820 nello Zibaldone, la raccolta di pensieri e appunti che il poeta redige dal 1817 al 1832. Egli individua il passaggio "dallo stato antico al moderno" nello spegnersi dell’immaginazione e nella crescita della facoltà dell’invenzione applicata al pensiero e alla prosa. Proprio tra il 1821 e il 1823 si infittiscono le note sull’elaborazione di uno stile che crei l’illusione del piacere attraverso la sensazione dell’indefinito. Ci troviamo così di fronte a un passaggio che segna l’assetto definitivo dei Canti, raccolta in cui sono presenti gli idilli, le canzoni, i canti pisano-recanatesi (scritti tra il 1828 e il 1830) e i componimenti dell’ultima stagione poetica (tra cui La Ginestra e il ciclo di Aspasia).
Le grandi canzoni composte intorno al 1818-1820 contengono l’espressione di un dolore individuale sempre pronto a proiettarsi in un dolore pubblico. Qui la voce del poeta ha bisogno di un forte mezzo di contrasto per elevarsi e raggiungere il sublime: in All’Italia il compianto nei confronti della morta virtù giunge alla rievocazione del sacrificio delle Termopili attraverso il canto di Simonide, dove la partecipazione diventa autodistruzione ("Deh foss’io pur con voi qui sotto, e molle / fosse del sangue mio quest’alma terra"); nella canzone Ad Angelo Mai il richiamo ai poeti antichi diventa compianto sul "nulla" di oggi ("A noi le fasce / cinse il fastidio; a noi presso la culla / immoto siede, e sulla tomba, il nulla").
Al tempo stesso i materiali elaborati tra il 1819 e il 1821 (gli idilli) vanno nella direzione di un’analisi dell’interiorità dove l’esperienza sensistica, incentrata su percezioni soprattutto uditive filtrate dalla memoria, porta fino al punto estremo dell’annullamento dell’individuo e della storia umana: sono i momenti dell’ Infinito, della Sera del dì di festa e di Alla luna, in cui coesistono in un linguaggio vago e allusivo l’esperienza momentanea e la meditazione assoluta, priva ormai di legami con l’esistente: "Tutto è pace e silenzio, e tutto posa / il mondo" (La sera del dì di festa). La meditazione si aggancia con forza al ricordo personale e l’io del poeta, a differenza di quanto avveniva nelle canzoni, è presente solo quando richiama il passato: "Sempre caro mi fu", "Nella mia prima età", "O graziosa luna, io mi rammento che".
Non è un caso che questa prima stagione poetica sia seguita dall’esperimento della prosa; prosa satirica, come era stato più volte annunciato nelle lettere, quasi per vendicarsi del mondo, e quasi anche della virtù. Proprio al problema della virtù viene dedicata questa prosa che sta fra la scrittura di Luciano di Samosata e quella di Swift, e che va sotto la denominazione già di per sé ironica di Operette morali. Le operette, scritte in un solo anno, il 1824, sono in gran parte dialoghi, ma anche piccoli trattati, finti elogi o azioni comiche, che riprendono il genere della letteratura carnevalesca secondo cui i temi della cultura alta possono venire rovesciati con irriverenza e diventare oggetto di riso. Qui Leopardi si fa gioco soprattutto di un’immagine dell’uomo elaborata dalla cultura settecentesca ed esasperata nei suoi anni dallo spiritualismo progressista, secondo cui l’essere umano, figlio della ragione, è al centro del cosmo e domina la storia. Le situazioni fantastiche messe in scena da Leopardi deridono invece ogni pretesa di antropocentrismo e ogni ipotesi di soluzione filosofica: i giganti Ercole e Atlante giocano una partita a pallone usando il globo terrestre ormai privo di peso e valore; un folletto e uno gnomo discutono dell’estinzione della razza umana e dei possibili modi di colonizzare la terra; Prometeo compie un viaggio durante il quale verifica la pochezza della vita umana; Copernico viene convinto dal Sole che il nuovo sistema cosmico non prevede più la centralità del mondo; un venditore di almanacchi cerca di persuadere un passante incredulo del cambiamento possibile tra la fine di un anno e l’inizio di un altro. A ogni sicurezza della filosofia antica e moderna risponde uno sberleffo comico.
Giacomo Leopardi
L’infinito
Sempre caro mi fu quest’ermo colle,
e questa siepe, che da tanta parte
dell’ultimo orizzonte il guardo esclude.
Ma sedendo e mirando, interminati
spazi di là da quella, e sovrumani
silenzi, e profondissima quiete
io nel pensier mi fingo; ove per poco
il cor non si spaura. E come il vento
odo stormir tra queste piante, io quello
infinito silenzio a questa voce
vo comparando: e mi sovvien l’eterno,
e le morte stagioni, e la presente
e viva, e il suon di lei. Così tra questa
immensità s’annega il pensier mio:
e il naufragar m’è dolce in questo mare.
Giacomo Leopardi, Tutte le opere, a cura di W. Binni, Firenze, Sansoni, 1976
Giacomo Leopardi
La sera del dì di festa
Dolce e chiara è la notte e senza vento,
e queta sovra i tetti e in mezzo agli orti
posa la luna, e di lontan rivela
serena ogni montagna. O donna mia,
già tace ogni sentiero, e pei balconi
rara traluce la notturna lampa:
tu dormi, che t’accolse agevol sonno
nelle tue chete stanze; e non ti morde
cura nessuna; e già non sai né pensi
quanta piaga m’apristi in mezzo al petto.
Tu dormi: io questo ciel, che sì benigno
appare in vista, a salutar m’affaccio,
e l’antica natura onnipossente,
che mi fece all’affanno. A te la speme
nego, mi disse, anche la speme; e d’altro
non brillin gli occhi tuoi se non di pianto.
Questo dì fu solenne: or da’ trastulli
prendi riposo; e forse ti rimembra
in sogno a quanti oggi piacesti, e quanti
piacquero a te: non io, non già, ch’io speri,
al pensier ti ricorro. Intanto io chieggo
quanto a viver mi resti, e qui per terra
mi getto, e grido, e fremo. Oh giorni orrendi
in così verde etate! Ahi, per la via
odo non lunge il solitario canto
dell’artigian, che riede a tarda notte,
dopo i sollazzi, al suo povero ostello;
e fieramente mi si stringe il core,
a pensar come tutto al mondo passa,
e quasi orma non lascia. Ecco è fuggito
il dì festivo, ed al festivo il giorno
volgar succede, e se ne porta il tempo
ogni umano accidente. Or dov’è il suono
di que’ popoli antichi? or dov’è il grido
de’ nostri avi famosi, e il grande impero
di quella Roma, e l’armi, e il fragorio
che n’andò per la terra e l’oceano?
Tutto è pace e silenzio, e tutto posa
il mondo, e più di lor non si ragiona.
Nella mia prima età, quando s’aspetta
bramosamente il dì festivo, or poscia
ch’egli era spento, io doloroso, in veglia,
premea le piume; ed alla tarda notte
un canto che s’udia per li sentieri
lontanando morire a poco a poco,
già similmente mi stringeva il core.
Giacomo Leopardi, Tutte le opere, a cura di W. Binni, Firenze, Sansoni, 1976
Alla fine resta solo l’autore, col nome di Tristano (Dialogo di Tristano e di un Amico), a ribadire il messaggio negativo del suo sistema di pensiero, che ora identifica nella morte il solo desiderio possibile: "io quanto a me, con licenza vostra e del secolo, sono infelicissimo; e tale mi credo; e tutti i giornali dei due mondi non mi persuaderanno il contrario […] E di più vi dico francamente, ch’io non mi sottometto alla mia infelicità, né piego il capo al destino, o vengo seco a patti, come fanno gli altri uomini […] non invidio però i posteri, né quelli che hanno ancora a vivere lungamente. […] Invidio i morti, e solamente con loro mi cambierei […] Se ottengo la morte morrò così tranquillo e così contento, come se mai null’altro avessi sperato né desiderato al mondo".
Il 1824 non è solo da ricordare per la stesura delle Operette morali, ma anche perché vengono stampate a Bologna le dieci Canzoni. L’Annuncio che ne accompagna la stampa insiste sul fatto che si tratta di "dieci Canzoni, e più di dieci stravaganze", composte non in ossequio ma in contrapposizione alla tradizione lirica italiana. La stessa canzone Alla sua donna, di memoria petrarchesca e platonizzante, viene definita attraverso la categoria dell’impossibilità, richiamando la natura dei sogni di cui aveva parlato nelle Operette morali Tasso col suo genio familiare. Infatti, una volta che il ricorso al rovesciamento della tradizione è entrato nel sistema leopardiano attraverso la prosa è difficile non trovarlo in azione anche all’interno della poesia. Nella presentazione delle Canzoni Leopardi scrive: "la donna, cioè l’innamorata dell’autore, è una di quelle immagini, uno di quei fantasmi di bellezza e virtù celeste e ineffabile che ci occorrono spesso alla fantasia, nel sonno e nella veglia, quando siamo poco più che fanciulli, e poi qualche rara volta nel sonno, o in una quasi alienazione di mente, quando siamo giovani. Infine è la donna che non si trova […]".
Giacomo Leopardi
Dialogo di Tristano e di un amico
AMICO: Ho letto il vostro libro. Malinconico al vostro solito.
TRISTANO: Sì, al mio solito.
AMICO: Malinconico, sconsolato, disperato; si vede che questa vita vi pare una gran brutta cosa.
TRISTANO: Che v’ho a dire? io aveva fitta in capo questa pazzia, che la vita umana fosse infelice.
AMICO: Infelice sì forse. Ma pure alla fine...
TRISTANO: No no, felicissima. Ora ho cambiata opinione. Ma quando scrissi cotesto libro, io aveva quella pazzia in capo, come vi dico. E n’era tanto persuaso, che tutt’altro mi sarei aspettato, fuorché sentirmi volgere in dubbio le osservazioni ch’io faceva in quel proposito, parendomi che la coscienza d’ogni lettore dovesse rendere prontissima testimonianza a ciascuna di esse. Solo immaginai che nascesse disputa dell’utilità o del danno di tali osservazioni, ma non mai della verità: anzi mi credetti che le mie voci lamentevoli, per essere i mali comuni, sarebbero ripetute in cuore da ognuno che le ascoltasse. E sentendo poi negarmi, non qualche proposizione particolare, ma il tutto, e dire che la vita non è infelice, e che se a me pareva tale, doveva essere effetto d’infermità, o d’altra miseria mia particolare, da prima rimasi attonito, sbalordito, immobile come un sasso, e per più giorni credetti di trovarmi in un altro mondo; poi, tornato in me stesso, mi sdegnai un poco; poi risi, e dissi: gli uomini sono in generale come i mariti. I mariti, se vogliono viver tranquilli, è necessario che credano le mogli fedeli, ciascuno la sua; e così fanno; anche quando la metà del mondo sa che il vero è tutt’altro. Chi vuole o dee vivere in un paese, conviene che lo creda uno dei migliori della terra abitabile; e lo crede tale. Gli uomini universalmente, volendo vivere, conviene che credano la vita bella e pregevole; e tale la credono; e si adirano contro chi pensa altrimenti. Perché in sostanza il genere umano crede sempre, non il vero, ma quello che è, o pare che sia, più a proposito suo. Il genere umano, che ha creduto e crederà tante scempiataggini, non crederà mai né di non saper nulla, né di non essere nulla, né di non aver nulla a sperare. Nessun filosofo che insegnasse l’una di queste tre cose, avrebbe fortuna né farebbe setta, specialmente nel popolo: perché, oltre che tutte tre sono poco a proposito di chi vuol vivere, le sue prime offendono la superbia degli uomini, la terza, anzi ancora le altre due, vogliono coraggio e fortezza d’animo a essere credute. E gli uomini sono codardi, deboli, d’animo ignobile e angusto; docili sempre a sperar bene, perché sempre dediti a variare le opinioni del bene secondo che la necessità governa la loro vita; prontissimi a render l’arme, come dice il Petrarca, alla loro fortuna, prontissimi e risolutissimi a consolarsi di qualunque sventura, ad accettare qualunque compenso in cambio di ciò che loro è negato o di ciò che hanno perduto, ad accomodarsi con qualunque condizione a qualunque sorte più iniqua e più barbara, e quando sieno privati d’ogni cosa desiderabile, vivere di credenze false, così gagliarde e ferme, come se fossero le più vere o le più fondate del mondo. Io per me, come l’Europa meridionale ride dei mariti innamorati delle mogli infedeli, così rido del genere umano innamorato della vita; e giudico assai poco virile il voler lasciarsi ingannare e deludere come sciocchi, ed oltre ai mali che si soffrono, essere quasi lo scherno della natura e del destino. Parlo sempre degl’inganni non dell’immaginazione, ma dell’intelletto. Se questi miei sentimenti nascano da malattia, non so: so che, malato e sano, calpesto la vigliaccheria degli uomini, rifiuto ogni consolazione e ogn’inganno puerile, ed ho il coraggio di sostenere la privazione di ogni speranza, mirare intrepidamente il deserto della vita, non dissimularmi nessuna parte dell’infelicità umana, ed accettare tutte le conseguenze di una filosofia dolorosa, ma vera. La quale se non è utile ad altro, procura agli uomini forti la fiera compiacenza di vedere strappato ogni manto alla coperta e misteriosa crudeltà del destino umano. Io diceva queste cose fra me, quasi come se quella filosofia dolorosa fosse d’invenzione mia; vedendola così rifiutata da tutti, come si rifiutano le cose nuove e non più sentite. Ma poi, ripensando, mi ricordai ch’ella era tanto nuova, quanto Salomone e quanto Omero, e i poeti e i filosofi più antichi che si conoscano; i quali tutti sono pieni pienissimi di figure, di favole, di sentenze significanti l’estrema infelicità umana; e chi di loro dice che l’uomo è il più miserabile degli animali; chi dice che il meglio è non nascere, e per chi è nato, morire in cuna; altri, che uno che sia caro agli Dei, muore in giovanezza, ed altri altre cose infinite su questo andare. E anche mi ricordai che da quei tempi insino a ieri o all’altr’ieri, tutti i poeti e tutti i filosofi e gli scrittori grandi e piccoli, in un modo o in un altro, avevano ripetute o confermate le stesse dottrine. Sicché tornai di nuovo a maravigliarmi: e così tra la maraviglia e lo sdegno e il riso passai molto tempo: finché studiando più profondamente questa materia, conobbi che l’infelicità dell’uomo era uno degli errori inveterati dell’intelletto, e che la falsità di questa opinione, e la felicità della vita, era una delle grandi scoperte del secolo decimonono. Allora m’acquetai, e confesso ch’io aveva il torto a credere quello ch’io credeva.
AMICO: E avete cambiata opinione?
TRISTANO: Sicuro. Volete voi ch’io contrasti alle verità scoperte dal secolo decimonono?
AMICO: E credete voi tutto quello che crede il secolo?
TRISTANO: Certamente. Oh che maraviglia?
AMICO: Credete dunque alla perfettibilità indefinita dell’uomo?
TRISTANO: Senza dubbio.
AMICO: Credete che in fatti la specie umana vada ogni giorno migliorando?
TRISTANO: Sì certo. E’ ben vero che alcune volte penso che gli antichi valevano, delle forze del corpo, ciascuno per quattro di noi. E il corpo è l’uomo; perché (lasciando tutto il resto) la magnanimità, il coraggio, le passioni, la potenza di fare, la potenza di godere, tutto ciò che fa nobile e viva la vita, dipende dal vigore del corpo, e senza quello non ha luogo. Uno che sia debole di corpo, non è uomo, ma bambino; anzi peggio; perché la sua sorte è di stare a vedere gli altri che vivono, ed esso al più chiacchierare, ma la vita non è per lui. E però anticamente la debolezza del corpo fu ignominiosa, anche nei secoli più civili. Ma tra noi già da lunghissimo tempo l’educazione non si degna di pensare al corpo, cosa troppo bassa e abbietta: pensa allo spirito; e appunto volendo coltivare lo spirito, rovina il corpo; senza avvedersi che rovinando questo, rovina a vicenda anche lo spirito. E dato che si potesse rimediare in ciò all’educazione, non si potrebbe mai senza mutare radicalmente lo stato moderno della società, trovare rimedio che valesse in ordine alle altre parti della vita privata e pubblica, che tutte, di proprietà loro, cospirarono anticamente a perfezionare o a conservare il corpo, e oggi cospirano a depravarlo. L’effetto è che a paragone degli antichi noi siamo poco più che bambini, e che gli antichi a confronto nostro si può dire più che mai che furono uomini. Parlo così degl’individui paragonati agl’individui, come delle masse (per usare questa leggiadrissima parola moderna) paragonate alle masse. Ed aggiungo che gli antichi furono incomparabilmente più virili di noi anche ne’ sistemi di morale e di metafisica. A ogni modo io non mi lascio muovere da tali piccole obbiezioni, credo costantemente che la specie umana vada sempre acquistando.
AMICO: Credete ancora, già s’intende, che il sapere, o, come si dice, i lumi, crescano continuamente.
TRISTANO: Certissimo. Sebbene vedo che quando cresce la volontà d’imparare, tanto scema quella di studiare. Ed è cosa che fa maraviglia a contare il numero dei dotti, ma veri dotti, che vivevano contemporaneamente cencinquant’anni addietro, e anche più tardi, e vedere quanto fosse smisuratamente maggiore di quello dell’età presente. Né mi dicano che i dotti sono pochi perché in generale le cognizioni non sono più accumulate in alcuni individui, ma divise fra molti; e che la copia di questi compensa la rarità di quelli. Le cognizioni non sono come le ricchezze, che si dividono e si adunano, e sempre fanno la stessa somma. Dove tutti sanno poco, e’ si sa poco; perché la scienza va dietro alla scienza, e non si sparpaglia. L’istruzione superficiale può essere, non propriamente divisa fra molti, ma comune a molti non dotti. Il resto del sapere non appartiene se non a chi sia dotto, e gran parte di quello a chi sia dottissimo. E, levati i casi fortuiti, solo chi sia dottissimo, e fornito esso individualmente di un immenso capitale di cognizioni, è atto ad accrescere solidamente e condurre innanzi il sapere umano. Ora, eccetto forse in Germania, donde la dottrina non è stata ancora potuta snidare, non vi par egli che il veder sorgere di questi uomini dottissimi divenga ogni giorno meno possibile? Io fo queste riflessioni così per discorrere, e per filosofare un poco, o forse sofisticare; non ch’io non sia persuaso di ciò che voi dite. Anzi quando anche vedessi il mondo tutto pieno d’ignoranti impostori da un lato, e d’ignoranti presuntuosi dall’altro, nondimeno crederei, come credo, che il sapere e i lumi crescano di continuo.
AMICO: In conseguenza, credete che questo secolo sia superiore a tutti i passati.
TRISTANO: Sicuro. Così hanno creduto di se tutti i secoli, anche i più barbari; e così crede il mio secolo, ed io con lui. Se poi mi dimandaste in che sia egli superiore agli altri secoli, se in ciò che appartiene al corpo o in ciò che appartiene allo spirito, mi rimetterei alle cose dette dianzi.
AMICO: In somma, per ridurre il tutto in due parole, pensate voi circa la natura e i destini degli uomini e delle cose (poiché ora non parliamo di letteratura né di politica) quello che ne pensano i giornali?
TRISTANO: Appunto. Credo ed abbraccio la profonda filosofia de’ giornali, i quali uccidendo ogni altra letteratura e ogni altro studio, massimamente grave e spiacevole, sono maestri e luce dell’età presente. Non è vero?
AMICO: Verissimo. Se cotesto che dite, è detto da vero e non da burla, voi siete diventato de’ nostri.
TRISTANO: Sì certamente, de’ vostri.
AMICO: Oh dunque, che farete del vostro libro? Volete che vada ai posteri con quei sentimenti così contrari alle opinioni che ora avete?
TRISTANO: Ai posteri? Io rido, perché voi scherzate; e se fosse possibile che non ischerzaste, più riderei. Non dirò a riguardo mio, ma a riguardo d’individui o di cose individuali del secolo decimonono, intendere bene che non v’è timore di posteri, i quali ne sapranno tanto, quanto ne seppero gli antenati. Gl’individui sono spariti dinanzi alle masse, dicono elegantemente i pensatori moderni. Il che vuol dire ch’è inutile che l’individuo si prenda nessun incomodo, poiché, per qualunque suo merito, né anche quel misero premio della gloria gli resta più da sperare né in vigilia né in sogno. Lasci fare alle masse; le quali che cosa sieno per fare senza individui, essendo composte d’individui, desidero e spero che me lo spieghino gl’intendenti d’individui e di masse, che oggi illuminano il mondo. Ma per tornare al proposito del libro e de’ posteri, i libri specialmente, che ora per lo più si scrivono in minor tempo che non ne bisogna a leggerli, vedete bene che, siccome costano quel che vagliono, così durano a proporzione di quel che costano. Io per me credo che il secolo venturo farà un bellissimo frego sopra l’immensa bibliografia del secolo decimonono; ovvero dirà: io ho biblioteche intere di libri che sono costati quali venti, quali trenta anni di fatiche, e quali meno, ma tutti grandissimo lavoro. Leggiamo questi prima, perché la verisimiglianza è che da loro si cavi maggior costrutto; e quando di questa sorta non avrò più che leggere, allora metterò mano ai libri improvvisati. Amico mio, questo secolo è un secolo di ragazzi, e i pochissimi uomini che rimangono, si debbono andare a nascondere per vergogna, come quello che cammina diritto in paese di zoppi. E questi buoni ragazzi vogliono fare in ogni cosa quello che negli altri tempi hanno fatto gli uomini, e farlo appunto da ragazzi, così a un tratto, senza altre fatiche preparatorie. Anzi vogliono che il grado al quale è pervenuta la civiltà, e che l’indole del tempo presente e futuro, assolvano essi e loro successori in perpetuo da ogni necessità di sudori e fatiche lunghe per divenire atti alle cose. Mi diceva, pochi giorni sono, un mio amico, uomo di maneggi e di faccende, che anche la mediocrità è divenuta rarissima; quasi tutti sono inetti, quasi tutti insufficienti a quegli uffici o a quegli esercizi a cui necessità o fortuna o elezione gli ha destinati. In ciò mi pare che consista in parte la differenza ch’è da questo agli altri secoli. In tutti gli altri, come in questo, il grande è stato rarissimo; ma negli altri la mediocrità ha tenuto il campo, in questo la nullità. Onde è tale il romore e la confusione, volendo tutti esser tutto, che non si fa nessuna attenzione ai pochi grandi che pure credo che vi sieno; ai quali, nell’immensa moltitudine de’ concorrenti, non è più possibile di aprirsi una via. E così, mentre tutti gl’infimi si credono illustri, l’oscurità e la nullità dell’esito diviene il fato comune e degl’infimi e de’ sommi. Ma viva la statistica! vivano le scienze economiche, morali e politiche, le enciclopedie portatili, i manuali, e le tante belle creazioni del nostro secolo! e viva sempre il secolo decimonono! forse povero di cose, ma ricchissimo e larghissimo di parole: che sempre fu segno ottimo, come sapete. E consoliamoci, che per altri sessantasei anni, questo secolo sarà il solo che parli, e dica le sue ragioni.
AMICO: Voi parlate, a quanto pare, un poco ironico. Ma dovreste almeno all’ultimo ricordarvi che questo è un secolo di transizione.
TRISTANO: Oh che conchiudere voi da cotesto? Tutti i secoli, più o meno, sono stati e saranno di transizione, perché la società umana non istà mai ferma, né mai verrà secolo nel quale ella abbia stato che sia per durare. Sicché cotesta bellissima parola o non iscusa punto il secolo decimonono, o tale scusa gli è comune con tutti i secoli. Resta a cercare, andando la società per la via che oggi si tiene, a che si debba riuscire, cioè se la transizione che ora si fa, sia dal bene al meglio o dal male al peggio. Forse volete dirmi che la presente è transizione per eccellenza, cioè un passaggio rapido da uno stato della civiltà ad un altro diversissimo dal precedente. In tal caso chiedo licenza di ridere di cotesto passaggio rapido, e rispondo che tutte le transizioni conviene che sieno fatte adagio; perché se si fanno a un tratto, di là a brevissimo tempo si torna indietro, per poi rifarle a grado a grado. Così è accaduto sempre. La ragione è, che la natura non va a salti, e che forzando la natura, non si fanno effetti che durino. Ovvero, per dir meglio, quelle tali transizioni precipitose sono transizioni apparenti, ma non reali.
AMICO: Vi prego, non fate di cotesti discorsi con troppe persone, perché vi acquisterete molti nemici.
TRISTANO: Poco importa. Oramai né nimici né amici mi faranno gran male.
AMICO: O più probabilmente sarete disprezzato, come poco intendente della filosofia moderna, e poco curante del progresso della civiltà e dei lumi.
TRISTANO: Mi dispiace molto, ma che s’ha a fare? se mi disprezzeranno, cercherò di consolarmene.
AMICO: Ma in fine avete voi mutato opinioni o no? e che s’ha egli a fare di questo libro?
TRISTANO: Bruciarlo è il meglio. Non lo volendo bruciare, serbarlo come un libro di sogni poetici, d’invenzioni e di capricci malinconici, ovvero come un’espressione dell’infelicità dell’autore: perché in confidenza, mio caro amico, io credo felice voi e felici tutti gli altri; ma io quanto a me, con licenza vostra e del secolo, sono infelicissimo; e tale mi credo; e tutti i giornali de’ due mondi non mi persuaderanno il contrario.
AMICO: Io non conosco le cagioni di cotesta infelicità che dite. Ma se uno sia felice o infelice individualmente, nessuno è giudice se non la persona stessa, e il giudizio di questa non può fallare.
TRISTANO: Verissimo. E di più vi dico francamente, ch’io non mi sottometto alla mia infelicità, né piego il capo al destino, o vengo seco a patti, come fanno gli altri uomini; e ardisco desiderare la morte, e desiderarla sopra ogni cosa, con tanto ardore e con tanta sincerità, con quanta credo fermamente che non sia desiderata al mondo se non da pochissimi. Né vi parlerei così se non fossi ben certo che, giunta l’ora, il fatto non ismentirà le mie parole, perché quantunque io non vegga ancora alcun esito alla mia vita, pure ho un sentimento dentro, che quasi mi fa sicuro che l’ora ch’io dico non sia lontana. Troppo sono maturo alla morte, troppo mi pare assurdo e incredibile di dovere, così morto come sono spiritualmente, così conchiusa in me da ogni parte la favola della vita, durare ancora quaranta o cinquant’anni, quanti mi sono minacciati dalla natura. Al solo pensiero di questa cosa io rabbrividisco. Ma come ci avviene di tutti quei mali che vincono, per così dire, la forza immaginativa, così questo mi pare un sogno e un’illusione, impossibile a verificarsi. Anzi se qualcuno mi parla di un avvenire lontano come di cosa che mi appartenga, non posso tenermi dal sorridere fra me stesso: tanta confidenza ho che la via che mi resta a compiere non sia lunga. E questo, posso dire, è il solo pensiero che mi sostiene. Libri e studi, che spesso mi maraviglio d’aver tanto amato, disegni di cose grandi, e speranze di gloria e d’immortalità, sono cose delle quali è anche passato il tempo di ridere. Dei disegni e delle speranze di questo secolo non rido: desidero loro con tutta l’anima ogni miglior successo possibile, e lodo, ammiro ed onoro altamente e sincerissimamente il buon volere: ma non invidio però i posteri né quelli che hanno ancora a vivere lungamente. In altri tempi ho invidiato gli sciocchi e gli stolti, e quelli che hanno un gran concetto di se medesimi; e volentieri mi sarei cambiato con qualcuno di loro. Oggi non invidio più né stolti né savi, né grandi né piccoli, né deboli né potenti. Invidio i morti, e solamente con loro mi cambierei. Ogni immaginazione piacevole, ogni pensiero dell’avvenire, ch’io fo, come accade, nella mia solitudine, e con cui vo passando il tempo, consiste nella morte, e di là non sa uscire. Né in questo desidero la ricordanza dei sogni della prima età, e il pensiero d’esser vissuto invano, mi turbano più, come solevano. Se ottengo la morte morrò così tranquillo e così contento, come se mai null’altro avessi sperato né desiderato al mondo. Questo è il solo benefizio che può riconciliarmi al destino. Se mi fosse proposta da un lato la fortuna e la fama di Cesare o di Alessandro netta da ogni macchia, dall’altro di morir oggi, e che dovessi scegliere, io direi, morir oggi, e non vorrei tempo a risolvermi.
Giacomo Leopardi, Operette morali, in Tutte le opere, a cura di W. Binni, Firenze, Sansoni, 1976
Giacomo Leopardi
A se stesso
Or poserai per sempre,
stanco mio cor. Perì l’inganno estremo,
ch’eterno io mi credei. Perì. Ben sento,
in noi di cari inganni,
Non che la speme, il desiderio è spento.
Posa per sempre. Assai
palpitasti. Non val cosa nessuna
i moti tuoi, né di sospiri è degna
la terra. Amaro e noia
la vita, altro mai nulla; e fango è il mondo.
T’acqueta omai. Dispera
l’ultima volta. Al gener nostro il fato
non donò che il morire. Omai disprezza
te, la natura, il brutto
poter che, ascoso, a comun danno impera,
e l’infinita vanità del tutto.
Giacomo Leopardi, Tutte le opere, a cura di W. Binni, Firenze, Sansoni, 1976
L’edizione successiva (1826) include, a documentare la definitiva caduta delle illusioni, l’ Epistola al Pepoli, vera e propria sconfessione dell’ideale classico di otium a cui si contrappone il negativo "ozio" della vita moderna: "È tutta, / in ogni umano stato, ozio la vita". Il finale dell’ Epistola allude a un definitivo passaggio dalla poesia allo studio del vero; come se solo ora, consumata l’esperienza della prosa satirica e concluso il primo ciclo importante della sua poesia, Leopardi accetti un confronto con la durezza del reale, dopo aver eliminato totalmente i "dolci inganni". Si tratta di un’ulteriore riconsiderazione delle meditazioni passate e dei materiali biografici, dal momento che il passaggio dalla poesia al pensiero è già stato registrato, come abbiamo visto, all’altezza del 1820.
E la seconda parte della produzione poetica, quella conosciuta con il titolo di Canti, vedrà una nuova discussione di questo assetto. Ritorneranno così i modi idillici, anche se profondamente rivisti in una nuova direzione autobiografica: dopo Il Risorgimento, inno di cadenza settecentesca rivolto alla rinascita dell’ispirazione, A Silvia, Le ricordanze, La quiete dopo la tempesta, Il sabato del villaggio sono i momenti di una rievocazione del passato che non può dimenticare la durezza del pensiero della morte, incarnata in figure allegoriche (Silvia, Nerina) che presentano la fisionomia simbolica del mito classico calato nella realtà quotidiana di Recanati.
È un’opera incompiuta e non pubblicata a indicare una possibile fase della nuova indagine del pensiero leopardiano: il Discorso sopra lo stato presente dei costumi degl’italiani, un’interessante indagine che sta tra la sociologia e l’antropologia; mentre nell’ultimo componimento poetico, la testamentaria Ginestra, lo scontro tra storia e natura che il pensiero ottocentesco risolve dialetticamente viene prospettato come contrasto mitico e assoluto, ed elaborato in tre immagini sovrapposte: la ginestra che resiste alla lava del vulcano, l’io del poeta che medita sull’infinità del cosmo, la catena degli uomini che cerca di opporsi ai danni del sistema naturale. Questa l’ultima parola di Leopardi, sempre che non si voglia pensare alle ottave feroci dei Paralipomeni, dettate in punto di morte all’amico Ranieri, dove un topo coraggioso interroga le anime dei defunti e sente come risposta levarsi un "suon giocondo" che assomiglia al riso, dal momento che "alla gente morta / questa vita di qua niente importa".