LOMELLINI, Giacomo
Nacque a Genova nel 1570 da Nicolò e da Battina Lomellini, di altro ramo della famiglia, vedova di Cattaneo Spinola e sposata in seconde nozze.
Sono molto labili le indicazioni che si riescono a ricavare sugli anni giovanili e sulla sua formazione culturale. Se l'immagine fornita a posteriori di una gioventù esemplare trascorsa con grande serietà tra gli studi e la pratica delle armi rientra nei canoni di uno stereotipo cliché retorico-letterario, è pure vero che essa, nel caso del L., corrisponde a verità, e gli studi giovanili dovettero essere di solida impostazione, come conferma la facilità con la quale ebbe a frequentare gli ambienti letterari e culturali e a farne pure parte. Come attestava enfaticamente il letterato Pier Francesco Guano, il L. dimostrò precocemente "senno maturo" e "virile", facendo prevalere "la ragione severa" e superando senza fatica insidie e distrazioni dell'età giovanile.
Al compimento dei venticinque anni, l'età richiesta per poter ricoprire gli incarichi pubblici, il L. intraprese l'usuale cursus honorum degli aristocratici genovesi, soprattutto se di influente e importante famiglia come la sua, iniziando a ricoprire gli uffici meno impegnativi e più distanti dalla capitale, seppur prestigiosi: nel 1596 fu mandato a Savona come uno dei commissari della fortezza; quindi, nel febbraio 1599, fece parte dei venti "gentilhuomini" incaricati di accogliere e alloggiare a Fassolo e in città la numerosa corte che accompagnava nel viaggio a Madrid la nuova regina di Spagna, Margherita d'Austria, sposa di Filippo III. In quell'anno il L. era nella Riviera di Levante a ricoprire il delicato incarico di sindicatore dei giusdicenti, l'autorità deputata al controllo e alla verifica della correttezza dell'azione degli amministratori che operavano nei maggiori centri periferici della Repubblica genovese. Nel 1604 fu chiamato al Magistrato agli straordinari, quindi (1608) al Magistrato di Corsica. Nel quinquennio successivo alternò ripetutamente periodici incarichi in tali uffici alle funzioni svolte nel Magistrato dei cambi. Infine, nel 1618, ricoprì nuovamente la carica di commissario della fortezza di Savona. A conclusione di quel lungo apprendistato politico-amministrativo, nel giugno 1621 fu nominato senatore e, quasi contemporaneamente, fu inserito nella rosa dei candidati al dogato senza tuttavia riuscire a esservi eletto. Nella veste di senatore ricoprì gli uffici di supremo sindicatore e preside del Magistrato di sanità, occupandosi - allora così come negli anni successivi al 1627 - della lotta contro i banditi che infestavano le vallate liguri.
Non gli erano di peso le incombenze caritativo-assistenziali che gli derivavano dall'essere ripetutamente chiamato a ricoprire la magistratura dell'Ufficio dei poveri: in quegli incarichi, anzi, operò sempre con larga generosità. "Piissimo cavagliere", seguendo un costume peraltro tipico dell'aristocrazia genovese d'antico regime - pronto ad adeguarsi all'immagine dell'uomo di governo così come elaborata dalla trattatistica politica postridentina -, le sue opere di beneficenza furono numerose e meritevoli di memoria, tanto che l'ospedale di Pammatone e quello degli Incurabili gli eressero una statua in marmo, ciascuno in segno di riconoscenza per le sue donazioni e la sua azione a loro favore. Smessa la toga senatoria, continuò a ricoprire le magistrature economiche, occupandosi di tasse, cambi, finanze.
Sostenuto dalla Francia, nel marzo 1625 il duca di Savoia Carlo Emanuele I mosse guerra contro Genova. Con procedura eccezionale, e per evitare pericolosi vuoti di potere, l'elezione biennale del nuovo doge fu anticipata di nove giorni e in poche ore, il 16 giugno, il L. fu eletto alla suprema carica della Repubblica.
Nonostante la rapidità di scelta, non fu comunque elezione unanime: il L. raccolse 206 voti su 712, mentre il suo più diretto concorrente (Giovanni Andrea Pallavicini) non superò i 153 suffragi (ancor meno ne ottennero gli altri candidati).
L'impegno del doge si concentrò ovviamente sulla difesa della capitale e del territorio della Repubblica, occupato a occidente dalle truppe franco-piemontesi. A questo scopo egli potenziò le fortezze di Genova, Gavi e Savona, e strinse una preziosa alleanza con la potente Spagna. Drastica fu pure la repressione dei disordini interni e della ribellione di alcune popolazioni, che tentarono di approfittare del momento di crisi per protestare contro la non facile situazione economica e sociale. Dopo le sconfitte iniziali, le sorti sul campo mutarono a favore degli Ispano-Liguri: il L. fu subito invocato come "salvatore della patria" e, superata la fase più difficile della guerra, il 4 ottobre si tenne la cerimonia della sua incoronazione.
L'orazione religiosa fu tenuta dal domenicano genovese Nicolò Riccardi, reggente della Minerva, quella civile da P.F. Guano. Nei discorsi gli oratori sottolinearono la difficile situazione vissuta in quei mesi e non furono alieni dal fare ricorso alla retorica della "nazione in armi" contro i nemici politici e religiosi. Riccardi giunse a paragonare il conflitto a una crociata in difesa della fede a causa della presenza di ugonotti nell'esercito francese. Guano si appellò vigorosamente al "patriottismo ligure" ed esaltò la libertà genovese, celebrando nel L. la figura più adatta a condurre la Repubblica alla vittoria e invitandolo a deporre le armi solo di fronte alla conquista di "perfetta e durevole pace". L'evento fu accompagnato dal volume celebrativo (edito nel 1626 e dedicato al figlio Nicolò) che raccoglieva - "in lode del serenissimo prencipe Iacopo Lomellino", questo "heroe i cui meriti non han fine" - insieme con le orazioni, numerose poesie di Pier Giuseppe Giustiniani, Gabriello Chiabrera, Luca Assarino, Giovan Francesco Spinola, Giovangirolamo Cervetti, Bernardo Morando e altri. Vi era compresa una composizione poetica del Lomellini.
Per garantire la sicurezza della capitale, nel corso del suo dogato il L. si fece attivo promotore del progetto di una nuova e imponente cinta muraria che doveva abbracciare Genova dal colle di S. Benigno sino alla foce del Bisagno, poderosa struttura che costituì la base della difesa cittadina sino a Ottocento inoltrato. La prima pietra fu posata dal doge il 7 dic. 1626, accompagnato con solenne processione dai serenissimi Collegi, da tutto il clero e dalle Confraternite. Il finanziamento dell'opera diede vita a una gara di generosità alla quale concorsero privati, corporazioni, arti, Casaccie, ma il peso maggiore fu sopportato dai ceti meno abbienti tramite l'introduzione di una tassa che gravava su tutti i cittadini di età superiore ai 15 anni: si raccolsero 2.100.000 lire, comunque non sufficienti a coprire il costo dell'immensa opera.
Terminato, il 25 giugno 1627, il biennio ducale, il 1° gennaio successivo il L. fu eletto a capo del Magistrato di guerra: in tale veste, nell'aprile 1628, contribuì a sventare la minaccia della congiura di Giulio Cesare Vachero, appoggiata da Carlo Emanuele I di Savoia, raccogliendo le confidenze di uno dei congiurati. Restò alla guida di quell'ufficio per il triennio successivo, con l'incarico particolare di seguire i lavori di costruzione delle mura, che in effetti iniziarono realmente nel 1630 con la costituzione del Magistrato delle nuove mura: a dirigerlo fu subito chiamato il L., che occupò l'incarico per tre intensi anni e, nel dicembre 1632, poté vantare di aver portato a compimento l'eccezionale opera muraria, per una lunghezza di circa 12 miglia con una spesa totale di 10.000.000 di lire e l'impiego di non meno di 8.000 operai. Negli anni successivi si trovò ancora a capo di diversi uffici: nel 1634 guidava il Magistrato di Corsica; nel 1637 e nuovamente nel 1644 gli inquisitori di Stato; dal 1645 alla morte presiedette la direzione della fabbrica di Palazzo ducale, periodo in cui l'edificio fu sottoposto a importanti modifiche.
Nella capitazione del 1637 il L. figurava come uno dei maggiori plutocrati genovesi, al quarto posto nell'elenco dei più doviziosi patrizi cittadini, tassato per un patrimonio che ammontava a 2.144.444 lire. Una parte cospicua era investita in Spagna, dove il L. vantava forti e sostanziali interessi. Malgrado ciò, nel corso degli anni Trenta manifestò risolutamente la sua opposizione all'alleanza con la Spagna, con la quale fin dal 1626 si erano approfonditi i contrasti per due motivi: in primo luogo a causa dell'avvicinamento spagnolo al duca di Savoia in funzione antifrancese, vissuto dai Genovesi come un tradimento; in secondo luogo a motivo della bancarotta dichiarata dal re Filippo IV nel 1627, che mise in difficoltà gli investitori genovesi, i maggiori finanziatori della Corona spagnola.
Il L. si diceva disposto a sacrificare tutto il patrimonio e ogni utile individuale a beneficio della patria, che si traduceva nel distacco di Genova dall'influenza della Spagna, e si era schierato a favore dell'assunzione di un nuovo e autonomo ruolo politico della Repubblica sullo scacchiere europeo. In breve, egli divenne l'idolo dei "repubblichisti" e uno dei garanti del distacco dalla tutela spagnola, individuato nel 1633 dall'ambasciatore Francisco de Melo tra i più pericolosi capi della fazione nobiliare antispagnola.
Si impegnò così a sostegno della politica di riarmo della flotta pubblica, decisa dal Senato con la costruzione di 40 galee, una scelta che doveva sostanziare la ritrovata autonomia in politica estera, e con un gesto clamoroso nel 1642 si addossò il finanziamento della costruzione e dell'armamento di una galera per una somma di circa 29.000 lire.
Il L. ebbe quattro mogli: Violante Pinelli, Barbara Spinola, Maddalena Grillo e, ultima, Pellegra Spinola. Dalla prima ebbe i figli Nicolò (nato nel 1590), Battina, Giovan Francesco (nato nel 1601), Giovanna; dalla seconda, Vittoria (andata in sposa nel 1627) e Agostino (nato nel 1622); dalla terza, Teresa, probabilmente monacata.
A partire dal secondo decennio del Seicento instaurò, o approfondì, importanti rapporti di patronage, affinità culturale e amicizia con intellettuali quali il letterato e storico sarzanese Agostino Mascardi, il poeta G. Chiabrera, il poligrafo e giornalista L. Assarino.
La dedica con la quale, nel 1622, Mascardi ricordò, nel volume delle Orazioni, il suo debito di riconoscenza verso il L., ne testimonia il ruolo di mecenate. Il libro era uscito, infatti, in splendida edizione tipografica dai torchi di Giuseppe Pavoni non senza un probabile contributo finanziario del Lomellini. Mascardi - rifugiatosi a Genova a seguito della rottura con la Compagnia di Gesù - fu, tra l'altro, uno dei protagonisti della scena culturale genovese del primo Seicento, fautore del rinnovamento della locale Accademia degli Addormentati.
Conferma le aperture culturali del L. la sua partecipazione alla più attiva istituzione culturale di quegli anni, gli Addormentati appunto, dove, accanto a Mascardi, ebbe modo di frequentare il medico "filosofo" Bartolomeo Della Torre, P.G. Giustiniani e il gruppo di uomini di lettere e aristocratici che ne facevano parte.
Non meno intensi i suoi interessi nel campo delle belle arti: il pittore Luciano Borzone fu per anni il suo consulente artistico e si legò, almeno come committente, all'architetto Bartolomeo Bianco e ad artisti di grande fama come Domenico Fiasella e Antoon Van Dyck. Tra il 1617 e il 1623 il L. fece erigere la sua abitazione nella zona della Zecca (l'attuale palazzo Lomellini-Patrone), da Rubens inserito nella celebre opera sui più importanti palazzi "moderni" genovesi. Ne affidò la decorazione pittorica a Fiasella, che vi dipinse Le storie di Esther, un ciclo che si rifaceva al recente poema La reina Esther (1615) di Ansaldo Cebà, in cui le vicende dell'eroina biblica erano reinterpretate in chiave "repubblicana" e alla luce delle questioni politiche contemporanee che coinvolgevano Genova. Si rivolse pure ai maggiori pittori per fare ritrarre se stesso e i familiari. Il più noto ritratto è quello commissionato a Van Dyck, in cui l'artista fiammingo fermò su tela la famiglia del L. nel periodo della guerra contro il duca di Savoia del 1625. A sottolineare la drammaticità del momento, con un incisivo messaggio ideologico e di autorappresentazione, essa è raffigurata priva del doge-capo famiglia (assente sia per evitare l'accusa di regalismo, ove si fosse fatto ritrarre in abiti dogali insieme con i familiari, sia per rimarcare la sua totale dedizione all'organizzazione della difesa della città), ma con il figlio primogenito Nicolò in corazza e lancia spezzata al fianco, a simboleggiare il fresco rientro dai combattimenti contro il duca di Savoia.
Nel 1629 il L. fece costruire un'imponente villa a Genova Prà, l'attuale villa Lomellini Doria Podestà, su progetto architettonico di B. Bianco.
Il L. morì a Genova il 1° apr. 1652 e fu sepolto nella chiesa della Nunziata del Vastato, da tempo patrocinata dalla famiglia.
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