BRIGNOLE, Giacomo Maria
Nacque a Genova il 10 dic. 1724 da Francesco Maria e da Lavinia Spinola. Della sua educazione e degli studi nulla è noto; giovanissimo. si diede al commercio, nel quale acquisì pratica e competenza tali che, in seno al governo, gli furono preferibilmente conferiti incarichi relativi ai traffici e alle finanze. Infatti, ascritto al libro d'oro nel 1746, dopo aver ricoperto l'ufficio di provvisore del Vino, dal 1763 appartenne quasi costantemente alla deputazione del Commercio, alla quale era demandata la soluzione di tutti i problemi in materia economico-finanziaria, e ricoprì l'ufficio di coadiutore camerale, cioè addetto alle finanze. Ma oltre che per le cariche ricoperte, la sua attiva partecipazione ai problemi della Repubblica si dimostrò nel corso delle sedute del Minor Consiglio, nei cui verbali manoscritti la parola del B., negli anni tra il 1761 e il 1779, ritorna frequente e appassionata, lumeggiando direttamente le sue idee politiche ed economiche.
La contemporanea attività di protettore del Banco di S. Giorgio gli procurò, nei primi mesi del 1763, accuse di parzialità da parte di Stefano Lomellini, incurante delle quali il B., convinto che "una buona politica deriva da una buona economia" (Genova, Arch. di Stato, Ricordi del Senato, f. 1641, 8 genn. 1768), si fece assertore della legge di portofranco per la capitale e dell'erezione di un lazzaretto nel golfo del Varignano; quindi (dicembre 1764)propose di riattivare i rapporti politico-economici con la Spagna tramite l'influenza del Grimaldi e sostenne la limitazione delle spese interne attraverso una severa legge suntuaria estesa al terzo ceto.
La cattiva amministrazione della giustizia, la mancanza di attaccamento al dovere dei governanti, ma soprattutto la scarsezza di mezzi economici sono, come il B. dichiara in un lunghissimo e appassionato intervento nella seduta del febbraio 1765, le vere cause della rovina di tutti i governi e, in particolare, della debolezza politica della Repubblica ligure. L'adozione di biglietti di sconto, analoghi alle lettere di cambio; l'istituzione di un Tribunale dei fallimenti; l'estensione a tutto il territorio della Repubblica delle favorevoli condizioni monopolistiche di acquisto del grano già vigenti nella capitale, sono provvedimenti essenziali ma non decisivi: solo misure atte a riattivare le esangui industrie (lavorazione della carta, della seta, della lana ecc.) costituiscono per il B. l'unica possibilità di rinascita economica, e quindi politica, per la Repubblica. L'atteggiamento politico del B. è tipico della nobiltà conservatrice, finanziariamente ricca, del secondo Settecento genovese, in più colorato da un certo moralismo bigotto che, facendogli addirittura ritenere, "riflettendo da filosofo morale" (7 genn. 1764), che la Repubblica avesse perduto la "protezione del cielo" per la posizione troppo drastica assunta nei confronti dei problemi ecclesiastici, gli fece assumere una posizione contrastante il generale indirizzo giurisdizionalista del governo e lo fece particolarmente sensibile al problema della moralizzazione del costume (tanto da chiedere la pena di morte per le donne di malaffare) e, con più concreto riflesso ideologico-politico, della censura libraria.
Il B. prese parte anche al magistrato di Corsica proprio negli anni della graduale cessione dell'isola alla Francia, contro la quale si era battuto in seno al governo il fratello Gian Carlo. La posizione del B. fu invece molto conciliante: dopo aver creduto, o finto di credere, nella possibilità di mediazione diplomatica della vicina potenza, nella seduta governativa del 13 febbr. 1768 si dichiarò apertamente per la cessione definitiva dell'isola, seguendo la linea politica del padre e del ricchissimo suocero Marcello Durazzo. Anche nel problema corso il B. rivolgeva l'attenzione agli aspetti essenzialmente economici: d'interesse pubblico, per le grandi spese che la conservazione dell'isola avrebbe importato e per la cessazione dei convenzionati sussidi della Francia; ma anche di interesse personale, dal momento che il B., insieme col suocero e con altri membri della sua famiglia, aveva forti capitali impegnati in prestiti presso principi e municipalità francesi e presso la stessa corona, le cui sfavorevoli reazioni ed indugi da parte di Genova il B. fortemente temeva.
La carriera politica del B. intanto continuava: nel 1767 era stato estratto senatore; quindi nel 1770 venne eletto tra 1 procuratori della Repubblica e nel 1773 sindacatore supremo; infine dal 1775 al 1776 fece parte del magistrato di Guerra. Dopo una breve assenza da Genova, per "affari" del principe Doria a Roma, nel dicembre 1778 il B. intervenne ancora nel Minor Consiglio per lamentare i gravi disordini di governo, l'accentrarsi del potere, tramite il monopolio finanziario, nelle mani dei protettori del Banco di S. Giorgio, la carente amministrazione della giustizia, l'indifferenza e l'inattività della deputazione del Commercio. Dopo aver dichiarato, nel gennaio 1779, nel corso del suo ultimo intervento al Minor Consiglio, di aver pronto un personale piano di "riforma generale", il 4 marzo 1779 venne eletto doge, riportando 198 voti favorevoli su 321.
L'incoronazione avvenne il successivo 13 settembre nella chiesa di S. Ambrogio, trovandosi la sala del Gran Consiglio danneggiata da un incendio. L'inizio del dogato del B. fu funestato da una violenta epidemia di vaiolo diffusasi sul territorio di tutto il dominio e da numerose incursioni dei corsari barbareschi lungo i litorali delle Riviere. Una fortunata spedizione contro questi ultimi, disposta dal cognato del B., Gerolamo Durazzo, permise a Giovanni De Marchi, ammiraglio della galea capitana, di catturare diversi sciabecchi del rais d'Algeri Mustafà nelle acque di Bordighera: una cinquantina di prigionieri sfilarono per le vie della città nel corso di un solenne Te Deum di ringraziamento voluto dal doge.
Il B. terminò il suo primo dogato il 4 marzo 1781, entrando nella giunta dei Confini e in quella di Giurisdizione; quindi dal 1788 al 1796 fu preside degli inquisitori di Stato, riuscendo a fare approvare, sul finire del 1790, un nuovo più severo regolamento di censura sulle stampe, giustificato come misura antigiansenista. Tale regolamento suscitò molto scontento non solo tra i pochi nobili illuminati e filofrancesi, ma anche tra i più tradizionalisti, poiché contemplava come norma, per la concessione del placet, l'Indice romano.
La seconda elezione a doge avvenne il 17 nov. 1796 e il B., data la situazione politica difficile, rifiutò ogni festeggiamento e la stessa cerimonia dell'incoronazione.
L'insistenza con cui i Collegi ricusarono le molte e convincenti scuse presentate dal B. (l'età "decrepita", la salute precaria sua, della moglie e di alcuni familiari) testimonia una ferma presa di posizione della nobiltà conservatrice contro il dilagante filogiacobinismo: era infatti largamente conosciuto l'atteggiamento di condanna del B. nei riguardi della Rivoluzione francese e degli avvenimenti che le erano succeduti, anche perché essi avevano significato la cancellazione, o almeno la diminuzione o il ritardo nel pagamento, dei prestiti che il B. aveva presso la nobiltà francese.
D'altra parte il B. era notoriamente assertore della neutralità di Genova nella guerra tra la Francia e la coalizione, considerando, come sempre, i vantaggi economici che ne sarebbero derivati. Perciò, nonostante i pressanti inviti del governo austriaco e di quello sardo ad unirsi nell'alleanza contro i Francesi, il B. cercò di conservare lo stato di neutralità ad ogni costo. Ma, col proseguire delle vittorie napoleoniche e i fermenti che esse suscitarono in vasti strati della popolazione, gli avverumenti assunsero proporzioni che le misure prudenziali interne ed esterne adottate dal doge non erano in grado di arginare: il Faipoult, rappresentante francese a Genova, aveva precise disposizioni da Napoleone di tenersi pronto alla rivolta, ma il governo del B. troppo tardi si accorse della gravità delle trame interne filofrancesi. Sulla fine del maggio 1797 vennero fatti prigionieri i principali fautori giacobini: scoppiò una vasta rivolta che vide l'anacronistico ed effimero successo della controrivoluzione dei popolani insorti al grido di "Viva Maria", tra i cui capi fu inizialmente lo stesso figlio del B., Gian Carlo, che organizzò anche la distruzione della farmacia Morando, centro dei rivoluzionari. Napoleone, informato, il 27 maggio inviò un ultimatum al governo, col quale imponeva la liberazione dei prigionieri e la riforma costituzionale dello Stato sulla base dell'uguaglianza dei cittadini. La successiva convenzione di Mombello affidava, in seno ad un governo provvisorio, il potere esecutivo ad un doge e a dodici senatori: il B. venne tacitamente confermato nella carica, accanto a borghesi e a nobili filobonapartisti, come Luigi Corvetto e Gian Carlo Serra. Il 14 giugno 1797 ebbe luogo la prima seduta del governo provvisorio: il B. vi si recò polemicamente in "robetta" anziché nel tradizionale "robone". La Genova dei suoi padri era finita ed egli si adattò alla nuova parte solo perché il passaggio si compisse, per quanto lo riguardava, senza scosse violente e disordini.
Dopo che l'avvocato Gaetano Marré di Borzonasca gli ebbe fatto rilevare, prima con un discorso alla Municipalità, poi con una lettera personale, che il titolo dogale non era in armonia con le nuove istituzioni, il B. assunse il titolo di presidente e, subito dopo, chiese l'esonero per motivi di età e di salute, necessitando di cure presso i bagni termali di Toscana. La sua richiesta non venne accettata ufficialmente, ma a poco a poco il B. si appartò e subentrarono al governo diversi vicepresidenti. Quindi, come molti nobili genovesi antibonapartisti, si trasferì in Toscana e, poiché nel corso di alcuni suoi ritorni a Genova ebbe a subire offese da parte dei nuovi uomini di governo, non fece più ritorno nella città natale. Ritiratosi nel convento di S. Paolino, presso i padri di S. Teresa a Firenze, vi morì il 21 dic. 1801
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