MARTORELLI, Giacomo
– Nacque a Napoli il 10 genn. 1699, ultimo di quattro figli, da Tommaso e Orsola de Vivo, «onesta gente e bastantemente di beni di fortuna fornita» (Orlando, p. 5). Rimasto orfano di padre all’età di otto anni, potendo disporre, come sacro patrimonio, di una casa «palaziata» nel borgo dei Vergini, nel 1710 fu accolto nel seminario arcivescovile partenopeo.
Scarse e frammentarie sono le notizie sugli anni della sua formazione; certo è che seguì con notevole profitto le lezioni di lingue orientali di Giuseppe Buonocore e Alessio Simmaco Mazzocchi e completò il suo percorso di studi presso il seminario negli anni in cui cominciarono a far sentire i loro effetti la riforma degli studi e la rigorosa disciplina introdotte dal cardinale Francesco Pignatelli. Seppur responsabile di un clima pastorale caratterizzato da «angusti criteri e rigido conformismo» (De Maio, p. 28), che faceva da sfondo a una serrata opposizione alle spinte giurisdizionalistiche presenti in larga parte della cultura napoletana del tempo, il teatino Pignatelli non smantellò l’organizzazione didattica del seminario attuata dai suoi predecessori. Innico Caracciolo e Giacomo Cantelmo lo avevano infatti aperto alle nuove idee, introducendovi discipline come la geometria, l’astronomia, la fisica e la consuetudine a dibattere questioni di teologia morale, oltre a valersi delle lezioni di docenti quali Luca Antonio Porzio e Carlo Majello.
Ordinato sacerdote nel 1723, il M. fu incaricato dall’arcivescovo di insegnare nel seminario dapprima il latino, poi la geometria e, infine, il greco. Resasi vacante nell’Università di Napoli la cattedra di lingua greca, nel 1738 con il «forte appoggio» della corte borbonica (lettera di Mazzocchi a Celestino Galiani in Settecento napoletano, p. 37) concorse con successo all’interinato, per poi divenire titolare nel 1747, senza lasciare, almeno fino al 1751, l’insegnamento nel seminario.
Il primo biografo del M. ha sottolineato l’efficacia del metodo didattico da lui utilizzato, che integrava il commento delle nozioni sintattico-grammaticali con «dottissimi trattati sulla Comedia e Tragedia Greca» (Orlando, p. 7). L’impegno come docente trovò modo di esplicarsi anche in una intensa attività di autore di supporti didattici. Per gli allievi sacerdoti raccolse in una antologia epigrammi dei maggiori poeti latini (Poetarum delectus… ad usum adolescentium Seminarii Neapolitani…, Napoli 1747) e, per gli studenti del suo corso universitario, tradusse la Grammatica greca di Porto Reale (Napoli 1752).
Contestualmente all’attività di docente, il M. ebbe modo di entrare in contatto con letterati e giuristi che frequentavano la biblioteca del marchese Matteo di Sarno e l’accademia di Ferdinando Vincenzo Spinelli, principe di Tarsia, nella quale si distinse per alcune dissertazioni su temi omerici. Il M. si pose in sintonia con il gruppo degli «antiquari», con Giuseppe Pasquale Cirillo, Mazzocchi, e con quanti privilegiavano un’erudizione priva di implicazioni sociali e politiche, finendo «per caratterizzare in maniera univoca posizioni arcaiche e reazionarie» (Ajello, 1976, p. 52).
Almeno dal 1744 il M. fu chiamato dal cappellano maggiore a esercitare l’attività di regio revisore dei manoscritti di opere letterarie destinate alla stampa e di scritti ecclesiastici. La casuale scoperta nel 1745 di un vasetto ottagonale di bronzo nelle campagne di Terlizzi, in Puglia, costituì indirettamente una svolta nella sua vicenda umana e culturale. Nel contenitore di unguenti il M. credette di riconoscere un antico calamaio e trovò modo di scriverne oltre ottocento pagine di erudizione antiquaria, poderosi prolegomeni e dettagliatissime annotazioni tese a retrodatare l’utilizzo di penne e calamai agli antichi ebrei, egiziani, greci e latini. L’opera, De regia theca calamaria (Napoli 1756), lungi dall’aprirgli le porte della prestigiosa Reale Accademia Ercolanese, suscitò aspre reazioni.
Il governo napoletano ne proibì la diffusione, con l’accusa rivolta all’autore di aver rivelato notizie riservate sulle scoperte in atto a Ercolano. Stroncando tutte le iniziative editoriali mirate a diffondere in anticipo, rispetto ai piani governativi, le conoscenze sulla straordinaria scoperta archeologica, la corte e il ministro Bernardo Tanucci perseguivano un preciso progetto politico volto a consolidare il mito del giovane nuovo sovrano e della sua «missione provvidenziale» (Chiosi, 1986). Negli ambienti intellettuali europei i due tomi del M. furono liquidati come esempio di inutile e pedante erudizione. Già J.J. Winckelmann, che era riuscito a procurarsene una copia prima dell’effettiva messa in vendita, avvenuta soltanto nel 1777 dopo la morte del M., aveva contestato duramente le tesi esposte sulle origini di Ercolano e Pompei. Diversa fu l’accoglienza riservata al testo nei domini asburgici e in particolare a Vienna, dove, grazie alla mediazione di P. Metastasio, il libro fu collocato tra quelli di maggior pregio della Biblioteca imperiale. Se i cultori dell’antico sparsi nelle città italiane poterono compiacersi, con gli amici napoletani del M., di essere immersi «nella lettura della grand’opera» (Francesco Cancellieri a Domenico Diodati in Settecento napoletano, p. 43 n. 38) o, comunque, di ravvisarvi contributi preziosi a «illustrar varj punti d’Istoria del nostro Regno» (De Sterlich, 2006, p. 249), altre personalità del tempo espressero critiche e giudizi taglienti. Tra queste l’illuminista trentino Carlo Antonio Pilati, che aveva rinunciato a proseguire nella lettura della Theca calamaria perché «trop mal écrite, trop chargée de pédanterie», e il naturalista veneto Alberto Fortis che, ancora nel 1789, presentava a una sua corrispondente l’opera come il prodotto di uno scrittore «scarsamente provveduto di criterio» (Lettera dell’abate Alberto Fortis…).
Il profondo interesse per le antichità greche portò il M. a studiare le origini della città di Napoli. Frutto delle sue vaste ricerche furono Dell’antiche colonie venute in Napoli ed i primi si furono i Fenici (Napoli 1764) e Dell’antiche colonie venute in Napoli ed i secondi furono gli Euboici (ibid. 1773). I volumi non riportano nel frontespizio il nome del M., ma quello di un suo allievo, Michele Vargas Macciucca, tuttavia i contemporanei e gli studiosi sono concordi nel ritenere che in essi il M. ebbe «massima parte» (Orlando, p. 17). Ulteriori conferme in tal senso sono riscontrabili nella prefazione di Vargas al primo volume e in un’entusiastica nota elogiativa formulata da Winckelmann (p. 248). Dopo l’amara esperienza del De regia theca calamaria, il M. attraversò un periodo di profonda crisi esistenziale che lo portò a prendere le distanze dalla corte e ad attaccare Tanucci e tutti coloro ritenuti responsabili della sfortuna editoriale della sua opera. A queste tormentate vicende è da ricondurre, secondo un’ipotesi fondata, la ragione che indusse il M. a pubblicare sotto altro nome i successivi contributi antiquari (Settecento napoletano, p. 46).
Caratteristica distintiva, quasi un comune denominatore degli eruditi napoletani, era la profonda, feroce, inossidabile avversione nei confronti di Antonio Genovesi. Il M. non faceva eccezione, scrivendo nel 1768 al padre Paciaudi ne lodava l’«eroica Costituzione per i nuovi regi studi» di Parma (Chiosi, 1981, p. 174) e stigmatizzava, invece, le proposte genovesiane riguardo alla riorganizzazione della struttura educativa del Regno di Napoli, anche se, nei fatti, esse corrispondevano a quelle parmensi, perché miravano a dotare il Mezzogiorno di un sistema coordinato di istituzioni scolastiche sotto il controllo dello Stato. Pur formulando una corretta analisi delle difficili condizioni in cui si trovavano le scuole della capitale negli anni immediatamente successivi all’espulsione dei gesuiti, il M. non riusciva a comprendere la straordinaria opportunità di rinnovamento che il magistero genovesiano tentava di promuovere.
A suo parere Genovesi rimaneva un «metafisicone» intento a portarsi dietro «la cieca, inesperta gioventù […] con quelle notizielle che raccoglie dall’Enciclopedia e finge esser cose tutte sue» (lettera a Paciaudi in Ajello, 1972). A chi tra i suoi corrispondenti, come il camaldolese Isidoro Bianchi, dimostrava stima per Genovesi, il M. replicava che questi altri non era se non uno «pseudofilosofo» da collocare tra i «più scellerati che i Voltaire, i Rousseau e Toland» (lettera a Isidoro Bianchi, in Strazzullo, 1993-94, p. 308). L’adozione della lingua italiana da parte di Genovesi nelle lezioni universitarie provocò la reazione stizzita e il disgusto del M., che così confermava la sua irriducibile contrapposizione alle iniziative avviate dal gruppo raccolto intorno a C. Galiani e Bartolomeo Intieri.
L’erudizione e gli studi antiquari resero il «retrivo archeologo» (Venturi, Nota introduttiva a F. Milizia, in Illuministi italiani, VII, p. 529) incapace di superare gli angusti limiti della propria impostazione. Gli sfuggiva del tutto il profilarsi di una più matura consapevolezza delle reali condizioni del Paese e la conseguente volontà dei circoli partenopei, in sintonia con la cultura dei lumi, di ispirare e sostenere l’opera di riforma del governo borbonico.
Prova ulteriore del suo atteggiamento di chiusura e del rifiuto di confrontarsi con modelli epistemologici inediti possono essere considerati gli strali rivolti ad alcuni dei membri più noti della cosiddetta «scuola genovesiana». Se a Giuseppe Maria Galanti riservava insulti verbali, apostrofandolo con gli epiteti di «gonzo ed ignorante» per aver pubblicato l’Elogio di Genovesi (Strazzullo, 1993-94, p. 247), ben più gravida di conseguenze fu la sua avversione per l’allievo prediletto dell’abate salernitano. Riferisce infatti Francesco Longano che fu proprio il M. a istigare le autorità ecclesiastiche affinché censurassero i suoi scritti e, non pago, a orientare l’attacco sferratogli dalle Novelle letterarie di Firenze nel gennaio del 1769. Il M. si mostrava pure incapace di comprendere le fibrillazioni che agitavano il complesso reticolo associativo del Regno e la nuova forza conseguita dalla massoneria. In occasione dei funerali di Raimondo di Sangro, principe di San Severo, celebrati nel 1771, la sincera ammirazione del mecenatismo del principe non gli impedì di stroncare l’elogio pronunciato da un sacerdote che aveva osato fare l’apologia dei libri del principe e della sua attività di capo della muratoria napoletana.
Le profonde trasformazioni che conobbe l’antiquaria nel corso del XVIII secolo non incrinarono l’arcigna difesa operata dal M. dei fondamenti tradizionali della disciplina. Egli non mostrò alcuna inclinazione verso quanti miravano ad approntare nuove metodologie nello studio delle antichità, consapevoli del diverso significato assunto dai dati antiquari una volta trasferiti dal dominio dell’erudizione a quello della storia filosofica praticata negli ambiti della cultura illuministica europea. Tuttavia, il M. trovò modo di favorire la diffusione degli scritti di autori che nello studio dell’antichità non vedevano soltanto uno strumento per il recupero della memoria del passato e delle radici nazionali, ma anche un mezzo per conseguire una conoscenza complessiva delle province meridionali, nelle quali provare a diffondere innovative tecniche agronomiche e stimolare pratiche di produzione artigianale più redditizie. Rese inoltre possibile, come regio revisore, la pubblicazione dello Stato presente della Nazione inglese di Michele Torcia (Napoli 1775), giudicandola (cfr. il placet del M., ibid., I, p. 168) non senza malizia, «una pittura assai più esatta» rispetto alla Storia del commercio di Gran Bretagna scritta da John Cary e stampata a Napoli nel 1757 su iniziativa di Genovesi.
Dal Piano della Università degli studi del 1777 risulta che a quella data il M. era ancora titolare della cattedra di antichità greca. Morì il 21 nov. 1777 nella villa Vargas Macciucca di Ercolano.
Fonti e Bibl.: Arch. di Stato di Napoli, Cappellania maggiore, Università, f. 1177, inc. 23; Napoli, Parrocchia di S. Maria dei Vergini, Battesimi, libro IX, c. 163r; Ibid., Arch. stor. diocesano, Sacra patrimonia, prima pandetta, 5765; Ibid., Biblioteca nazionale, Mss., XIII.B.37, XX.73; Ibid., Biblioteca della Soc. napoletana di storia patria, Mss., XXIX.A.15 (lettere del M. a Vargas Macciucca); Firenze, Biblioteca Marucelliana, Mss., B.VII.18 (72 lettere del M. a F. Gori), A-LIV; Parma, Biblioteca Palatina, Lettere di uomini illustri, cass. 83 (57 lettere e 3 frammenti del M. a p. M. Paciaudi); Milano, Biblioteca Ambrosiana, Mss., T.130 sup., n. 55-135 (lettere del M. a I. Bianchi); Volterra, Biblioteca Guarnacci, Mss., 5569, XLIX.5.1; Pesaro, Biblioteca Oliveriana, Mss., 352 (17 lettere del M. ad A. degli Abbati Olivieri); P. Metastasio, Tutte le opere, a cura di B. Brunelli, IV, Milano 1954, pp. 769-776; V, ibid. 1954, pp. 14-17, 104 s., 719; C.A. Pilati, Les voyages en differents pays de l’Europe…, in Illuministi italiani, III, Riformatori lombardi, piemontesi e toscani, a cura di F. Venturi, Milano-Napoli 1958, p. 632; J.J. Winckelmann, Lettere italiane, a cura di G. Zampa, Milano 1961, pp. 207 s., 248, 267-271; F. Longano, Autobiografia, in Illuministi italiani, V, Riformatori napoletani, a cura di F. Venturi, Milano-Napoli 1962, pp. 353 s.; Lettera dell’abate Alberto Fortis alla signora Elisabetta Caminer Turra…, ibid., VII, Riformatori delle antiche Repubbliche dei Ducati, dello Stato pontificio e delle isole, a cura di G. Giarrizzo - G. Torcellan - F. Venturi, ibid. 1965, p. 328; Carteggio inedito di Giacomo Martorelli, a cura di A. West, tesi di laurea, Università di Napoli, a.a. 1975-76; J.J. Winkelmann, Le scoperte di Ercolano, a cura di F. Strazzullo, Napoli 1981, pp. 61, 63, 68; Settecento napoletano, Documenti, II, Il carteggio Martorelli - Vargas Macciucca, a cura di F. Strazzullo, Napoli 1984; F. Strazzullo, Lettere di G. M. a padre Isidoro Bianchi, in Rendiconti dell’Acc. di archeologia, lettere e belle arti, n.s., LXIV (1993-94), pp. 237-345; R. De Sterlich, Lettere a G. Lami, 1750-1768, a cura di U. Russo - L. Cepparrone, Napoli 1994, pp. 183, 401, 433, 523, 578; Id., Lettere a G. Bianchi (1754-1775), a cura di G. de Tiberiis, Napoli 2006, pp. 41, 211-213, 248 s., 264, 422, 468; F.F. Orlando, Elogio del defunto d. G. M. celebre professore di greca erudizione nella nostra Reale Università, Napoli 1778; D. Diodati, Elogio di Iacopo M. regio professore di antichità greche nell’Università di Napoli, Napoli 1778; M. Schipa, Il Regno di Napoli al tempo di Carlo Borbone, Roma 1923, II, p. 261; R. De Maio, Società e vita religiosa a Napoli nell’Età moderna (1656-1799), Napoli 1971, pp. 251, 265, 291, 313; R. Ajello, La vita politica napoletana sotto Carlo di Borbone, in Storia di Napoli, VII, Napoli 1972, p. 713; Id., Arcana juris. Diritto e politica nel Settecento italiano, Napoli 1976, pp. 47, 52, 243; E. Chiosi, Andrea Serrao. Apologia e crisi del regalismo nel Settecento napoletano, Napoli 1981, pp. 40, 104 s., 173 s., 180; Id., La Reale Acc. Ercolanese. Bernardo Tanucci fra politica e antiquaria, in Bernardo Tanucci statista, letterato, giurista. Atti del Convegno…, Napoli-Caserta-Salerno… 1983, a cura di R. Ajello - M. D’Addio, Napoli 1986, II, p. 503; Id., Lo spirito del secolo. Politica e religione a Napoli nell’età dell’illuminismo, Napoli 1992, pp. 30 s., 77; A.M. Rao, Tra erudizione e scienze: l’antiquaria a Napoli alla fine del Settecento, in L’incidenza dell’antico. Studi in memoria di E. Lepore, a cura di C. Montepaone, III, Napoli 1996, p. 112; R. Tufano, Michele Torcia. Cultura e politica nel secondo Settecento napoletano, Napoli 2000, pp. 42, 90, 149, 151, 153-156, 160-163, 165 s., 171, 189 s.