MENOCHIO, Giacomo (Jacopo)
– Nacque a Pavia il 22 genn. 1532 da Gerolamo e da Francesca Gravallona.
Le origini della famiglia paterna sarebbero da rintracciare nella zona di Lucca, come lo stesso M. narra nelle Note autobiografiche manoscritte. Dalle Note (integrate dalla penna del figlio), si apprende pure che alcuni membri della «gens Menocha» avevano dovuto lasciare Lucca a metà del XV secolo, probabilmente perché coinvolti in un grave fatto di sangue. La famiglia materna era invece originaria di Vigevano. Benché di modeste condizioni sociali ed economiche, l’avo Giovanni Domenico e il padre, Gerolamo, con il fratello Cristoforo, avevano rapidamente accresciuto il proprio patrimonio immobiliare con l’acquisto di numerosi e ampi terreni intorno a Pavia, nonché le proprie fonti di reddito, avendo ottenuto dal Comune pavese il diritto di riscossione di importanti quote daziarie.
Il M. fu avviato a regolari studi universitari di diritto a Pavia, dal maggio 1549 e conseguì la laurea il 19 maggio 1556.
Tra i docenti attivi presso la facoltà ticinese in quel torno di tempo, il M. cita nella propria autobiografia Andrea Alciato (la cui morte, il 10 genn. 1550, è l’unico evento che reputò di dover annotare quell’anno), Antonio Mario Cani, Giulio Salerno, Giovanni Cefali, Marco Antonio Caimi, Giacomo Mandelli, Francesco Alciato, Camillo Plauzio e Politonio Mezzabarba (degli ultimi due il M. ricorda una violenta contesa avvenuta tra loro nel 1552), oltre all’amico d’infanzia Giacomo Beretta che, con Marco Antonio Cani, Agostino Isimbardi e Mezzabarba, fu promotore alla sua laurea. Anche con Mezzabarba, «eruditissimus atque indefessus iurisconsultus» (Menochio, Note autobiografiche, p. 331), il M. coltivò un duraturo legame umano e professionale (lo definì infatti «compater et praeceptor meus», ibid., p. 340).
Le straordinarie qualità di giurista del M. emersero prima del termine dei suoi studi allorché, nell’aprile 1555, svolse un ruolo primario nella pubblica disputa di ben cento quaestiones, da lui stesso costruite e proposte, che impegnarono la facoltà per ben tre giorni. Abilmente scelse di dedicare tali quaestiones al pretore di Pavia Piergiorgio Visconti. Con il favore delle autorità cittadine, il M., non ancora laureato, ottenne infatti l’anno successivo la nomina a secondo lettore delle Istituzioni nello stesso Studium pavese.
Il 10 luglio 1557 sposò Margherita, figlia del mercante Giovanni Antonio Candiani e di Benedetta Morasca. Degli undici figli nati dal matrimonio, soltanto il più giovane, il sacerdote gesuita Giovanni Stefano, ebbe una certa notorietà.
Avviata con successo l’attività didattica, minori soddisfazioni giunsero sul piano dell’altrettanto ambito cursus honorum pubblico: risultò vano il tentativo di essere ammesso nel Collegio dei giudici di Pavia. Lo statuto del Collegio, riformato solo pochi anni prima, imponeva rigidi requisiti personali e familiari, e a nulla valse al M. neppure il ricorso in appello al Senato milanese. Alla docenza poté quindi unire il solo incarico di sostituto del referendario Francesco Cafarelli.
La carriera accademica ebbe un’importante svolta positiva il 10 apr. 1561 con la chiamata, da parte del duca Emanuele Filiberto di Savoia, tra i docenti del neonato Studium di Mondovì. Al M. furono offerti la prima cattedra di diritto canonico e uno stipendio di 200 coronati.
Nel frattempo aveva avviato un altro aspetto della sua attività professionale, destinato ad assicurargli ingenti guadagni e buona parte della fama che lo accompagnò in vita e dopo la morte: con una audace iniziativa, nel 1560, intervenne sulla controversia tra il marchese del Finale, Alfonso II Del Carretto, e la Repubblica di Genova, redigendo un responso a favore di quest’ultima. Il parere è in totale dissenso da quelli pronunciati, in risposta a una richiesta dell’imperatore, dal Collegio dei dottori giuristi dell’Università di Pavia che il M. stesso fece poi pubblicare, insieme con il proprio e con quelli dei Collegi bolognese e patavino (Responsa causae Finariensis, Mondovì, L. Torrentino, 1565; anche in appendice ai trattati De adipiscenda retinenda et recuperanda possessione, nelle varie edizioni dell’opera tra XVI e XVII secolo).
L’esperienza di consulente si accrebbe negli anni monregalesi con alcune importanti committenze. Spicca, nel 1565, l’incarico conferitogli da Emanuele Filiberto, per il quale il M. redasse un amplissimo consilium in cui si incaricava di ricostruire la storia giuridica del Monferrato fin dalle origini altomedievali, per giungere a dimostrare la fondatezza delle pretese sabaude su di esso. Non casualmente l’articolato parere fu pubblicato dallo stesso M. (Responsum in causa Montisferratensi, Mondovì, L. Torrentino, 1566) e inserito in apertura della vastissima raccolta di Consilia sive Responsa (Venezia, F. Ziletti, 1572), nel primo volume; la raccolta ebbe varie edizioni a Francoforte, Venezia, Milano, e l’ultimo volume, il tredicesimo, fu pubblicato postumo nel 1616. Nel complesso il numero dei pareri editi, vertenti sulle più varie materie pubblicistiche e civilistiche, giunse a oltre 1300.
Durante il soggiorno piemontese il M. scrisse e pubblicò anche il primo dei suoi importanti trattati: In omnes praecipuas recuperandae possessionis constitutiones commentaria, dedicato alla duchessa di Savoia Margherita di Francia (Mondovì, L. Torrentino, 1565). Il tema lo impegnò ancora per anni, in successivi ampliamenti e revisioni: l’aggiunta De adipiscenda et retinenda possessione uscì nel 1571 (Venezia, G.B. Somasco), e le due opere furono unite e ripubblicate con il titolo De adipiscenda, retinenda et recuperanda possessione (Parma, S. Viotii, 1576 e 1577).
Grazie all’interessamento di un collega, il bresciano Giacomo Chiziola, il M. ottenne un incarico quale docente di ius pontificium nella prima cattedra mattutina all’Università di Padova, dove giunse nell’autunno del 1566, tenendovi la sua prolusione il 12 novembre.
A Padova trovò come colleghi, tra gli altri, Marco Mantova Benavides, Guido Panciroli, Gaspare Fabiano, Giovanni Cefali e Tiberio Deciani, con alcuni dei quali coltivò ottimi rapporti, travalicanti anche il semplice ambito professionale. In questi anni preparò i commentari De arbitrariis iudicum quaestionibus et causis (Venezia, G.B. Somasco, 1569). L’opera ebbe un immediato, vastissimo successo, per l’attualità del tema e per l’ampiezza della sua disamina, tanto da richiedere una rapida ristampa e da avere poi numerose altre edizioni.
L’accresciuta autorevolezza del M. ebbe ulteriore riconoscimento con il passaggio, nel 1573, all’insegnamento del diritto civile, accanto al «gravissimum iurisconsultum» Tiberio Deciani, nel frattempo divenuto anche «compatrem» del M., avendone tenuto a battesimo i figli (Menochio, Note autobiografiche, p. 339). Nuove delusioni giunsero invece l’anno successivo da Milano dove, in sostituzione del defunto Politonio Mezzabarba, gli fu preferito quale senatore Giacomo Francesco Gambarana, benché «fama vehemens» (ibid., p. 340) desse il M. per favorito.
Accantonate per il momento le ambizioni politiche, il M. si dedicò con rinnovato vigore all’insegnamento e alla scrittura. Con altri colleghi dello Studio patavino predispose edizioni annotate di importanti commentari come quelli di Bartolo da Sassoferrato, Giasone del Maino, Bartolomeo Socini, Filippo Decio, che videro la luce tra il 1572 e il 1590. Fu tra i curatori dell’imponente raccolta dei Tractatus universi iuris, stampata a Venezia nel 1584 sotto gli auspici di papa Gregorio XIII, ma soprattutto elaborò una nuova opera di grande interesse per i giuristi di diritto comune, tale da incontrare un pronto e largo successo: il trattato De praesumptionibus, coniecturis, signis et indiciis (1575), che ebbe molte ristampe fino alla metà del Settecento.
Nei primi anni Ottanta, la fama del M. fu tale da farne l’oggetto di una vera e propria contesa tra diverse sedi accademiche: il granduca Francesco de’ Medici lo avrebbe voluto a Pisa, e soprattutto i rettori di Bologna lo avrebbero preferito a ogni altro per la cattedra di diritto civile. Entrambe le università formularono quindi allettanti offerte: il M. rifiutò quella pisana e ottenne un miglioramento economico dallo Studium patavino. Con Bologna egli invece giunse fino alla firma del contratto nell’aprile 1581, ma le resistenze delle autorità veneziane nel concedergli la licenza e soprattutto la morte di Tiberio Deciani e la strada aperta per la prima cattedra civilistica a Padova (con il conseguente cospicuo aumento degli onorari) lo convinsero a rimanere ancora qualche anno.
Da Padova, ormai celebratissimo professore, il M. accettò di allontanarsi soltanto per rientrare a Pavia nel 1588, indotto evidentemente non tanto dalle condizioni dell’insegnamento (che probabilmente non svolse neppure), quanto dalle prospettive, finalmente riapertesi, di un ingresso nel Senato milanese. La sospirata nomina giunse infine il 19 febbr. 1592, arricchita, l’anno successivo, da quella di presidente del Magistrato dei redditi straordinari.
L’importante carica non fu per il M. soltanto motivo di ricchezza e di prestigio ma anche fonte di gravi preoccupazioni, per il coinvolgimento in una delle controversie giurisdizionali che da decenni contrapponevano la curia ambrosiana all’amministrazione spagnola. Nell’esercizio delle proprie competenze in materia di controllo sulla coltivazione del riso, e in specie sul rispetto delle distanze dall’abitato e sull’impiego dei fanciulli, il M. sostenne la tesi secondo la quale le norme concernenti la salute pubblica erano vincolanti anche per i proprietari ecclesiastici, e procedette a sanzionarne la violazione. La reazione dell’arcivescovo Federico Borromeo, che reputava violata in tal modo la giurisdizione ecclesiastica, fu durissima, giungendo fino alla scomunica, inflitta al M. nel settembre 1596. Evidentemente costretto dagli eventi, il M. si impegnò a difendere la propria posizione con tutte le armi teoriche offertegli dal ricchissimo patrimonio del diritto comune. Per riabilitarsi stese dapprima due manifesti a stampa, divulgati a Milano nel mese di ottobre. Per meglio argomentare in termini di diritto, nella causa d’appello promossa a Roma predispose poi alcuni ampi consilia, pubblicati (Responsum Iacobi Menochii I.C.…, ac… consilii pro regia iurisdictione redditum, s.l. né d., ma post 1597) e in seguito aggiunti alla sua raccolta con i nn. 800, 965 e 1000. La remissione della scomunica fu concessa da Clemente VIII il 22 apr. 1597, condizionata a una pubblica ritrattazione. Il M. proseguì comunque nello sviluppo del tema alla base del contenzioso, che fu ripreso e articolato punto per punto nei tre volumi del trattato De iurisdictione, imperio et potestate ecclesiastica ac saeculari, scritto nei primi anni del Seicento ma pubblicato solo postumo, forse per ragioni di prudenza (nel 1622 a Francoforte e nel 1695 a Lione). Un quarto libro, De immunitate Ecclesiae pro ad eam confugientibus, fu stampato separatamente solo a fine Seicento (Lione 1695). Rimasero invece inedite, forse perché incomplete, altre due opere su temi di notevole interesse teorico-pratico: i trattati De mora (Milano, Biblioteca Trivulziana, Mss., 1629) e De necessitate, eiusque privilegiis et prerogativis (ibid., 1630).
La durissima esperienza della scomunica non distolse il M. dall’esercizio della funzione pubblica per oltre un decennio, che continuò a svolgere con rigore e decisione, come testimoniano i verbali della visita canonica nel convento delle orsoline di Varese nel marzo 1597, alla quale il M. fu presente per difendere l’autonomia della priora Caterina Perabò (i profili giuridici sono esposti nel suo consilium 948).
Ormai ultrasettantenne, avviato stabilmente il figlio maggiore Giovanni Matteo alla carriera pubblica, prima come «thesaurarius munitionum et edifitiorum» (1598) e poi, subito dopo la messa a riposo del padre, come questore del Magistrato dei redditi straordinari (1603), il M., che aveva frattanto coronato anche il sogno di accedere alla nobiltà (la famiglia risulta tra le ammesse al Decurionato dal 1601), si ritirò nella tenuta acquistata nella città natale. Da lì mantenne i contatti con lo Studium e continuò una certa attività intellettuale quale membro dell’Accademia degli Intenti, presso la chiesa barnabita di S. Maria in Canepanova.
Il M. morì a Pavia il 10 ag. 1607 e fu sepolto con tutti gli onori nella chiesa di S.Maria in Canepanova.
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C. Valsecchi