SERPOTTA, Giacomo
‒ Considerato uno dei massimi artisti dello stucco in Europa, Giacomo Isidoro Nicolò Serpotta nacque il 10 marzo 1656 nel quartiere della Kalsa a Palermo (Meli, 1934, p. 33), secondo dei quattro figli di Gaspare (Palermo, 1634-1670), scultore in marmo e plasticatore, e di Antonina Travaglia (Palermo, 1634-1719). Entrambi i genitori discendevano da attive famiglie di marmorari e stuccatori. Sin dalla nascita Giacomo poté dunque fruire dell’appoggio di una solida cerchia di parentela, che annoverava i principali scultori attivi a Palermo in quegli anni, i cosiddetti scultori del Cassaro.
Alla morte del padre, avvenuta il 17 aprile 1670, il ruolo di capofamiglia fu assunto dal figlio primogenito Giuseppe, appena diciassettenne, quando nessuno dei due fratelli aveva ancora finito il proprio apprendistato.
È probabile che già nel corso del settimo decennio del secolo, raggiunti i dodici anni di età, entrambi i fratelli fossero stati allogati alla bottega di qualcuno dei maestri operosi in città, quali il prozio Gaspare Guercio e lo zio Giovanni Travaglia, stuccatori e marmorari, o i plasticatori Antonino Pisano, i fratelli Andrea e Vito Surfarello, o Gaspare La Farina. Ma è incerto se i due frequentarono la medesima bottega o ebbero due distinti maestri.
Rimane irrisolto anche il problema riguardante eventuali viaggi di studio di Giacomo, con almeno uno a Roma, ipotizzati da vari studiosi, data la conoscenza che egli dimostra del barocco romano.
A partire dal 1677, e per quasi un trentennio, con la madre, il fratello e le sorelle Giacomo abitò nel quartiere del Capo. Dopo il matrimonio delle due sorelle, il nucleo familiare si ridusse ai due fratelli, rimasti entrambi celibi, e alla madre.
Il più antico documento che testimonia Giacomo al lavoro è del 21 febbraio 1677, quando, non ancora ventunenne, insieme e in subordine al collega Procopio Geraci, destinato a diventarne il cognato nel 1681, iniziò la decorazione a stucco nella chiesa della Madonna dell’Itria di Monreale. Completata entro il successivo mese di agosto (Davì, 1978, p. 17), essa è caratterizzata da un’esuberante e bizzarra ornamentazione di derivazione manieristica, tipica del repertorio decorativo «vernacolare» (Garstang, 2006, p. 75) in uso a Palermo nei coevi marmi «mischi».
Da questa data, e per oltre mezzo secolo, la sua attività di stuccatore si dispiegò all’interno di numerose chiese e oratori a Palermo e nell’entroterra, affrancandosi man mano dal retaggio della tradizione (Palazzotto, 2017, p. 64) per aprirsi a tutte le suggestioni possibili, dal «bel composto» berniniano al fascino della classicità, dall’effimero al teatro, dalla moda alla musica, in un raffinato e sottile gioco di contaminazione che rende unico il suo linguaggio (Grasso, 2015, p. 54).
A lungo, ma non sempre, Giacomo lavorò a fianco del fratello Giuseppe, a partire almeno dal 13 dicembre 1677, quando, insieme, s’impegnarono per i perduti stucchi dell’oratorio della congregazione del Rosario nel convento di S. Cita (Mendola, 2012, p. 18).
Probabilmente nel corso del 1677, da una donna la cui identità rimane sconosciuta, nacque il figlio naturale di Giacomo, cui venne imposto il nome Procopio, in omaggio al socio Procopio Geraci. È possibile che a questo evento possa ricollegarsi la ferita alla testa procuratagli dal collega Gaspare La Farina, che Giacomo perdonò nel gennaio del 1678 ritirando una precedente denunzia.
Il 21 giugno dello stesso anno Giuseppe e Giacomo s’impegnarono per gli stucchi decorativi nel sottarco d’ingresso alla cappella di S. Francesco Borgia nella chiesa del Gesù di Casa Professa, chiesa che aveva da poco visto al lavoro Giuseppe accanto ad altri soci nella volta del transetto.
Il giorno seguente giunse per Giacomo l’incarico per la sua prima, autonoma impresa decorativa, fortunatamente sopravvissuta e finalmente restituitagli in maniera definitiva (Mendola, 2014a, pp. 25-32).
Si trattò di ultimare le mostre delle prime due finestre nell’oratorio di S. Mercurio, interrotte a causa della sopraggiunta morte dello stuccatore Antonino Pisano, che aveva intrapreso i lavori tre mesi prima, su progetto del pittore-architetto Carlo D’Anselmo. I risultati ottenuti furono apprezzati dai committenti, che due mesi dopo incaricarono i fratelli Serpotta di decorare anche la seconda finestra nella parete sinistra dell’aula, datata 1678, e, il 25 luglio 1679, le ultime tre finestre. In questi stucchi, completati tre anni dopo, fanno la loro prima consistente apparizione i putti, seppure ancora un po’ impacciati, destinati a diventare protagonisti nella narrazione plastica di Giacomo.
Ultimata la prima fase in S. Mercurio, Giacomo aveva intrapreso la decorazione dell’oratorio della compagnia della Carità in S. Bartolomeo, per la quale ricevette un primo pagamento il 10 luglio 1679 (Meli, 1934, p. 33), e che terminò soltanto nel 1685.
Frattanto, assieme al fratello, il 21 ottobre 1679 si era impegnato per i perduti stucchi del cappellone nella chiesa madre di Bisacquino, realizzati entro l’anno seguente su progetto dell’architetto Andrea Cirrincione.
Il successo ottenuto nell’oratorio della Carità aprì a Giacomo le porte per un’importante commessa pubblica, ottenuta entro i primi mesi del 1681: la realizzazione del modello per la statua equestre di re Carlo II, fusa in bronzo e collocata nella piazza del duomo di Messina nel 1684. La statua fu distrutta nel 1848, ma ne rimane l’efficacissimo bozzetto in bronzo, unanimemente riconosciuto quale opera autografa, oggi custodito presso il Museo Pepoli di Trapani.
Fra i mesi di marzo e dicembre del 1681 i due fratelli ornarono il cappellone, poi rimaneggiato, della chiesa di S. Giorgio dei Genovesi, su progetto dell’architetto Paolo Amato.
Nell’autunno dello stesso anno, da solo, Giacomo modellò due perdute statue raffiguranti i Ss. Pietro e Paolo nella chiesa di S. Maria degli Angeli e due altre ne restaurò. Vi tornò, forse nel 1706, per decorare la cappella dello Sposalizio della Vergine, dove, con grande arguzia, vestì uno dei putti con il saio francescano, in omaggio ai frati del convento annesso.
Nel 1683 accolse nella sua bottega l’apprendista Giuseppe Teresi, divenuto poi suo cognato grazie al matrimonio con Rosalia Serpotta, rimasta vedova di Geraci. Successivamente altri allievi furono ammessi alla scuola di Giacomo: nel 1702 il dodicenne Corrado Oddo, nativo di San Fratello, nel 1704 l’agrigentino Onofrio Russo, nel 1714 Paolo Teresi, figlio dello stuccatore Michelangelo, nel 1722 Silvestre Castelli, figlio dello stuccatore Domenico, già socio di Procopio Serpotta.
Il 23 marzo 1684 (Mendola, 2012, p. 22) Giuseppe e Giacomo diedero inizio alle due grandiose macchine d’altare nel transetto della chiesa del Carmine, terminate entro il 9 luglio successivo, dove l’altissima qualità dell’arte di Giacomo si manifesta per la prima volta in modo inequivocabile, differenziandosi da quella ben più modesta del fratello.
Tra la primavera del 1686 e l’inizio del 1689 Giacomo decorò le pareti dell’oratorio del Rosario in S. Cita, primo dei suoi capolavori. Vi tornò nell’estate del 1707 per alcuni restauri e poi ancora, tra il 15 ottobre 1717 e il 22 giugno 1718, per ornare su suo progetto il presbiterio e l’arco trionfale.
Contemporaneamente alla prima fase dei lavori in S. Cita diede inizio alla decorazione dell’oratorio della prestigiosa compagnia della Consolazione sotto il titolo della Pace, per la quale fu pagato tra il 24 gennaio 1687 e il 19 settembre 1693.
Distrutti gli oratori della Carità e della Pace, quello del Rosario in S. Cita costituisce un punto di svolta nella produzione dell’artista; vi si codifica infatti l’impostazione generale dell’oratorio serpottiano attraverso la convivenza di rilievi narrativi, i cosiddetti teatrini (trasposizione barocca dei rilievi di Antonello Gagini nella cattedrale di Palermo), statue allegoriche, putti che contrappuntano, commentano e interpretano le storie (Palazzotto, 2015, p. 104), assumendo il ruolo di coprotagonisti della narrazione totale. Seppure ancora in parte legato al suo retroterra culturale, ma con qualche apertura al barocco romano, Giacomo riuscì qui a dar prova di estrema abilità tecnica, raffinata sensibilità e grande capacità di ricezione.
Nel dicembre del 1688 per i Serpotta giunsero due importanti impegni per altrettante opere andate distrutte, la decorazione dell’oratorio del Sacramento alla Kalsa (fino al 1691) e di uno degli oratori ospitati nel collegio Massimo dei gesuiti, per il quale Giacomo nel 1690 modellò la statua dell’Immacolata, tuttora esistente.
La frequentazione della comunità gesuitica lo condusse il 10 giugno di quell’anno a entrare come novizio nella Compagnia di Gesù, ma forse il suo status di padre naturale non gli consentì di proseguire oltre, e il 13 luglio 1691 egli tornò al secolo.
Poco dopo s’impegnò a eseguire il modello per il monumento funebre di Giovanni Ramondetta, realizzato in marmo nella chiesa di S. Domenico da alcuni suoi amici marmorari su progetto dell’architetto Amato.
Fra il 6 marzo 1692 e il 10 gennaio successivo, con la consulenza del canonico Alessandro Noto, modellò quattro perduti quadroni a rilievo nella chiesa di S. Sebastiano alla Marina.
Il 19 giugno 1692, intanto, con il fratello Giuseppe, si era obbligato a ornare con stucchi la volta del sottocoro nella chiesa della Badia Nuova, assistito dallo stesso canonico Noto.
Fra il 29 marzo e il 9 settembre 1693 realizzò quindi il perduto apparato decorativo della cappella dedicata al titolare, nell’oratorio di S. Onofrio.
A partire da questi anni, presero avvio le due componenti fondamentali del linguaggio maturo di Giacomo, il filone classicista barocco e quello moderno romano di matrice berniniana, importati a Palermo dall’architetto Giacomo Amato.
Il 9 maggio 1694 Giacomo s’impegnò per gli stucchi della parete d’ingresso nell’oratorio del Carminello, da poco restituitigli su base documentaria (Mendola, 2014b, pp. 78 s.), che eseguì su suo progetto entro il 20 ottobre dello stesso anno.
Seguì, il 29 gennaio 1695, l’incarico per la perduta decorazione della volta della cappella senatoria, dedicata all’Immacolata, nella chiesa di S. Francesco d’Assisi, su progetto di Paolo Amato.
Nel corso del 1696 Giacomo eseguì gli stucchi delle cappelle delle Anime del Purgatorio (oggi di S. Gerolamo) e della titolare nella chiesa di S. Orsola.
Il 17 maggio dello stesso anno si obbligò a predisporre i modelli in creta per i rilievi con i Misteri del Rosario della cappella omonima nella chiesa di S. Cita, trasposti in marmo dallo scultore Gioacchino Vitagliano, che di lì a poco avrebbe sposato l’altra sorella di Giacomo, Teresa Serpotta.
Fra il 16 agosto e il 23 novembre 1698, subentrando al collega Vincenzo Messina e su incarico dell’arcivescovo Ferdinando Bazan, Giacomo eseguì l’ornamentazione plastica dell’aula e delle cappelle di S. Ferdinando e di S. Rosa nella chiesa dei Ss. Pietro e Paolo. Sebbene l’ideazione del progetto decorativo fosse stata affidata a Paolo Amato, in quest’occasione a Giacomo fu lasciata piena libertà esecutiva.
Del 15 marzo 1700 (Mendola, 2013, p. 32) è il più antico documento relativo all’apparato plastico del presbiterio nell’oratorio della compagnia di S. Francesco in S. Lorenzo, su progetto dell’architetto Giacomo Amato, cui fece seguito la decorazione dell’intera aula, completata entro la fine del 1705. Qui Serpotta dimostra di avere raggiunto la sua piena maturità artistica, caratterizzata da una purificazione formale e da un’armonica impaginazione compositiva fino a quel momento inesplorate. Vi concorrono i riferimenti alla statuaria romana antica conosciuta attraverso i diffusi repertori d’immagini e la comparsa, accanto ai «teatrini», di un rilievo narrativo, quasi una contropala d’altare sistemata sul seggio dei superiori nella controfacciata, raffigurante il Martirio di s. Lorenzo, moderna trasposizione tridimensionale dell’omonimo dipinto di Eustache Le Sueur per la chiesa di Saint-Germain-l’Auxerrois a Parigi (oggi al Louvre), inciso da Gérard Audran una ventina di anni prima.
Nel dicembre del 1700 è documentata la presenza di Giacomo nella chiesa del monastero dell’Assunta, dove, coadiuvato dallo stuccatore Baldassarre Infantolino, eseguì gli stucchi del presbiterio e dell’arco trionfale (Mendola, 2012, p. 26).
Il 6 novembre 1702 l’artista fu pagato per due statue raffiguranti i Ss. Pietro e Paolo nel demolito oratorio del Sacramento della cattedrale.
Fra il 2 ottobre 1703 e il 17 marzo 1704 decorò la cappella dello Spirito Santo e, a seguire, entro il mese di giugno, quella della Madonna della Pietà nella chiesa del monastero delle Stimmate di S. Francesco, subentrando al fratello, che tre anni prima aveva realizzato le altre due cappelle. Buona parte di questi stucchi, salvati dalla distruzione quando la chiesa fu demolita, sono oggi custoditi nei locali dell’oratorio dei Bianchi.
Un pagamento del 31 agosto 1704 relativo alla decorazione di una delle volte della navata destra nella chiesa del Gesù testimonia per la prima volta Giacomo al lavoro assieme al figlio.
Nel mese di aprile del 1707 fu pagato per la statua di S. Camillo de Lellis e per una perduta medaglia raffigurante la benefattrice principessa di Roccafiorita, poste nello scalone della casa dei Crociferi annessa alla chiesa di S. Ninfa. Vi tornò nel 1712 per un perduto rilievo raffigurante S. Filippo Neri, e forse negli anni Venti per le commosse statue dei Dolenti nell’altare del Crocifisso.
Nel corso del 1708, assieme al fratello e al figlio, decorò la volta della chiesa del monastero della Pietà.
Il 23 marzo 1709 si obbligò quindi per la decorazione della chiesa del monastero di S. Spirito ad Agrigento, ma interruppe i lavori, e il completamento fu affidato nel mese di giugno del 1711 al fratello Giuseppe.
Il 17 luglio 1711 Giacomo fu chiamato a restaurare alcuni stucchi nella chiesa di S. Agostino, nella cui controfacciata il 9 novembre successivo appose la propria firma. Negli anni a seguire, lungo la navata e nei pilastri dell’arco trionfale, inserì dieci statue di Santi e beati agostiniani assieme a quattro Figure allegoriche, e fra il 1724 e il 1728 ornò le cappelle della Madonna del Soccorso, di S. Sebastiano, di S. Agostino, di S. Giuseppe e di S. Monica.
Giacomo, intanto, si era separato dal suo originario nucleo familiare per trasferirsi in un’abitazione vicina a quella del figlio; nel 1713, infatti, viveva nel vicolo delle Api e l’anno seguente nella strada di S. Agostino, non lontano dal vicolo di Catalano, dove abitava Procopio.
I rapporti con i propri familiari, particolarmente nell’ultimo ventennio della sua vita, non appaiono lineari, come confermano la separazione dal fratello e poi i continui traslochi, l’esclusione del figlio naturale dalla sua eredità, l’intermittente convivenza con la sorella Rosalia.
Negli anni 1713-17 Giacomo lavorò nell’oratorio di S. Maria delle Grazie al Ponticello. Con la demolizione dell’edificio nel 1823, alcuni brani della decorazione furono salvati: sei statue di Sibille furono trasferite nella chiesa del collegio Giusino e trasformate in figure allegoriche (Meli, 1934, p. 192), due rilievi narrativi finirono in collezioni private e tre gruppi di Putti sono oggi custoditi nella Galleria di palazzo Abatellis.
Il 5 giugno 1714 Giacomo tenne a battesimo Antonina, figlia del figlio Procopio.
L’unica testimonianza riguardante la sua presenza nell’oratorio del Rosario in S. Domenico è del 14 novembre 1714, quando ricevette un pagamento per gli stucchi ai quali lavorava. Vi tornò nel mese di agosto del 1724 per restaurare un putto danneggiato dall’umidità, senza pretendere alcun compenso.
Assieme ai complessi del Rosario in S. Cita e di S. Lorenzo, esso costituisce uno dei tre capolavori sopravvissuti dell’artista. Qui si manifesta pienamente la barocca sintesi delle arti: la sua scultura s’integra infatti perfettamente con i dipinti seicenteschi già in loco, attraverso il contrappunto delle statue allegoriche, alcune ispirate alla classicità e altre vestite all’ultima moda, dei grandi medaglioni a rilievo, alla romana, che sostituiscono i «teatrini», e dei vivacissimi e palpitanti putti.
Il 4 novembre 1715 Giacomo s’impegnò a decorare l’oratorio poi abolito della congregazione del Nome di Gesù nel chiostro del convento di S. Cita, coadiuvato dallo stuccatore Antonino Romano.
Il 17 dicembre 1717 tenne a battesimo il figlio della nipote Maddalena Teresi e di Carlo Parisi, al quale venne imposto il nome del padrino.
Il 27 marzo 1719 fu pagato per gli stucchi della distrutta chiesa di S. Tommaso dei Greci.
La morte della madre, avvenuta il 25 agosto 1719, e qualche mese dopo quella del fratello Giuseppe lo indussero, l’11 dicembre 1719, a dettare il suo primo testamento e a trasferirsi nella casa, alla Kalsa, della sorella Rosalia, che nominò sua erede universale, mentre al figlio legò tutti i suoi disegni, i modelli in gesso e in creta, e le stampe, istituendolo implicitamente erede della sua arte.
Il 9 aprile 1720 ricevette un pagamento per gli stucchi eseguiti nella cappella dell’Annunciazione nella chiesa di S. Giovanni Battista dei Napoletani.
Il 12 novembre 1722 fu pagato per la decorazione della volta della cappella di S. Filippo Neri nella chiesa di S. Ignazio all’Olivella, andata distrutta nel 1823.
Il 28 dello stesso mese, ad Alcamo, ricevette un pagamento per le due statue della Carità e della Giustizia nella chiesa dei Ss. Cosma e Damiano di quella città.
Il 5 febbraio 1723 era al lavoro nella chiesa collegiata del Crocifisso di Monreale per realizzarvi la figura dell’Eterno e quattro statue degli Evangelisti, due delle quali sopravvivono, sebbene successivamente trasformate nelle figure dei Ss. Pietro e Paolo.
Di questi anni sono le dieci eleganti, ma compassate, statue allegoriche della chiesa di S. Francesco d’Assisi.
Il 24 giugno 1724, di nuovo ad Alcamo, Giacomo s’impegnò per le statue della chiesa del monastero della Badia Nuova, e nella mensola della Fortezza appose la sua firma.
Il 18 settembre 1725 fu accolto tra i confrati della prestigiosa unione dei Miseremini, con sede nella chiesa di S. Matteo.
Fra il 1° giugno e il 13 ottobre 1728 ornò il cappellone e l’arco trionfale della primitiva chiesa della Madonna degli Agonizzanti, su disegno di Paolo Corso.
Il 19 settembre 1728 la consulta dell’unione dei Miseremini stabilì di assegnare a Giacomo, «homo virtuosissimo», l’esecuzione delle statue del presbiterio della chiesa, e a distanza di una settimana ne formalizzò la commissione. Il lavoro fu completato entro l’8 giugno 1729.
In quello stesso anno, assieme alla sorella, l’artista si trasferì nel quartiere detto delle Botteghelle e fornì il modello di creta per la statua di marmo di S. Giuseppe destinata alla cappella di S. Filippo Neri nella chiesa di S. Ignazio, opera eseguita dallo scultore Giacomo Pennino.
Il 10 giugno 1730 fu pagato per gli stucchi del distrutto oratorio di S. Francesco di Paola ai Candelai, su progetto dell’architetto Andrea Palma, ultima sua fatica documentata.
Il 23 febbraio 1732, ammalato, dettò il suo ultimo testamento. Morì nella sua casa nel cortile della Virga il 27 successivo; il giorno dopo fu seppellito nella chiesa di S. Matteo, nella sepoltura comune dei confrati dell’unione dei Miseremini.
Il 29 febbraio la sorella Rosalia, da lui designata erede universale, ne fece stilare l’inventario ereditario, e il 12 marzo si accordò con il nipote Procopio sulla spartizione di una parte dell’eredità.
È probabile che i suoi modelli di gesso e di creta, i disegni e le stampe li avesse già consegnati personalmente, mentre era ancora in vita, allo stesso Procopio, l’unico componente della famiglia che garantiva la prosecuzione della stirpe dei Serpotta, e il solo in grado di cogliere l’eredità artistica del padre.
Fonti e Bibl.: F. Meli, G. S. Vita ed opere, Palermo 1934; G. Davì, Procopio Serpotta, in Quaderni sul Neoclassico, IV (1978), pp. 9-35; D. Garstang, G. S. e i serpottiani. Stuccatori a Palermo, 1656-1790, Palermo 2006; G. Mendola, Per una biografia di G. S., in S. Grasso et al., G. S. Un gioco divino, Caltanissetta 2012, pp. 11-40; Id., L’oratorio della compagnia di San Francesco in San Lorenzo, in S. Grasso et al., G. S. L’oratorio di San Lorenzo a Palermo, Leonforte 2013, pp. 25-35; Id., L’oratorio della compagnia di Santa Maria della Consolazione, del titolo di Santa Maria del deserto e San Mercurio, in S. Grasso et al., G. S. Gli oratori di San Mercurio e del Carminello a Palermo, Leonforte 2014a, pp. 23-35; Id., L’oratorio della Madonna del Carmine, detto il Carminello, ibid., 2014b, pp. 69-81; S. Grasso, Lo spettacolo globale, in Ead. et al., G. S. L’oratorio del Rosario in San Domenico a Palermo, Leonforte 2015, pp. 41-59; P. Palazzotto, Tradizione e rinnovamento nei primi apparati decorativi barocchi in stucco di G. S. a Palermo (1678-1700), in Arredare il sacro. Artisti, opere e committenti in Sicilia dal Medioevo al Contemporaneo, Milano 2015, pp. 81-108; Id., Note sulla maniera di G. S. a Palermo: relazioni, influenze, cantieri, in Serpotta e il suo tempo, a cura di V. Abbate (catal., Palermo), Cinisello Balsamo 2017, pp. 64-73.