TORELLI, Giacomo (Jacopo)
– Nacque a Fano il 1° ottobre 1604 da Pandolfo, cavaliere dell’Ordine di S. Stefano, e da Eleonora Pazzi.
Non si hanno notizie della sua formazione, ma fin dal 1627 il giovane si adoperò a varie riprese per allestire spettacoli teatrali in città, e nel 1635 costituì una società per «fabricar li intermezzi» nella sala grande delle commedie (Battistelli - Boiani Tombari - Ferretti, 1998, I, p. 63 nota 19). Due anni dopo, non senza aver studiato il teatro del Sole di Pesaro progettato da Nicolò Sabbatini, si occupò delle macchine sceniche e degli ingegni per gli Intermedii da rapresentarsi in musica nel Filarmindo (Jesi, 1637), ossia nella favola pastorale di Ridolfo Campeggi, allestita a Fano per il Carnevale.
Nel 1640 Torelli doveva già essersi stabilito a Venezia. Dal testamento del genitore, in data 29 marzo 1641, risulta che lui e il fratello Antonio avevano dovuto riparare fuori dallo Stato della Chiesa, «in contumacia condannati» alla pena capitale (forse per diserzione; Battistelli - Boiani Tombari - Ferretti, 1998, I, pp. 53, 64). Nella Serenissima lavorò per l’Arsenale, probabilmente in qualità di ingegnere navale. Qui, con un gruppo di nobili, concorse alla creazione del teatro Novissimo, il primo eretto ex novo in Venezia per l’opera in musica, inaugurato nel gennaio del 1641 con La finta pazza, dramma di Giulio Strozzi, musica di Francesco Sacrati. Il clamoroso successo, alimentato da un cospicuo battage pubblicitario e dalla seducente bravura della protagonista, il soprano romano Anna Renzi, è documentato nell’analitica descrizione dello spettacolo fornita da Maiolino Bisaccioni nell’opuscolo Il cannocchiale per la Finta pazza (Venezia 1641, ed. moderna in Michelassi, in corso di stampa).
A Venezia vi erano già tre sale da commedia riconvertite per l’opera in musica: il teatro Tron a S. Cassian (1637), il Grimani a Ss. Giovanni e Paolo (1639), lo Zane a S. Moisè (1640). Mecenatismo delle famiglie patrizie, conduzione di tipo impresariale, logica della concorrenza sul terreno del divertimento per turisti d’élite: in questo quadro sorse l’iniziativa del teatro Novissimo, destinato a una gloriosa ancorché breve attività (fu attivo fino al 1645, venne demolito nel 1647). La costruzione, su un terreno preso a prestito dai domenicani di Ss. Giovanni e Paolo, fu intrapresa per iniziativa di una società di nobili, composta da Girolamo Lando, Giacomo Marcello e Giacomo da Mosto, non senza probabili addentellati con l’ambiente intellettuale dell’Accademia degli Incogniti, nota per le aspirazioni filosofiche e gli atteggiamenti libertini: Strozzi, il drammaturgo, e Bisaccioni, il cronista, ne erano esponenti di spicco.
I lavori di edificazione del teatro, a cui sovrintese Torelli, partirono nell’estate del 1640. L’esiguo spazio a disposizione costrinse l’architetto a soluzioni audaci. L’area misurava circa 15 metri di larghezza per 30 di profondità; il palcoscenico che doveva contenere le grandi macchine sceniche aveva dunque una profondità di una dozzina di metri al più, cui si aggiunse, dopo il 1642, un prolungamento di altri quattro metri per lo sfogo della prospettiva, mentre il boccascena misurava 9 metri d’apertura per un’altezza di quasi 7 metri. Il teatro doveva avere una struttura a palchetti, alla maniera degli altri teatri veneziani, ossia una sala ‘all’italiana’, capace all’incirca di 500 spettatori. Torelli applicò alle macchine teatrali tecnologie costruttive fin lì inusitate, ma già sperimentate e collaudate per le navi e gli armamenti: così facendo, rivoluzionò l’organizzazione scenica del teatro barocco, in particolare per quanto concerne i cambi di scena. Tale rivoluzione scenotecnica, poi diffusa in tutt’Europa, restò di fatto imprescindibile per un secolo e mezzo a venire.
Torelli realizzò nel Novissimo per la prima volta un congegno che permetteva di sostituire in simultanea tutti i telari (ossia, in termini odierni, le quinte), procurando quelle ‘mutazioni’ a vista che furono la sorgente di un inesausto stupore. Un argano centrale collocato longitudinalmente sotto il palcoscenico azionava tutti insieme i tiri contrappesati che governavano lo scorrimento dei carrelli recanti i telari, corrispondenti ad altrettanti tagli sui lati del pavimento scenico: il peso dei telari in uscita e dei carrelli che di sotto il palco li sorreggevano annullava il peso di quelli in entrata, sui carrelli dei quali gli operai montavano poi i telari della successiva mutazione scenica. Lo stesso argano poteva regolare i movimenti dei celetti e degli spezzati traforati, ossia dei telari che scendendo dal soffitto della scena completavano la veduta (in assenza di documentazioni grafiche autentiche dei macchinismi torelliani, il loro schema operativo, poi divenuto consuetudinario, si può ricostruire per esempio sulla base della descrizione che l’architetto svedese Nicodemus Tessin jr lasciò dell’apparato tecnico del teatro di Ss. Giovanni e Paolo, risalente al 1660 circa; cfr. i suoi Travel notes 1673-77 and 1687-88, a cura di M. Laine - B. Magnusson, Stockholm 2002, pp. 361 s., 365-367). A questo impianto di base si aggiungevano macchine e congegni che, senza essere visti dagli spettatori, assicuravano il movimento pluridirezionale dei personaggi celesti in volo sopra nuvole.
L’azione drammatica dell’opera inaugurale, La finta pazza, distingue per l’appunto i due piani: dall’alto di spettacolose apparizioni aeree le divinità, in perenne vicendevole concorrenza, pilotano come ignare pedine i personaggi terrestri – Achille, Deidamia, Ulisse, Diomede, Licomede – nelle loro gesta di volta in volta eroiche o burlesche (il soggetto si rifà all’Achilleide di Stazio, ma accoglie scene derivate dalla tradizione dei comici, in primis la simulata pazzia della protagonista). Di questo primo spettacolo del Novissimo e delle scene dipinte da Tarsio Giancarli non esistono documenti iconografici diretti, ma la dettagliatissima descrizione di Bisaccioni dà ampia testimonianza delle vedute e dei movimenti realizzati da Torelli. Le cinque mutazioni mostrarono un porto marittimo, un fastoso cortile, una maestosa piazza, un orrido e spaventevole inferno, un giardino regale: in ciascun ambiente operò una macchina per le apparizioni, con personaggi volanti e mostri marini. I soggetti delle scene corrispondono a quelli correnti all’epoca, ma la tecnica prospettica di Torelli, nel forzare il limite illusionistico della fuga all’infinito, crea visioni affascinanti di profondità estrema, sdoppiando e moltiplicando ogni luogo.
Nel Carnevale 1642 Torelli curò nel Novissimo l’allestimento di almeno un altro dramma musicale, Il Bellerofonte del fanese Vincenzo Nolfi, musica di Sacrati (fu poi ripreso al Ss. Giovanni e Paolo, da Torelli o da altri, nel Carnevale 1645 o 1646). Inventò le macchine e le scene, dipinte dal bresciano Domenico Bruni, documentate dalle incisioni di Giovanni Giorgi, pubblicate con una descrizione di Giulio Del Colle: le dieci tavole illustrano nel dettaglio i cambi di scena e i movimenti delle macchine. Spicca in particolare il porto di Patera (nel prologo), che esibisce sullo sfondo una veduta della piazzetta S. Marco, della libreria Marciana e del palazzo ducale, allusione encomiastica al mito di Venezia. Di nuovo le scenografie assunsero un preciso significato simbolico: le scene naturali in cui si muovevano le grandi macchine divennero il luogo delle contese tra gli dèi, mentre gli sfondi architettonici raffigurarono le sedi terrene del potere e del governo, con manifesto riferimento alla Serenissima. Sebbene le fonti tacciano, non è improbabile che Torelli abbia avuto le mani in pasta anche nell’altro dramma dato al Novissimo in questa stagione, L’Alcate di Marc’Antonio Tirabosco, musica di Francesco Manelli.
Nel Carnevale 1643 allestì La Venere gelosa, dramma di Niccolò Enea Bartolini, musica attribuita a Sacrati, e l’anno dopo La Deidamia, «poema drammatico» di Scipione Errico, musica tradizionalmente attribuita a Francesco Cavalli, ma forse di Filiberto Laurenzi (cfr. Whenham, 2004, pp. 295, 298). Le scene di ambo le opere compaiono negli Apparati scenici per lo Teatro Novissimo di Venetia nell’anno 1644 d’inventione e cura di Iacomo Torelli, pubblicati da Bisaccioni con dodici incisioni di Marco Boschin (Venezia 1644). Anche qui Torelli ripropose in chiave metaforica il suo lessico barocco e conferì scenica flagranza ai messaggi concordati con l’aristocrazia culturale e accademica veneziana, ossia con la committenza del Novissimo. La dotazione scenica prodotta da Torelli in questi anni permise ancora di allestire l’ultimo spettacolo del Novissimo nel 1645, Ercole in Lidia, dramma di Bisaccioni, musica di Giovanni Rovetta.
Oltre che al Novissimo, Torelli lavorò anche nel teatro Grimani a Ss. Giovanni e Paolo. Nel Carnevale 1644 vi allestì L’Ulisse errante, «opera musicale» di Giacomo Badoaro e Sacrati: i cinque atti del dramma, ricalcando la fonte omerica, offrivano il destro a spettacolari mutazioni sceniche (lo scoglio dei Ciclopi, l’isola di Circe, la città di Dite con i Campi Elisi, i giardini di Calipso nell’isola Ogigia, la reggia dei Feaci a Corfù con una scena finale «tutta cielo»). L’architetto, che in un avviso al lettore anteposto al libretto annunciava la pubblicazione poi mai avvenuta delle tavole delle scene, sarà dovuto intervenire sul macchinismo del palcoscenico e avrà rinnovato la dotazione scenica lasciata dallo scenografo che l’aveva preceduto, il cesenate Giovanni Burnacini.
Torelli a Venezia attuò una vera e propria rivoluzione: rinnovò dall’interno lo spettacolo barocco pur realizzando un limitato numero di allestimenti, che seppero riflettere le intenzioni autocelebrative dei committenti e nel contempo manifestarono un rango artistico e tecnico mai visto. Fu tra i primi ad affrontare con atteggiamento da professionista il livello tecnologico della messinscena; grazie alle mutazioni effettuate a vista poté da un lato ridurre la durata della rappresentazione entro i tempi contingentati dello spettacolo pubblico e dall’altro potenziare al massimo grado la dimensione del meraviglioso, irrinunciabile nel lessico teatrale barocco. Dimostrò di conoscere bene le tipologie sceniche introdotte dalla tradizione degli intermedi – i suoi riferimenti iconografici furono il fiorentino Bernardo Buontalenti, il ferrarese Francesco Guitti e il ‘bolognese’ Burnacini – e seppe tradurle in nuove identità iconografiche. I quattro elementi originari, terra acqua fuoco aria, trovarono le loro equivalenze nei quattro luoghi ricorrenti sulla scena, selva mare inferno cielo, con le relative varianti. Nella seconda metà del Seicento il mondo teatrale di Venezia e d’Europa dovette rapportarsi alle innovazioni introdotte da Torelli nel modo di fare spettacolo pubblico con una pratica profondamente rinnovata.
Nella primavera del 1645 Torelli si trasferì a Parigi. Lo aveva fatto chiamare Anna d’Austria, la reggente di Francia, vedova di Luigi XIII, attraverso il cugino Odoardo Farnese, duca di Parma. Nel teatro del Petit Bourbon allestì di nuovo La finta pazza (dicembre del 1645) in collaborazione con una compagnia mista di cantanti e comici italiani e con il coreografo veneziano Giovan Battista Balbi, che già aveva ripreso l’opera di Strozzi e Sacrati in diversi teatri italiani. Nella circostanza, Torelli non nascose la propria vivace contrarietà di «gentilomo» nell’essersi dovuto abbassare «a servir li comedianti, cosa contro il mio genio e costume» (per le citazioni v. Prunières, 1913, rispettivamente pp. 376, 371; e diffusamente Michelassi, in corso di stampa, Introduzione). Scene e macchine della Finta pazza parigina, presumibilmente ricalcate sull’idea di quelle veneziane di quattro anni prima – ma la veduta del porto di Sciro riprende lo spunto della piazzetta S. Marco inquadrata nel porto di Patera nel Bellerofonte del 1642 e mostra sullo sfondo la punta dell’Île de la Cité con il Pont-Neuf, la guglia della Sainte-Chapelle e i campanili di Notre-Dame –, fruttarono allo scenografo, protetto dal cardinale Giulio Mazzarino, l’epiteto di grand sorcier (cfr. Prunières, 1913, p. 77). A detta della Gazette de France, «toute l’assistance» fu rapita «de la décoration du théâtre, de l’artifice de ses machines et de ses admirables changements de scènes, jusqu’à présent inconnus à la France» (cit. in Bjurström, 1961, p. 123). Torelli promosse la lussuosa pubblicazione delle Feste theatrali per La finta pazza, dedicata ad Anna d’Austria, recante cinque tavole di Nicolas Cochin (Parigi 1645).
Negli anni seguenti curò altri allestimenti sensazionali, in particolare il 2 marzo 1647 la «tragicommedia» L’Orfeo di Francesco Buti, con musica di Luigi Rossi e una compagnia quasi integralmente maschile di divi del canto reclutati per ordine di Mazzarino dall’Italia, e il 26 gennaio 1650 Andromède di Pierre Corneille, «tragédie representée avec les machines» recitata parte in musica e parte senza (compositore fu Charles d’Assoucy). L’opera di Buti e Rossi fu allestita al Palais-Royal, in un teatro che, fatto erigere dal cardinal Richelieu, Torelli dovette in parte smantellare e ampliare per potervi piazzare le sue grandi macchine sceniche («pour donner place aux immenses machines de cette ennuyeuse comédie», dissero i detrattori di Mazzarino; cfr. Prunières, 1913, p. 104); la tragedia corneliana, realizzata nel Petit Bourbon, fu a sua volta concepita su misura per potervi reimpiegare scene e macchine dell’Orfeo, documentate in sei incisioni di François Chauveau.
Nei primi mesi del 1651 Mazzarino dovette fuggire da Parigi per l’ostilità della Fronda, e fu infine condannato all’esilio; di pari passo si intensificò l’opposizione agli artisti italiani nell’entourage del cardinale. Ma già nel febbraio del 1653 il ministro italiano era di ritorno, e per Carnevale Torelli curò nel Petit Bourbon l’allestimento del Ballet de la Nuit di Isaac de Benserade, seguito da altri ballets de cour (in particolare Psyché di Benserade, musiche di vari autori; Louvre, Carnevale 1656). Il trionfo parigino di Torelli culminò il 14 aprile 1654 al Petit Bourbon con Les noces de Pélée et de Thétis, variamente denominato grand ballet o comédie italienne en musique, parole di Buti, balletti di Benserade, musica del romano Carlo Caproli; nelle scene coreografiche comparve Luigi XIV in persona, ormai adolescente. L’edizione bilingue delle Scene e machine preparate alle Nozze di Teti balletto reale, dedicata a Mazzarino (Paris 1654), reca dieci incisioni di Israël Silvestre; il frontespizio mostra un porticato, parzialmente diroccato, dal quale lo stemma del sovrano proietta un raggio di sole sul blasone del cardinale, che a sua volta lo riverbera sulla veduta del Pont-Neuf e dell’Île de la Cité sullo sfondo, trasparente riferimento alla scena del porto di Sciro nella Finta pazza del 1645 e lampante allusione al favore di cui Torelli godeva presso i suoi patroni.
Al colmo della fama, fors’anche per interessamento di Mazzarino, tra maggio e giugno del 1654 l’architetto ottenne dall’auditore della camera criminale di Fano la grazia e l’annullamento della condanna comminatagli una quindicina d’anni prima e fu aggregato al Consiglio cittadino. Nel 1659 il cardinale Mazzarino si rivolse però ad altri scenografi italiani, i modenesi Gaspare e Carlo Vigarani, per affidar loro la costruzione del teatro delle Tuileries, destinato alle celebrazioni dello sposalizio del sovrano con Maria Teresa d’Austria, a suggello della pace dei Pirenei: fu l’inizio del declino di Torelli alla corte di Francia. Il 20 novembre 1660 a Parigi sposò Françoise Sué, nobildonna parigina, venticinquenne. Nell’agosto dell’anno dopo realizzò l’ultima messinscena francese, la commedia-balletto Les fâcheux di Molière, su incarico di Nicolas Fouquet, sovrintendente alle finanze di Luigi XIV, in onore di Enrichetta Maria di Borbone-Francia, regina consorte d’Inghilterra, per l’inaugurazione del castello di Vaux-le-Vicomte. Di lì a poche settimane, la caduta del ministro costrinse l’architetto a lasciare la Francia.
L’influenza dell’operato di Torelli in Francia persisté a lungo dopo la sua partenza, né fu scalfita dalla presenza a Parigi di Carlo Vigarani, tanto che il successore di questi all’Académie royale de musique, Jean Bérain, si richiamò assai spesso alle tipologie sceniche introdotte da Torelli. Il ricordo dei suoi capolavori si mantenne a lungo e le sue scene furono riprodotte ancora alla metà del Settecento come esempi da seguire (cfr. Bjurström, 1961, p. 210; J. de La Gorce, in Giacomo Torelli..., 2000, pp. 162 ss.).
Rimpatriato nel 1662, grazie alla notorietà raggiunta ricoprì in Fano alcune cariche politiche (Battistelli - Boiani Tombari - Ferretti, 1998, I, p. 67). Nel 1665, con altri nobiluomini fanesi, chiese di poter utilizzare la sala della Commedia, mentre predispose il progetto per il rinnovo del teatro a Macerata. Negli anni seguenti, Torelli progettò un nuovo teatro cittadino a Fano, denominato della Fortuna, situato nella sala grande, al piano nobile del palazzo del podestà (corrispondente pressappoco all’attuale sala Giuseppe Verdi). Durante la costruzione, Torelli poté contare sulla collaborazione del giovane Ferdinando Galli Bibiena, che con il suo maestro bolognese Mauro Aldrovandini lo aiutò a dipingere le scene e il teatro. Quest’ultimo fu inaugurato il 6 giugno 1677 con il grandioso allestimento di un dramma per musica di soggetto storico e allegorico, Il trionfo della continenza considerato in Scipione Affricano, tre atti con altrettanti intermedi coreografico-macchinistici (L’inferno, Il fulmine, Il trionfo) e due prologhi, versi del conte Giulio Montevecchi, musica di Alessandro Melani. Il libretto contiene una dedica di Torelli a Luigi XIV, datata 26 maggio. La Descrizione de gli apparati et intramezzi (Fano 1677), stilata dallo stesso scenografo, espone ampiamente l’architettura della sala e la struttura del palcoscenico, oltre alle sbalorditive macchine di cui era dotato e ai loro possibili movimenti. Delle scene rimangono alcuni disegni, tra Fano, Roma e Monaco di Baviera (cfr. Bjurström, 1961, pp. 216-230).
Morì il 17 giugno 1678 a Fano. Aveva testato il 4 del mese. Venne sepolto nella chiesa di S. Pietro in Valle accanto alla moglie, deceduta il 30 settembre 1673, trentottenne. Dei coniugi il Museo archeologico e Pinacoteca del Palazzo Malatestiano di Fano conserva i ritratti coevi, anonimi.
Fonti e Bibl.: La monografia di riferimento è tuttora P. Bjurström, G. T. and baroque stage design, Stockholm 1961; cospicui aggiornamenti sono nel catalogo della mostra G. T.: l’invenzione scenica nell’Europa barocca, a cura di F. Milesi, Fano 2000 (in partic. J. de La Gorce, T. e gli scenografi del suo tempo, pp. 149-166). Si vedano inoltre: H. Prunières, L’opéra italien en France avant Lulli, Paris 1913, ad ind.; P. Bjurström, T., G., in Enciclopedia dello spettacolo, IX, Roma 1962, coll. 973-976; Illusione e pratica teatrale (catal., Venezia), a cura di F. Mancini - M.T. Muraro - E. Povoledo, Vicenza 1975, pp. 54-68, tav. 20, ill. nn. 1-9; R. Guarino, La tragedia e le macchine. «Andromède» di Corneille e T., Roma 1982; F. Battistelli, Scenografia, scenotecnica e teatri: Sabbatini e T., in Arte e cultura nella provincia di Pesaro e Urbino, a cura di F. Battistelli, Venezia 1986, pp. 377-386; M. Viale Ferrero, Luogo teatrale e spazio scenico, in Storia dell’opera italiana, V, La spettacolarità, a cura di L. Bianconi - G. Pestelli, Torino 1988, pp. 18-24, 50-58; F. Mancini - M.T. Muraro - E. Povoledo, I teatri del Veneto, I, 1, Venezia: teatri effimeri e nobili imprenditori, Venezia 1995, pp. 323-360; F. Battistelli - G. Boiani Tombari - L. Ferretti, Il Teatro della Fortuna in Fano, Fano 1998; G. T. (1604-1678) scenografo e architetto dell’antico Teatro della Fortuna di Fano, a cura di M. Puliani, Fano 1998; Les noces de Pélée et de Thétis: Venise, 1639 - Paris, 1654. Actes du Colloque international, Chambéry-Turin... 1999, a cura di M.-Th. Bouquet-Boyer, Bern 2001, ad ind.; J. Whenham, Perspectives on the chronology of the first decade of public opera at Venice, in Il Saggiatore musicale, XI (2004), pp. 253-302; B.L. Glixon - J.E. Glixon, Inventing the business of opera. The impresario and his world in seventeenth-century Venice, New York 2006, pp. 74-88, 229-243, 274 s., 279, 318; A. Langer, T., G., in MGG Online, 2016, https://www.mgg-online.com/mgg/stable/23464 (17 novembre 2019); N. Michelassi, La doppia «Finta pazza». Un dramma veneziano in viaggio nell’Europa del Seicento, in corso di stampa.