GIACOMO (Jacobus)
Non si hanno informazioni precise circa la nascita di G., conte di Andria dagli inizi del secolo XIII, che, presumibilmente, avvenne intorno agli anni Sessanta o Settanta del XII secolo e, comunque, a Roma, poiché, talvolta, viene detto "nobilis civis Romanus". Con certezza sappiamo solo che era consobrinus di Lotario de' Conti, ossia di papa Innocenzo III, che così lo identifica diverse volte nei documenti da lui emanati.
Se il termine consobrinus conservasse lo stesso significato assunto nel latino classico esso indicherebbe che G. era figlio della sorella della madre di Lotario, ossia figlio di una sorella di Clarice, che apparteneva alla nobile e influente famiglia romana degli Scotti (in passato è stato erroneamente affermato che Clarice fosse sorella di papa Clemente III, ma in realtà non è possibile stabilire in maniera sicura la sua effettiva parentela: cfr. Maccarrone, 1943). Nell'epoca in questione, però, consobrinus, aveva per lo più il senso generico di cugino, e, quindi, G. potrebbe anche essere imparentato con Innocenzo da parte di padre: infatti, Innocenzo definisce allo stesso modo anche un cugino che portava lo stesso nome di suo padre, Trasmondo, e tale identità onomastica farebbe piuttosto pensare a una comune ascendenza (cfr. Innocentii III… epistolarum libri, col. 1215, da cui risulta che, nel 1207, al consobrinus Trasmondo era stata data in moglie Elena figlia del giudice di Gallura). In assenza di altre e più precise notizie, risulta, quindi, del tutto aleatorio determinare chi fossero i genitori di Giacomo.
Non si hanno notizie neppure sui suoi primi anni di vita e sulla sua formazione. Il suo nome appare la prima volta solo alla fine del 1199, quando fu incaricato della repressione delle scorribande compiute in Italia meridionale dalle armate guidate da Marquardo di Annweiler.
Marquardo affermava che l'imperatore Enrico VI in punto di morte lo aveva nominato reggente durante la minore età del figlio Federico di Svevia e quindi aveva tentato di impossessarsi del Regno. A queste pretese Innocenzo III, che era stato nominato dall'imperatrice Costanza tutore di Federico e reggente del Regno, reagì scomunicando Marquardo e proclamando contro di lui una guerra santa. Così, tra il dicembre del 1199 e i primi mesi dell'anno successivo, in coincidenza con lo sbarco di Marquardo e delle sue schiere in Sicilia, Innocenzo III annunciò al clero, alla popolazione e ai milites di Capua e poi ai Siciliani di aver inviato in loro soccorso Cinzio cardinale prete del titolo di S. Lorenzo in Lucina e legato apostolico, Anselmo, arcivescovo di Napoli, Angelo, arcivescovo di Taranto, e G., "mareschalcus", alla guida di un forte esercito. Il contingente inviato dal papa, in realtà, stando alle informazioni fornite dall'autore dei Gesta Innocentii III (col. XLVI), era costituito solo da 200 soldati "pecuniaria mercede conducti", cioè mercenari, ma esso fu evidentemente sufficiente a superare già un primo ostacolo in Calabria, dove si scontrò vittoriosamente con le truppe di Federico di Malvito. Il "mareschalcus" G. passò poi lo stretto con le sue truppe pervenendo, nel marzo del 1200, a Messina, che era rimasta fedele a Federico di Svevia e alla Chiesa, e dove si trovava anche il cancelliere e familiaris del defunto re di Sicilia Gualtieri di Pagliara. Frattanto, però, Marquardo aveva organizzato le sue forze, raccogliendo intorno a sé anche i saraceni siciliani, e aveva attaccato Palermo. L'assedio di quella città durava già da venti giorni quando il 17 luglio 1200 giunse a difenderla l'esercito guidato da G. congiuntosi, finalmente, con quello regio.
Ciò che avvenne in quelle giornate ci viene raccontato nel resoconto inviato al papa dall'arcivescovo di Napoli, Anselmo, che aveva raggiunto Palermo quello stesso giorno con una piccola flotta composta da tre galee e un bussium.
La lettera, assai doviziosa di particolari ed estremamente dettagliata, ci è stata tramandata dai Gesta Innocentii III (coll. XLIX-LII). L'esercito appena giunto si era accampato "extra civitatem, in viridario scilicet regis, quod dicitur Januardum", pronto ad attaccare battaglia il giorno successivo. Marquardo, appresa la notizia, inviò Rainerio di Manente a trattare, nel tentativo di sfruttare a suo vantaggio la penuria di denaro che impediva di pagare i soldati inviati dal papa. Ma, grazie soprattutto all'intervento di "magister Bartholomeus, scriptor pape", le offerte di pace di Marquardo vennero respinte, e il 21 luglio si combatté tra Palermo e Monreale. Gli scontri durarono "ab hora tertia usque fere ad nonam" e l'esito della battaglia fu a lungo incerto, ma alla fine i soldati dell'esercito regio-papale "qui erant in prima belli facie constituti", pur combattendo valorosamente, si videro costretti ad arretrare due volte raggiungendo le posizioni protette dalla retroguardia comandata da Giacomo. Poi venne sferrato il contrattacco che così viene descritto da Anselmo: "benedictus a Domino marescalcus et sui, unanimiter et animose congressi, in hora una, in puncto uno, castra verterunt, fugaverunt, receperunt, ceciderunt et occiderunt sequentes et persequentes, donec illi qui gladium evaserant, loca castrorum cum omnibus tentoriis et rebus suis desererent, et se per aspera montium, per concava vallium et defossa terrarum dispergerent, et in viam perditionis abirent". Anche i 500 pisani che facevano parte del contingente di Marquardo e che, insieme con i saraceni, avevano il compito di difendere Monreale furono sconfitti. A Marquardo non rimase altra salvezza che la fuga. Gran parte del merito della vittoria, che fruttò un bottino così notevole che quasi non bastò un intero giorno a portarlo via, spettò a Giacomo. Tanto che, al termine della sua relazione, l'arcivescovo di Napoli Anselmo, dopo aver affermato che G., con il suo valore e la sua perizia militare, aveva acquisito fama eterna, non poté fare a meno di esclamare: "Faciat Deus, ut ei respondeatur secundum merita sua bona, imo preclara opera sua; vobis autem eum non commendo, quia opera sua valde bona eum apud vestram magnificentiam recommendant".
La relazione di Anselmo dovette sortire effetti particolarmente favorevoli per G., dal momento che egli, per i meriti acquisiti in quella battaglia, fu ricompensato con la concessione della contea di Andria. La contea era rimasta vacante sin dal 1190, anno in cui era morto il precedente conte, Ruggero, e a essa erano connessi anche i feudi di Minervino e di Ascoli Satriano. Nel frattempo, i familiares del sovrano non vedevano di buon occhio la permanenza di G. in Sicilia, e quindi il pontefice, alla fine dell'estate, lo richiamò insieme con le sue truppe, che non erano state ancora ricompensate e che venivano decimate dal torrido caldo insulare.
Successivamente, a quanto si sa da una lettera inviata nella seconda metà del maggio 1202 da Innocenzo III alla popolazione siciliana, G., insieme con Roffredo, cardinale prete del titolo dei Ss. Marcellino e Pietro, avrebbe dovuto fare ritorno in Sicilia, godendo della concessione della plenaria potestas del pontefice, per provvedere alla liberazione del piccolo Federico - fatto catturare nel novembre 1201 da Marquardo e imprigionato nel Castellammare di Palermo - e alla sua custodia. La nuova spedizione siciliana non ebbe luogo, e Innocenzo intraprese una diversa politica per ottenere la liberazione e il controllo del Regno.
Infatti, con un'altra lettera inviata il 5 giugno 1202, Innocenzo diede mandato a G. di inviare in Aragona un'ambasceria per trattare la stipulazione del contratto matrimoniale tra Federico e la sorella di re Pietro II, Sancia: la sposa avrebbe dovuto portare in dote 200 milites aragonesi che aiutassero a ricondurre la pace nel Regno di Sicilia. Neppure questo tentativo, tuttavia, sortì effetti immediati, poiché il matrimonio tra Federico e una sorella del re d'Aragona venne celebrato solo diversi anni dopo, nel 1208, ma la sposa fu Costanza che portò in dote 500 cavalieri, i quali, però, si ammalarono e morirono quasi tutti nel 1209, poco dopo il loro arrivo in Sicilia.
G. venne ancora impiegato da Innocenzo per portare aiuto a Gualtieri di Brienne che, sposatosi con Alberia figlia di Tancredi di Lecce, già antagonista di Enrico VI, rivendicava per sé l'investitura della contea di Lecce e del principato di Taranto. Così, nell'estate del 1202, G. fu inviato in Puglia in qualità di maestro giustiziere di Puglia e Terra di Lavoro, carica che conservò almeno fino al settembre del 1204 e che condivise con Gualtieri. Questi avrebbe dovuto recarsi in Sicilia per combattere contro Marquardo e, in questa prospettiva, il 14 sett. 1202 il pontefice scrisse sia a Gualtieri sia a G. per cercare di capire se fosse più opportuno che i due si recassero insieme in Sicilia o che G. rimanesse in Puglia: nel primo caso si sarebbero dovute sostenere le spese attingendo ai proventi dell'ufficio del camerario di Puglia e Terra di Lavoro; nel secondo G. avrebbe dovuto ricevere in possesso i castelli di Barletta, di Melfi e di Rapolla, nonché i castra del comitato di Andria. Neanche questa volta, però, venne effettuata la spedizione anche perché, morto nel frattempo Marquardo, la situazione nella parte continentale del Regno era nuovamente incerta. Infatti, nel settembre o nell'ottobre del 1203, approfittando dell'assenza di G. e di Gualtieri di Brienne - che si erano allontanati dai loro possedimenti per recarsi ad Anagni, presso Innocenzo III gravemente ammalato - le città di Matera, Bitonto e Brindisi si ribellarono; i Barlettani, inoltre, assediarono il castello della loro città e costrinsero il castellano che era stato insediato da G. a cedere. Non appena il pontefice iniziò a ristabilirsi, però, Gualtieri e G. tornarono in Puglia e G. riconquistò le città di Andria e Minervino e, a quanto ci riferisce l'autore dei Gesta Innocentii (coll. LXVI s.), "ex tunc se comitem Andrie appellavit". Ma, una volta rientrato ad Andria, G. scampò fortunosamente a un attentato organizzato da alcuni cospiratori, di cui si vendicò torturandoli, uccidendoli e sequestrando i loro beni.
Dal settembre del 1204 e per molti anni non si hanno più notizie di Giacomo. Tuttavia, il 21 ag. 1213, da una lettera di Innocenzo III ai Viterbesi risulta essere divenuto rector Tuscie, ufficio esteso in seguito anche al Ducato di Spoleto e al contado di Assisi. Ancora il 7 giugno 1215 è menzionato in qualità di rector Tuscie nello scritto papale con cui viene ingiunto alla gente di Narni, che si era resa colpevole di depredazioni a spese della popolazione di Stroncone, Otricoli, Amelia e di altre località dei dintorni, di restituire il maltolto e di risarcire i danni. E forse è sempre lui anche il "comes Jacobus" che testimonia alla carta refutationis nei confronti della Comunità di Stroncone compilata il 13 maggio 1216 dai "creditores Narnienses".
L'ultima notizia che abbiamo su G. risale a due anni dopo e ci è tramandata dai Chronica di Riccardo di San Germano: nuovamente alla guida di un contingente romano dell'esercito crociato pontificio, nel 1218, insieme con Pelagio vescovo di Albano, G. partì da Brindisi alla volta di San Giovanni d'Acri, da dove, poi, si mosse immediatamente per raggiungere Damietta verso la metà di settembre. Dopo questa data le fonti tacciono su Giacomo.
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