BUSCHETTI, Giambattista
Di nobile famiglia chierese nacque a Bene nel circondario di Mondovì (ignota è la data di nascita), primogenito di Flaminio, referendario e consigliere di Stato dal 1615, e di Lodovica Maria Giovanna. Conclusi gli studi universitari a Mondovì con il dottorato in legge, entrò nel 1634 al servizio di Vittorio Amedeo I, che nel marzo 1635, dopo la nomina a cavaliere di giustizia dell'Ordine mauriziano, gli fece dono di 2.000 ducatoni sui beni del napoletano Angiolo Picco morto a Savigliano senza eredi. Accostatosi in seguito (anche per certe giovanili inclinazioni letterarie che lo portarono a frequentare l'accademia torinese dei Solinghi e a cimentarsi in qualche modesto componimento) al cardinal Maurizio, ne diveniva nel febbraio 1638 gentiluomo di camera con una pensione di 300 scudi sul tasso di Chieri. Ma non fu poi tra i comprimari del "partito spagnolo" durante il conflitto dinastico scoppiato di lì a qualche mese fra madamisti e principisti. Ciò che gli faciliterà, pur rimanendo al servizio del cardinal Maurizio, la nomina qualche mese dopo la "pace del Valentino", il 4 sett. 1642, a consigliere di Stato e (con una pensione di 500 scudi) a cavaliere del Senato di Piemonte. Il quale consesso si sarebbe piegato, un anno dopo, il 30 ag. 1643, ad accoglierlo fra i suoi membri nonostante il rifiuto opposto in marzo di fronte alla dispensa del B., per espresse patenti ducali, dall'esame prescritto. Maria Cristina gli confermava del resto la sua benevolenza ancora nell'agosto 1646 con varie prebende e la concessione nell'ottobre 1647 della precettoria dell'Ordine mauriziano di S. Benigno presso Cuneo. Con questi donativi e una pensione raddoppiata a 1.000 scudi dal giugno 1649, e insignito pure della gran croce e quindi del vicecancellieratodell'Ordine dei SS. Maurizio e Lazzaro, il B. ascendeva infine, l'11 giugno 1657, alla carica di terzo presidente del Senato di Piemonte e di presidente per il marchesato di Saluzzo succedendo a Lorenzo Nomis e beneficiando dal 1658 di un altro donativo, a titolo vitalizio, di 300 ducatoni sul tasso di Giaveno. Tre anni dopo, il 13 nov. 1661, gli si aprivano - in successione al conte Filippo Morozzo - le porte del gran cancellierato di Savoia, la più cospicua dignità del Ducato, con la direzione di tutta l'amministrazione della giustizia e la presidenza del Consiglio di stato. Nonostante l'assunzione al trono di Carlo Emanuele II, il paese era ancora sotto il governo effettivo di Madama Reale, prodiga pur sempre di favori e di appannaggi, onde seguiva nel 1662 l'investitura del B. di parte del feudo di Ceva, da lui acquistata dalla principessa Lodovica, con la concessione del titolo marchionale.
In effetti, soltanto dopo la morte di Cristina nel 1663, si venne delineando una partecipazione più attiva del B. agli affari politici al seguito delle nuove iniziative assunte da Carlo Emanuele II, soprattutto nel riassetto dell'amministrazione e nella ricomposizione, su basi più accentrate, delle strutture dello Stato che avevano risentito dei torbidi e delle convulse tendenze centrifughe della guerra civile e delle irregolarità e delle parzialità di natura clientelare maturate nel successivo periodo della Reggenza.
In questo senso la fittissima corrispondenza con il sovrano è ricca di annotazioni sulla politica intesa a ripristinare la piena autorità del principe sulle comunità e nei vari settori della vita pubblica, contro privilegi, diritti feudali di giurisdizione, usurpazioni nobiliari e velleità di potere politico dell'alta aristocrazia; ma offre anche uno spaccato di prima mano sulle divisioni interne, in uno Stato caratterizzato d'altronde dall'estrema varietà dei possedimenti ducali, sui forti squilibri fra zona e zona, sulle sfasature dell'ordinamento giuridico, sui ricorrenti abusi degli amministratori comunali, sulle gravi carenze del regime fiscale (in questo senso anche Carlo Emanuele avrebbe tentato, come il padre Vittorio Amedeo I, di dare inizio ad un catasto generale delle terre e di organizzare la verifica della legalità di tutti i possedimenti feudali, senza giungere peraltro che ad un semplice "consegnamento" nel 1670).
Ma l'opera del B. ebbe a riguardare, soprattutto, i delicati rapporti con le gerarchie ecclesiastiche: conflitti di competenza e di giurisdizione, privilegi e immunità. Tutte questioni - annotava Carlo Emanuele II nel suo ultimo "memoriale" prima della morte - per le quali "egli à sublimi pensieri" e "gran tallento"; e che rischiavano tutte puntualmente, ad ogni stormir di vento, di rendere precarie le già difficili relazioni con Roma. Come per esempio nel corso del 1665, quando in seguito alle polemiche succedutesi a Vercelli per le imprudenze commesse da un predicatore, il B. aveva cercato di rappezzare in qualche modo la situazione suggerendo al marchese di Pianezza di inviare a Vercelli un senatore a far opera di conciliazione fra vescovo, cittadini ed ecclesiastici, perché - così scriveva in una lettera al duca del 5 marzo - "questo darebbe a V.A.R. campo di non venire a qualche rottura col Papa, quale in queste congiunture particolarmente non si dovrebbe in alcun modo disobbligare pei rispetti gravissimi che V.A.R. ottimamente conosce".
Del resto, le preoccupazioni per i rapporti con Roma trasparivano chiaramente anche in una delle prime memorie indirizzate alla duchessa Maria Giovanna Battista di Savoia Nemours che, dopo la morte di Carlo Emanuele II nel giugno 1675, aveva assunto la reggenza del ducato. "Pretende il Duca di Savoia - egli ricordava - che non si possa conferire nel suo Stato alcun beneficio a persona che non sia nativamente suddita e grata; inoltre pretende che gli arcivescovati, vescovati e abbazie non si possano conferire che a quelle persone sopra le quali caderà la sua intenzione e il suo consenso; come pure che si debba avere antecedentemente l'intenzione sua quando si provvederanno i priorati di Ripaglia, della Novalesa e la prepositura di Montegiove. Per quello che riguarda ai benefici patronati, non v'è dubbio che ne ha formalmente la nominazione". Ma, "perché sopra queste cose sono state fatte varie opposizioni, risposte e repliche", egli aveva ritenuto opportuno nel frattempo "fare una buona istruzione da conservare in archivio con le altre scritture per tutte le occorrenze"; e, siccome "v'è qualche occasione di contendere per la giurisdizione, per l'immunità; e sopra questo punto pure è più che necessaria una buona istruzione", raccomandava ora di "darne l'ordine a qualche persona capace" e intanto anticipava quella che, a suo giudizio, avrebbe dovuto essere la linea più opportuna da adottare, soprattutto di fronte alla pretesa di "esigere li spogli che viene conservata con molta gelosia dalla Camera apostolica" e alle altrettanto buone ragioni, di finanza ducale, per tenervi testa: senza tuttavia dimenticare all'occorrenza un po' di souplesse, dal momento che a Roma pendeva pur sempre il processo di canonizzazione di Amedeo IX e di Margherita di Savoia, marchesa di Monferrato e - concludeva l'abile consigliere - "sarà sempre di gloria alla real casa accelerarne la conclusione".
Altrettanto ardue le questioni ancora aperte nelle relazioni con Francia e Impero ("il trattato di Pinerolo - osservava il B. - non si può separare da quello di Cherasco, ed è un labirinto nel quale ho visto più di una volta, che alcuni deputati pratichissimi perdevano la vera strada con molto pericolo. Vi sono delicatezze recondite, e di somma conseguenza"). Quanto ai rapporti con la Spagna, era ancora in piedi il problema della dote di Caterina d'Austria che "il re cattolico deve senz'alcuna difficoltà", dato che, "oltre l'istrumento dotale, v'è il trattato dei Pirenei, in cui la Maestà sua promette chiaramente di pagare a quello dei due principi, cioè al duca di Savoia, o al duca di Modena, quale consterà essere il vero creditore o per sentenza definitiva, o per aggiustamento fra di loro. È seguito l'aggiustamento in buona forma e risulta la porzione dovuta...". Ed era sul tappeto ancora la questione del "testamento del re Filippo IV in cui S.A.R. viene esplicitamente chiamato alla successione della Corona di Spagna". "In qualunque modo si prenda quest'affare - concludeva il B. - non è una bagatella". Sarebbe stata comunque "buona politica" tener d'occhio e l'una e l'altra "partita" e avvalersene per non rimanere alla finestra, per inserirsi al momento opportuno in un gioco diplomatico più ampio, cominciando a considerare "quello che può l'A.S.R. sodamente pretendere o probabilmente conseguire, con quali mezzi, e con quali impieghi". Quanto ai rapporti con gli Stati italiani, il problema centrale rimaneva quello delle precedenze e dell'investitura del titolo regio onde, a capo delle sue considerazioni, egli ritornava sul tentativo d'aggiustamento compiuto a suo tempo da Carlo Emanuele I con Venezia, "un gran colpo peggiore di tutti gli altri", dopo il quale non restava che astenersi per il momento da qualsiasi atto che potesse procurare alla Repubblica di "avvantaggiarsi sopra il Duca di Savoia". Lo stesso valeva per le relazioni con Firenze, dopo che anche l'imperatore aveva riconosciuto la dignità di granducato alla Toscana già concessa da Pio V: si trattava di tener fermo e di ribadire all'occorrenza che "il titolo di granduca in niente pregiudica alle precedenze del Duca di Savoia". Di fatto, con le "teste di ponte" di Pinerolo e delle valli vicine ancora occupate dai Francesi e dopo l'insuccesso di Genova, le linee direttrici della politica estera sabauda si riducevano a poca cosa, a badare all'essenziale e a salvare le apparenze.
Su questo sfondo assai dimesso, anche per la politica interna, vennero a consumarsi le ultime stanche esperienze di altri vecchi e austeri fiduciari di corte del periodo madamista: i marchesi di San Tommaso e del Borgo, don Gabriele di Savoia, l'arcivescovo di Torino Beggiamo, affiancati al B. nel Consiglio di reggenza più per dovere d'ufficio e provata fedeltà, per diritti d'anzianità e il carico di dignità accumulate in lunghi anni di servizio, che per reale vocazione politica e sicuro intuito nel mettere a punto nuove ipotesi e direttrici d'azione. Si trattava, piuttosto, di amministrare con prudenza un patrimonio fortemente scosso da una lunga guerra dinastica, ricucito in fretta da Carlo Emanuele II ma pur sempre fragile ed esposto a tutti i venti, e lasciare ad altri il compito di chiudere il periodo di transizione apertosi quarant'anni prima con la prematura scomparsa di Vittorio Amedeo I. In questo senso il B. fu certo uno degli uomini più consapevoli quanto meno nel consigliare moderazione e cautela onde evitare passi falsi, soprattutto negli strascichi succedutisi dopo il fallimento dell'attacco a Genova, fermo nella sua convinzione, già espressa nell'agosto 1672 in un parere al primo segretario di Stato il marchese di San Tommaso, di non "ricercare il pericolo che si dovrebbe sfuggire con ogni studio". E a questo proposito terrà, fra l'altro, a controllare da vicino le scritture dello storiografo di corte, Girolamo Brusoni, non certo "all'incremento della verità storica", come osserva il Claretta, ché anzi egli stesso intervenne in più punti ad addomesticare la narrazione "secondo le mire del governo".
"Esperto nei negozi, fecondo negli spedienti, tanto nell'antivedere i lontani effetti delle cose - scriverà di lui il Carutti, non senza ragione - esercitava nelle risoluzioni della reggente non piccolo influsso". Aggiungendo tuttavia che, "dotto uomo di legge", il B. per contro "non avea le parti dell'uomo di Stato; e tristo egli era se le avea". La sua devozione alla reggente gli valeva comunque, ancora il 25 sett. 1682, la concessione di una somma di ben 20.000 lire d'argento, estesa pure ai suoi successori, sul tasso di Chieri, del quale già beneficiava per una somma minore dal marzo 1664: e questo - si legge nelle patenti - perché, "sebbene gran cancelliere sia per rispetto del suo ufficio immune da tutti i carichi, non ha mai voluto acquistare un palmo di terreno non sottoposto al Catasto né pure a titolo di datione in primogenitura vera et reale".
Dal 1679, già carico di acciacchi, il B. era andato alternando la sua permanenza nella capitale con lunghi soggiorni a Nizza; e il 20 ott. 1683 aveva provveduto a disporre delle sue cose designando, in mancanza di figli, il nipote Andrea Flaminio Ripa (figlio di sua sorella Virginia sposata a Filippo Carlo di Meana conte di Giaglione) a suo erede nei possessi di Ceva e nel titolo marchionale, con la condizione che costui aggiungesse al suo anche il cognome di Buschetti. Morì a Torino nell'ottobre 1685 (non se ne conosce il giorno). Dei suoi poemetti e di altri componimenti di circostanza, fra cui L'uscita del popolo d'Israello dall'Egitto, dedicato a Carlo Emanuele II, raccolti dall'Arnaldo e citati anche dal Rossotti, non val la pena di parlare.
Fonti e Bibl.: Arch. di Stato di Torino, Sezione prima, Lettere particolari, B, mazzi 132, 133; Sezioni Riunite, Patenti Piemonte, reg. 104, f. 96; Controllo Finanze, regg. 1634 in 1635, f. 135; 1635, 1º, f. 4; 1637 in 1638, f. 1, 56; 1639 in 1640, f. 158; 1642, f. 245; 1642 in 1643, f. 21; 1643 in 1644, f. 253; 1646 in 1647, ff. 10-11; 1649, f. 113; 1657, f. 88; 1661 in 1662, f. 50; 1665 in 1666, f. 102; 1668 in 1669, f. 89; 1672, ff. 73 e 138; 1673 in 1674, f. 74; 1677 in 1678, f. 14; 1677, 2º, f. 224; 1678 in 1679, f. 87; 1679 in 1680, f. 57; 1680 in 1681, 179; 1681, 2º, f. 222; 1682, f. 175, 1683 in1684, 7; Torino, Biblioteca Reale, Varia 280 (21, 27-66 e 74-75), 282 (89 e 123-124), 526 (53-62) e 549; Mss. Misc. 14 (51), 73 (5) e 93 (31); A. Rossotti, Syllabus Scriptorum Pedemontii, Monteregali 1677, ad vocem; [G. GalliDella Loggia], Cariche del Piemonte, Torino 1798, I, p. 57; D. Carutti, Storia del regno di Vittorio Amedeo II, Torino 1863, pp. 56-57; G. Claretta, Storia del regno e dei tempi di Carlo Emanuele II, Torino 1877, II, pp. 201, 221, 449, 452-456; III, p. 391; C. Dionisotti, Storia della magistratura piemontese, Torino 1881, pp. 202, 276, 287, 325; A. Manno, Il patriziato subalpino, Firenze 1906, II, p. 470; G.Mazzatinti, Inv. dei manoscritti delle bibl. d'Italia, XXVIII, p. 178.