CALVELLO, Giambattista
Nacque a Palermo il 1º genn. 1810 da Luigi Antonio, magistrato d'origine calabrese il quale aveva fedelmente seguito il Borbone in Sicilia, e da Francesca Garofalo. Mortogli nel 1822 il padre, che aveva raggiunto la carica di giudice della Gran Corte criminale, il C. fu messo dalla madre alla scuola dei barnabiti nel collegio di Caravaggio, donde tornò a Napoli per iscriversi all'università. Qui contrasse le prime e più durevoli amicizie, massime con L. Settembrini. Liberale di sentimenti, ma incapace di uscir dalle remore familiari d'un cavalleresco rispetto per la dinastia, il C. non prese parte a nessuna manifestazione o attività politica, rifiutò qual si voglia adesione a qual si voglia setta od organizzazione clandestina e, se naturalmente non gli dispiacque il rivolgimento costituzionale del 1848, non vi fu in mezzo né subì quindi le conseguenze della restaurazione assolutistica.
È segno del suo fermo carattere che non si lasciasse intimidire a sottoscrivere la "domanda al Re che abolisse la data Costituzione", motivando il diniego con l'abile argomento: "Il Re ha data la Costituzione, il Re può toglierla se vuole: ma se non vuole, questa dimanda tende a sforzare la volontà del Re, offende il Re, ed io non posso sottoscriverla" (Settembrini, p. 487). Ma è anche riprova dell'assoluta non pericolosità del C., (naturalmente agli occhi e nel giudizio della polizia borbonica) che quest'atto, à double entendre, non gli recasse nocumento veruno.
Fin dagli anni giovanili il C. si era acconciato a vivere insegnando l'italiano ai forestieri, soprattutto di lingua inglese, che capitavano a Napoli, forte della sua allora non frequente conoscenza del francese e dell'inglese. Contemporaneamente, legatosi in amicizia con A. Tari, P. S. Mancini, M. Morrone ed E. Rocco, fu saltuario collaboratore di modesti e "generici" periodici napoletani, quali lo Omnibus pittoresco e la Rivista napolitana.
Un suo articolo, Libri e librai (Omnibus, 3 giugno 1841, pp. 17-18), in difesa del diritto di proprietà letteraria e ad elogio della cultura partenopea, di cui esaltava corifei P. Galluppi e N. Nicolini, fu da quest'ultimo segnalato all'amico toscano V. Salvagnoli in una sua lettera da Napoli del 30 giugno, donde si evince che al Salvagnoli già era noto il nome del C., quantunque la sua fama e le sue relazioni personali ed epistolari non sembra valicassero mai le frontiere del Regno.
In quegli anni il C., già vincitore d'un concorso per l'insegnamento di lettere italiane e latine nel collegio di Arpino, professava letteratura e storia (e successivamente altresì geografia) nel regio collegio di musica, dove fu "professore... con lo stipendio di quindici ducati il mese, che poi per suoi meriti gli fu accresciuto a venti" (Settembrini, p. 481). Il C. apprestò anche un "Piano di riordinamento" del collegio medesimo, che finì (inedito, come quasi ogni altro serio scritto del C.) tra le carte di B. Spaventa; e qui lo rinvenne il Croce, che ne fece poi dono alla Società napoletana di storia patria.
L'oscurità e la sua improduttività scientifica non debbono averlo raccomandato neppur agli amici e condiscepoli che emersero alla direzione dell'istruzione e della cosa pubblica nelle province napoletane dopo il '60, se il 22 dicembre del 1861 A. Tari, in una sua lettera al De Sanctis ministro, sollecitava un migliore assetto economico del Calvello. Questa raccomandazione "a provvedere, rendendo possibile il vivere e non ispaventosa l'imminente vecchiezza ad uno de' più probi e coscienziosi istruttori della gioventù che sieno nel nostro paese" sortì qualche effetto, se dall'anno accademico 1862-63 il C. ebbe l'incarico d'insegnamento della storia antica nell'università di Napoli: incarico trasformatogli quindi in straordinariato e, quattordici mesi avanti la morte, in ordinariato (1873).
I dodici anni d'insegnamento universitario del C., celebratissimi per la riverente memoria dei colleghi e la commossa gratitudine degli allievi, furono tuttavia, dal punto di vista della produzione scientifica, altrettanto sterili quanto i precedenti, e la postuma esaltazione, massime nell'opera storiografica del Croce, - quale pur fosse l'efficacia didattica del C. - sembra avere carattere meramente polemico e difettare in realtà di qual si voglia fondamento concreto. Già è significativo che, nonostante le reiterate sollecitazioni, del Settembrini in ispecie, a pubblicare le sue lezioni, il C. non scrivesse né stampasse mai nulla, e i tre volumi di appunti e di abbozzi lasciati alla famiglia non abbiano altro valore che di traccia all'insegnamento e di documentazione personale. Non meno significativo (a riprova non pur delle intime peritanze del C., ma della sostanziale sterilità del suo lavoro scientifico) è che non lasciasse discepoli. Quasi nessuno dei giovani che lo seguirono o che frequentarono in quegli anni l'università di Napoli attese, non che professionalmente, ma per gusto ed impegno culturale, a studi antichistici. I quali, nell'Italia meridionale, prosperarono pertanto non già in ambito storico-storiografico ma, lungo la scia dell'Avellino e del Minervini, in ambito lato sensu antiquario (archeologia pompeianistica, papiri ercolanensi, epigrafia locale, ecc.), ad opera del Fiorelli e del De Petra, dello Spinazzola e del Sogliano, magari in collaborazione con le iniziative del Mommsen e ad integrazione del Corpusinscriptionun Latinarum. Ne è una interessante conferma che nessuna menzione di lui si riscontri presso il Mommsen, pur in frequente contatto, commercio e carteggio epigrafico con i coevi eruditi meridionali. Certamente il C. non va confuso con gli antigermanici, di parte cattolica quali il Palumbo e il Mirabelli, o di parte ghibellina come il Settembrini, retrivamente concordi nell'avversione alla cosiddetta "scienza tedesca", della quale il C. era invece assai esperto (fino a condividerne il romantico pregiudizio della svalutazione della letteratura latina in quanto letteratura d'imitazione, nel mentre esaltava la primigenia "originalità" della letteratura greca). Ebbe il C. singolari intuizioni, che la più recente storiografia ha sanzionate: ad es., che la leggenda di Enea "nacque ai tempi de' Re quando i Romani cominciarono a sentirsi forti, e quando tra gli altri forestieri vennero Greci italioti in Roma" (Settembrini, p. 486), ed altresì lo sperimentare con i concetti (allora novissimi e forse di derivazione tainiana) dell'"analogia" storica, della psicologia e dell'antropologia, per giungere alla rivendicazione della "modernità" ed "attualità" dell'antico, e dettame quindi la storia in termini mutuati non pure al Mommsen e al Curtius, ma al Grote e al Macaulay. È dubbia - sul piano dell'attività scientifica, forse meno su quello del metodo e dell'informazione didattica - la lode che "egli pel primo, in Napoli, ha fatto conoscere i grandi storici contemporanei, il Grote, il Mommsen, il Curtius, di cui pochi sapevano più dei nomi, o, se non li ha fatti conoscere, egli pel primo li ha fatti studiare a dovere" (Torraca, p. 461): perché nulla indica una partecipazione del C. all'intrapresa, tosto fallita, dell'unico tentativo a tutt'oggi di versione italiana della Storiagreca del Grote, e perché, d'altro canto, non certo nel Mezzogiorno furono tradotti, o più profondamente studiati e sfruttati, ma nella Torino del "metodo storico", e Curtius e Mommsen. Fu, non meno, il C. uno spirito moderno, certo più attento di molti suoi contemporanei e colleghi a quanto si veniva elaborando oltr'Alpe, senza stolte preclusioni nazionalistiche, quindi prontissimo ad anteporre di gran lunga alla comune dei romanzi storico-antichistici della coeva Italia ed Europa la Salammbô di Flaubert. Diviso fra il vecchio e il nuovo, consapevole d'una intima sua dicotomia e insufficienza, troppo serio e severo per irridere, troppo immaturo e incapace per collaborare, per contribuire concorrenzialmente all'elaborazione d'una nuova storiografia antichistica e d'una scienza filologica, quali difettavano tuttora all'Italia, preferì, nella stessa umiltà e povertà umbratile della sua vita, un austero silenzio e un generoso abbandono integrale al proprio compito d'insegnante.
Spentosi in Napoli il 4 nov. 1874, sulla sua bara attestarono il dolore dei colleghi e dei discepoli rispettivamente F. De Sanctis e F. Torraca.
Fonti e Bibl.: Oltre le indicazioni bio-bibl. presso B. Croce (in F. De Sanctis, Scritti varii, Napoli 1898, II, p. 205, e in Critica, VIII [1910], p. 218), nonché presso F. Nicolini (N. Nicolini e gli studi giuridici, Napoli 1907, pp. 275 s.), cfr. il cit. discorso funebre di F. De Sanctis, Scritti varii, II, p. 205, e gli elogi di L. Settembrini, Scritti vari, I, Napoli 1879, pp. 479-489, e di F. Torraca, Saggi e rassegne, Livorno 1885, pp. 426-470 (già in Giorn. nap. di fil. e lettere, II [1876], pp. 958-993), che ristampa (ibid., p. 468 n. 1) il proprio saluto al feretro del maestro. Significativo il giudizio che del C. dà E. Cocchia, Le mie rimembranze, Napoli 1921, p. 57, entrato all'università di Napoli "a mezzo novembre del 1877", il Cocchia rievoca la postuma "fama" del C.: "maestro sagace... espositore lucido ed ordinato delle nuove dottrine germaniche intorno ad ogni ramo della Scienza dell'Antichità". Dagli elogi del Torraca e del Settembrini dipende L. Russo, F.De Sanctis e la cultura napoletana, Firenze 1959, pp. 126-129, mentre rimangono capitalissimi, e tanto più in quanto "polemici", i giudizi di B. Croce, La letteratura della nuova Italia, IV, Bari 1947, pp. 294 s., e Storia della storiografia italiana nel secolo XIX, Bari 1947, II, pp. 37 s. La lettera di A. Tari in F. De Sanctis, Epistolario (1861-1862), a cura di G. Talamo, Torino 1969, p. 389.