Vico, Giambattista
Giambattista Vico nacque a Napoli il 23 giugno 1668, in una famiglia di modeste condizioni (il padre era libraio). Intrapresi gli studi di filosofia come esterno presso il collegio dei gesuiti di Napoli alla fine del 1680, li proseguì ben presto da solo. Su incitamento del padre, si avviò poi (fine 1684) verso gli studi giuridici, conducendo anche questi prevalentemente da autodidatta, ma riuscendo a laurearsi in utroque (diritto canonico e civile), forse a Salerno tra il 1693 e il 1694.
Nel 1699 ottenne la modesta cattedra di eloquenza e retorica presso lo Studio napoletano, che mantenne sino agli ultimi anni della sua vita. Non allontanandosi mai da Napoli, condusse un’esistenza appartata e oscura, angustiata dalle ristrettezze finanziarie ma assorbita completamente dai suoi studi: sul corso di essi è essenzialmente impostata la Vita scritta da se medesimo (1725-1728), che costituisce «un poderoso tentativo di autointerpretazione filosofica» (Tessitore 2000: XXVII).
Legate alla docenza universitaria sono sei prolusioni (1699-1706), cui nel 1708 seguì una settima (De nostri temporis studiorum ratione), considerata la prima manifestazione originale del suo pensiero. Nel 1710 propose una prima esposizione dei fondamenti delle sue idee nel De antiquissima Italorum sapientia, ex linguae latinae originibus eruenda (primo libro, unico pubblicato, di tre previsti) e, cooptato nell’Arcadia pur senza abbracciarne il classicismo petrarchistico, intraprese la stesura delle Institutiones oratoriae (1711-1741). Reagendo alle critiche mosse sul «Giornale de’ letterati» di Venezia al De antiquissima, chiarì le sue posizioni in due Risposte (1711 e 1712). Anche nell’intento (vanamente perseguito) di ottenere la più prestigiosa cattedra di diritto romano, si dedicò poi a studi di teoria e storia delle istituzioni giuridiche, che dovevano concretarsi in un’ampia trattazione sul Diritto universale, di cui realizzò una sintesi programmatica (Sinopsi del diritto universale, 1720) e due libri (De universi iuris uno principio et fine uno, 1720; De constantia iurisprudentiae, 1721).
Nelle opere giuridiche si ritrovano il retroterra storico-erudito, gran parte delle teorie linguistiche (cfr. Formigari 1987) e molte delle premesse concettuali del capolavoro di Vico, i Principj di una scienza nuova intorno alla natura delle nazioni, stampati a Napoli nel 1725. Rispondendo alle critiche sollevate dal libro (nell’opuscolo Vindiciae, 1729), egli ne preparò un’edizione integralmente riscritta, pubblicata alla fine del 1730. Ma neppure in questa rinnovata veste l’opera ebbe il successo sperato. L’intensa e multiforme attività aveva tuttavia procurato a Vico una certa fama, che gli valse, nel 1735, l’incarico di storiografo regio (attribuitogli dal re Carlo III di Borbone), la cui retribuzione alleviò le sue persistenti ristrettezze finanziarie.
Durante gli ultimi anni non cessò di aggiungere alla Scienza nuova commenti, note e correzioni (soprattutto formali e stilistiche) che confluirono nella terza edizione dell’opera, pubblicata postuma nel giugno 1744 dal figlio Gennaro (che dal 1741 lo aveva sostituito nell’insegnamento accademico), dopo che Vico, che aveva licenziato le bozze di due terzi dell’opera, era morto a Napoli il 23 gennaio dello stesso anno.
Le idee di Vico sulla lingua sono state a lungo ignorate. Anche dopo la riscoperta della sua filosofia da parte di Croce (1911), non sono mancate svalutazioni (sulle quali Salamone 1984: 27; Simone 1990: 358-359; Marazzini 2002: 114) dell’importanza di Vico, considerato l’attardato epigono di un sistema di pensiero vetusto o addirittura l’«esecutore testamentario dell’umanesimo linguistico» (K.O. Apel, in Simone 1990: 359, nota 81).
D’altra parte, anche nella folta schiera di quanti hanno rivendicato l’originalità e la novità delle idee linguistiche vichiane (Terracini 1957: 165-167; Pagliaro 1961; Rosiello 1968; De Mauro 1980; Trabant 1996) non si è mancato di rilevare la posizione isolata di Vico nei dibattiti linguistici della sua epoca, il suo debito alla tradizione retorico-linguistica dell’Umanesimo e la sua scarsa influenza nei successivi sviluppi del pensiero linguistico moderno.
In realtà, molte delle posizioni e alcuni dei temi ricorrenti nella riflessione linguistica vichiana trovano corrispondenze in autori e orientamenti della cultura settecentesca. Tra questi:
(a) l’inserimento del linguaggio in una ricostruzione (sia pure mitologica) dell’origine e dell’evoluzione delle istituzioni umane e il correlativo inquadramento (soprattutto nella Scienza nuova prima, libro III, capp. XXVIII-XXXV) del linguaggio stesso nella facoltà umana di creazione di simboli e segni (cfr. Trabant 1996: 119-213);
(b) l’idea di descrivere la genesi e l’evoluzione della grammatica in corrispondenza con le fasi di sviluppo della conoscenza umana;
(c) il nesso strettissimo posto tra la primigenia facoltà poetica e lo sviluppo delle capacità linguistiche, tema, quest’ultimo, che trova diverse consonanze nel trattato della Ragion poetica di Gianvincenzo Gravina, amico di Vico e legato all’ambiente intellettuale napoletano (cfr. Marazzini 2002: 113).
Vico risulta invece del tutto estraneo al clima culturale della sua epoca riguardo all’altro termine-concetto fondamentale della sua riflessione linguistica, quello di filologia. Questa infatti è da lui intesa non come ricerca di dati attendibili ed esatti da ricavare con lo studio delle fonti antiche (come nei contemporanei ➔ Ludovico Antonio Muratori e Scipione Maffei), ma come speculazione storico-filosofica dalla quale dedurre i «principj» (le costanti) della storia stessa. Il che comportò che solo occasionalmente egli facesse riferimento alle lingue nella loro concretezza storica e, soprattutto, che non dedicasse riflessioni teoriche alla lingua italiana in quanto tale, tenendosi lontano dalla ➔ questione della lingua. Va infine osservato che l’interesse linguistico di Vico, pur risultando costante nella sua opera, con spunti notevoli nelle orazioni, nel De antiquissima e nelle opere giuridiche (cfr. Salamone 1984: 3-26), si manifesta e si articola compiutamente nella Scienza nuova prima, trovando la sua forma definitiva nella Scienza nuova seconda.
Anche tenendo conto di queste necessarie restrizioni e puntualizzazioni, risulta innegabile che alcuni risultati della riflessione linguistica vichiana siano da considerare tra le più significative conquiste del pensiero linguistico settecentesco. In primo luogo, l’idea, nel quadro di un radicale rifiuto del logicismo razionalista (della grammatica ‘ragionata’), della completa storicità delle lingue, la cui storia viene ricostruita da Vico (Scienza nuova seconda, libro II, sezione II, cap. IV) a partire dalla forma di conoscenza fantastica e mitica degli uomini primitivi, passando per l’elaborazione dei primi sistemi espressivi (prima azioni e gesti, poi la scrittura geroglifica nata insieme alla lingua-canto), fino alle lingue articolate e al contemporaneo sviluppo della retorica (rispondente alla penuria di mezzi semiotici delle lingue più antiche). Inoltre, partendo dalla descrizione-spiegazione della nascita e dello sviluppo della grammatica, l’affermazione, puntualmente argomentata, dell’esistenza di un legame inestricabile, di un parallelismo necessario e costante tra l’evoluzione della mente umana e del linguaggio. Ne consegue il riconoscimento della naturalità delle lingue, nate non per caso, né per convenzione, ma come risposta ai bisogni espressivi dell’uomo e in rapporto alle capacità mentali raggiunte (ibid., libro I, sezione 02, capp. LVI-LVIII).
Proprio i diversi modi e livelli di sviluppo delle risorse mentali dei vari gruppi etnici (le nazioni) nelle diverse condizioni geografiche e storiche in cui vengono successivamente a trovarsi comportano la differenziazione delle diverse lingue, che serbano comunque tracce delle loro fasi più antiche; il che consente a Vico di enunciare la sua idea che attraverso la storia delle lingue sia possibile leggere la storia dei popoli (ibid., Idea dell’opera, § 32; libro I, sezione II, capp. IV-V; libro II, cap. IV). A tali spinte verso la differenziazione, peraltro, fa da contrappeso un processo di riaggregazione delle lingue in tre tipi fondamentali (corrispondenti alla tripartizione del diritto naturale, del governo e dell’autorità), da considerare non tanto come stadi storicamente successivi quanto, probabilmente, come aspetti (o funzioni) diversi di ogni lingua. In quest’ottica Vico, riprendendo una teoria già presente in Giusto Lipsio, potrebbe essere considerato un anticipatore della moderna tipologia linguistica (cfr. Simone 1990: 363).
La complessa formazione culturale di Vico si alimenta di componenti diverse (e spesso contrastanti), che si articolano in un personalissimo itinerario, insieme speculativo e stilistico-espressivo (su cui Nicolini 1930; Bertoni 1932; Fubini 19652 e 1969; Battistini 1971, 1978 e 2004), il quale risulta scandito in diversi momenti e stadi.
In una prima fase, fino al 1712, prevale il latino, utilizzato, secondo la prassi accademica del tempo, nelle opere di maggior impegno (le sette prolusioni e il De antiquissima); ed è un latino regolare ma robusto e solenne, essenziale nella formazione della sua prosa italiana. Nei meno numerosi testi in volgare (le due risposte al «Giornale de’ letterati», i documenti epistolari e le rare prove poetiche, tra cui la canzone giovanile d’ispirazione lucreziana Affetti di un disperato e il sonetto classicheggiante Donna bella, e gentil, inviato come ringraziamento per la cooptazione in Arcadia) si coglie una prima, peraltro non estremistica, adesione al tradizionalismo cruscante introdotto a Napoli da Leonardo di Capua (frequentatore della libreria del padre), preferito al lineare ma più esile classicismo arcadico.
Segue un periodo di preparazione, segnato dall’esercizio dell’insegnamento retorico, dalla stesura (in latino e italiano) dei libri del Diritto universale e dalle connesse letture giusnaturalistiche. Vico conquista una più ampia, consapevole e originale dimensione filosofico-storica dalla quale perviene all’integrazione (prima concettuale poi linguistico-stilistica) dei modi più alti della retorica greco-latina e del discorso filosofico, in un registro espressivo «sublime» ed eloquente ma anche adeguato alla «stesura compatta, razionale e veloce» (Nencioni 1988: 286) che caratterizza la prima edizione della Scienza nuova (per lo studio della quale si dispone delle concordanze curate da Aldo Duro nel 1981).
Nelle successive versioni del capolavoro, «in cui i contrastati ritmi e colori, l’accumulazione immaginosa, gli accenti commossi e profetici drammatizzano l’esposizione e ne esaltano l’eloquenza e la poeticità» (Nencioni 1988: 286), Vico venne progressivamente intensificando in senso espressivistico il suo stile. Le scelte lessicali e l’articolazione sintattica rispondono così a una marcata personalizzazione della scrittura e a un conseguente allontanamento dalla lingua d’uso, facendo «non meno leva sulla sprezzatura napoletana che sulla ripatinatura antico-toscana» (ibid.: 301) della scrittura. In questo quadro, tendenze e soluzioni già sporadicamente presenti nelle opere precedenti ricorrono solidalmente e fanno sistema, conferendo alla prosa della Scienza nuova seconda e terza un posto unico nel pur variegato panorama della saggistica settecentesca.
Limitandoci solo ad alcuni dei fenomeni più caratteristici, si può segnalare innanzitutto l’articolata serie dei ➔ latinismi: grafici (auttore, sollenne, stranfondere), semantici (divertire «allontanare»; fermare «rafforzare»; riceversi «ritornare» < se recipere) e sintattici (condennare di morte, calcato su damnare capitis; giovare / insegnare usati transitivamente: giovare il genere umano, insegnar il volgo; in casa «in pace», calco di domi nella locuzione domi bellique; relative con valore finale; finali con il dimostrativo prolettico «per ciò va in Efira, per …»; completive infinitive calcate sull’accusativo + infinito: «si è creduto avere sparso»).
Nella costruzione del periodo predominano architetture complesse, ma lontane dall’articolata ipotassi del modello boccacciano-bembesco e dalla sua bilanciata distribuzione di carichi sintattici, con riecheggiamenti piuttosto della prosa dei primi secoli e in particolare con il frequente e sintomatico ricorso alla ripresa del soggetto dopo un inciso o un sintagma interposto, e al «gioco di richiami reciproci fra le parole» (Auerbach 1970: 74). In questa ricerca dell’andamento ‘primitivo’ del discorso vanno inquadrati anche la predilezione di Vico per i dimostrativi, la tendenza a sostituirli agli articoli (non «il mondo delle nazioni» ma «questo mondo delle nazioni»; cfr. Fubini 19652: 116-117; spesso con il rafforzamento esornativo-intensivo di aggettivi possessivi: «questa nostra umana civil natura») o a usarli in forma di preannuncio cataforico («questa è la natura della sublime poesia: ch’ella non si fa apprender per alcun’arte») e il particolare uso dell’aggettivo, spesso anteposto («due grandi rottami dell’egiziache divinità»), talora in forma di «concitati pleonasmi: “densa notte di tenebre”, “prima da noi lontanissima antichità”» (Auerbach 1970: 69), di frequente in accumuli espressivi: «lunghe densissime tenebre», «fresca selvaggia origine», «primi crudi fierissimi uomini» (Fubini 19652: 144; Battistini 1971: 24-27). Infine, le scelte lessicali, con le quali Vico rifinisce la ‘ripatinatura’ culta e arcaizzante della prosa della Scienza nuova, nelle direzioni della ricerca dell’arcaismo trecentesco (con la ripresa di forme accantonate dal gusto classicistico rinascimentale: propio, notomia, traccurare); dell’accoglimento (cfr. Nencioni 1988: 293-295) di «iperfiorentinismi» quali innondazione e innimitabile, «ipertoscanismi» (ritruovare, scuoprire) e forme «iperromanze» del tipo combattidore, comprendevole, elegione. Il tutto variegato da soluzioni intermedie, di convergenza tra dialettismo napoletano e fiorentinismo cruscante, in voci quali allumare, chiasso e conceputo, locuzioni come escire in furore (incrocio tra il partenopeo escire pazzo e l’ariostesco venire in furore) o «passare la mosca per innanzi alla punta del naso», o perpetuando costrutti quali la flessione di forme indefinite (infinito, gerundio) proprie dei dialetti meridionali antichi e delle scritture fondate su di essi («essendono elle ne’ lor incominciamenti selvagge e chiuse»).
Caratteristiche sostanzialmente analoghe rivela l’autobiografia vichiana, «stilisticamente più vicina alla prima che alla seconda» edizione della Scienza nuova (Tomasin 2009: 36). «Vivacemente anomalista […] in campo morfosintattico» (ibid.: 45), il testo presenta nel lessico termini particolari come incomprendevolità «incomprensibilità», gentilità «età dei gentili», traccuramento «negligenza», spampinare «lasciarsi andare a un modo di scrivere enfatico e ridondante», e il grecismo filautia «amor proprio» (ibid.: 45-46).
Le singolarità (e le asperità) della lingua e dello stile delle opere di Vico (soprattutto della Scienza nuova) contribuirono certamente, e in modo non secondario, alla tardiva diffusione del suo pensiero. Già il domenicano Bonifacio Finetti, in una dissertazione del 1768, deprecava «l’affettata maniera di scrivere che egli ha avuto il prurito di formarsi a sé propria e singolare» (Difesa dell’autorità della Sacra Scrittura contro Giambattista Vico, p. 8); un giudizio simile si riscontra anche in contesti non polemici, come nella pur elogiativa menzione in Giuseppe Maria Galanti (Breve descrizione della città di Napoli e del suo contorno, p. 228: «Affettò un linguaggio tutto nuovo ed amò farsi capire da pochi o almeno da coloro che avessero la pazienza di addomesticarsi con lui»).
Persino nel clima della consacrazione in chiave risorgimentale dell’opera vichiana, alle soglie dell’Ottocento, non mancarono rilievi, appunto, sulla lingua e lo stile, come quelli di ➔ Vincenzo Monti:
Donde viene che la Scienza nuova del Vico, opera meravigliosa ha sì pochi lettori? Non altronde di certo che dallo stile. […] Se questi ardui pensamenti della più sublime filosofia […] venissero raccomandati da una lingua più liberale, più tersa, più fluida [non ci sarebbe] libro né più utile e più caro (Della necessità dell’eloquenza, pp. 58-59)
e di Basilio Puoti (Della maniera di studiare la lingua e l’eloquenza italiana, p. 118), secondo cui I principj della Scienza nuova, «quantunque non sieno punto da lodare per la oscurità dello stile, sono nondimeno opera sommamente profonda e scritta in non sozza favella».
D’altra parte, proprio l’inaccessibilità dello stile vichiano è al contempo rivendicata quale connotato essenziale, cifra caratteristica della profondità innovatrice del suo pensiero («Se tu togli a Tacito, a Dante, a Vico ciò che a’ letterati galanti pare agreste e selvatico, deformerai ogni bella e grande idea che le opere loro sfolgoranti di filosofia balenano»: Francesco Lomonaco, Vita di Giambattista Vico, p. 267). Si snoda così una lunga teoria di pronunciamenti elogiativi (che va da G.B. Corniani alla Storia della letteratura italiana di Francesco De Sanctis) impostati essenzialmente sulla formula critica di Vico quale «Dante della filosofia» e in particolare su un parallelismo psicologico-stilistico tra il poeta e il filosofo, teso a sottolineare tratti convergenti quali lo spirito risentito e appassionato, e insieme la «potenza dello stile» (Fubini 19652: 81-82), l’icasticità e l’esigenza di realismo.
Si può segnalare, infine, che voci ed espressioni (ri)scoperte o reinventate da Vico sono poi rifluite nel linguaggio poetico ottocentesco: candenti (Giosuè Carducci, “Mezzogiorno alpino”), lezzo de’ cadaveri (Ugo Foscolo, “I sepolcri”), strepito di vera gloria (Alessandro Manzoni, “Il cinque maggio”).
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