Giambattista Vico
Vissuto tra Sei e Settecento, Vico si formò nel clima di aspirazioni riformistiche creatosi nel Regno di Napoli e, anche se non ebbe mai una posizione politicamente attiva, svolse, in qualità di professore universitario, un ruolo educativo centrato sul dovere di anteporre il bene pubblico al bene privato. Senza mai venire meno a questo principio, il suo lungo cammino filosofico lo portò dal campo pedagogico a quello della giurisprudenza e, infine, a una prospettiva antropologica dalla quale ripercorrere tutto lo sviluppo della civiltà umana. Dalla sua analisi trasse la piena consapevolezza dei limiti umani, strutturali e ontologici, ma al tempo stesso elaborò una filosofia che, «per giovar al gener umano, dee sollevar e reggere l’uomo caduto e debole».
Giambattista Vico nacque a Napoli il 23 giugno 1668, figlio di un modesto libraio. Studiò dapprima presso i gesuiti finché, offesosi per un’ingiustizia scolastica subita, decise di studiare per proprio conto, completando la parte dei programmi non svolti a scuola. Passato ad approfondire la logica, sentì con questa applicazione astratta inaridirsi l’ingegno e si fece «disertore degli studi» (Vita scritta da se medesimo, in Id., Opere, a cura di A. Battistini, 1990, p. 7). Viene fatta risalire a questo periodo la critica del metodo scolastico del suo tempo che costringeva gli adolescenti, dotati per natura di fantasia, ad applicarsi a pratiche troppo intellettualistiche. Dal 1686 al 1695 fu istitutore dei figli del marchese Domenico Rocca, dimorando saltuariamente a Portici e a Vatolla, nel Cilento, senza per altro interrompere mai i rapporti con l’ambiente napoletano, dove fioriva un ceto civile molto attivo e vivace. Tra il 1689 e il 1692 fu iscritto all’Università di Napoli, presso la facoltà di giurisprudenza. Al pari di molti altri intellettuali della sua generazione scrisse anche poesie, tra le quali, in mezzo ad altre d’occasione, si distingue la canzone “Affetti di un disperato” dove la suggestione di motivi lucreziani e della filosofia atomista rivela una crisi esistenziale, connessa forse ai processi intentati a Napoli contro i cosiddetti ateisti, esponenti della migliore intellettualità napoletana che avevano sostenuto tesi eterodosse in campo religioso e politico.
Nel 1698, risultato vincitore della cattedra di retorica all’Università di Napoli, Vico tenne in questa veste le orazioni inaugurali dei successivi anni accademici, in cui si fece sostenitore di una pedagogia indirizzata ai valori civili. Tra queste prolusioni spicca quella del 1708, intitolata De nostri temporis studiorum ratione. Due anni dopo pubblicò il Liber metaphysicus che, nelle sue intenzioni, doveva costituire il primo di tre libri, da riunire sotto il titolo complessivo di De antiquissima Italorum sapientia ex linguae Latinae originibus eruenda. Vi si propone di rintracciare, attraverso la ricerca etimologica, la primitiva sapienza dei popoli italici. In realtà Vico vi esponeva una moderna e personale concezione della metafisica, affacciando la dottrina gnoseologica della conversione del vero con il fatto che avrebbe trovato altri e decisivi esiti nella Scienza nuova. Nel 1713 il duca Adriano Antonio Carafa, nipote di Antonio Carafa (1642-1693), un condottiero che al servizio degli Absburgo aveva combattuto contro i Turchi e i Magiari, commissionò a Vico la biografia di suo zio. Il lavoro di documentazione e la stesura durarono tre anni, e solo nel 1716 poté uscire il De rebus gestis Antonii Caraphaei.
L’approfondimento degli studi filosofici, letterari e soprattutto giuridici produsse in Vico una lenta ma sicura maturazione, concretizzatasi nella pubblicazione del cosiddetto Diritto universale, anticipato da un manifesto editoriale di solito designato come Sinopsi. L’opera, in tre tomi, uscì tra il 1720 e il 1722, anno in cui una lettura molto approfondita dei poemi omerici indusse Vico a ripensare le origini della civiltà in chiave antropologica. La sua sconfitta al concorso indetto nel 1723 per una cattedra di diritto civile, anziché abbatterlo, gli diede ancora più determinazione a compiere quella che ormai considerava una sua missione ovverosia il compimento di un’opera che, come ricordò nell’autobiografia, risalente nella sua prima stesura proprio a quell’anno, andasse a «ritrovare i princìpi del diritto naturale delle genti dentro quegli dell’umanità delle nazioni», ricostruendo «la generazione de’ costumi umani» (Vita, cit., p. 54). Furono queste le premesse dei Princìpi di scienza nuova, un’opera che ebbe tre edizioni, la prima nel 1725, la seconda nel 1730 e la terza nel 1744, l’anno della morte di Vico, che per pochi mesi non fece in tempo a vedere a stampa la versione più compiuta del suo «ultimo, ma certamente più di tutti tenero parto» (Lettere, in Id., Opere, cit., p. 310).
Pur senza una frequenza regolare e assidua delle scuole, Vico riuscì ugualmente ad acquisire una formazione umanistica in cui si dava il massimo rilievo all’eloquenza, agli studi letterari, alla storia, al diritto. Diventato a sua volta professore universitario di retorica, tra i cui compiti figurava quello di inaugurare l’anno accademico con un’orazione recitata dinanzi agli studenti, ai colleghi e all’intellettualità napoletana, ebbe modo di meditare più a fondo il valore che l’educazione ha per l’uomo. Nelle sei prolusioni che tenne tra il 1699 e il 1707 egli volle sempre seguire, secondo la sintesi che ne fece nell’autobiografia, «la pratica di proporre universali argomenti, scesi dalla metafisica in uso della civile» (Vita, cit., p. 30). Ispirandosi alla Repubblica di Platone, che partiva da una metafisica per definire la natura dell’uomo, si delineava una paideia che consentisse a questa natura di realizzare la sua vera vocazione, che era di tipo politico (Pons 2010, pp. XIV-XV). Il compito principale della cultura consisteva dunque nel formare i cittadini, facendoli uscire dalla sfera del privato per immetterli nella sfera pubblica.
Non è difficile rintracciare in queste tesi i motivi canonici dell’Umanesimo italiano, che aveva individuato negli studia humanitatis lo strumento privilegiato per la formazione della coscienza civica. Il programma di Vico non era però quello di un nostalgico e anacronistico ammiratore del passato perché, se riprendeva la tradizione dell’umanesimo ciceroniano e del neoplatonismo rinascimentale, auspicando un’eloquenza al servizio della sapienza e dell’etica, oltre che una simbiosi tra utile e onesto, non faceva che ribadire solennemente, davanti alle autorità politiche, ai docenti e agli studenti, le finalità per le quali esisteva l’Università di Napoli, un’istituzione regia, e quindi statale, di tipo laico, sorta con l’intento di formare la classe dirigente, ovvero quel ceto intellettuale di giuristi, avvocati, medici, professori, amministratori consapevole del profitto che la cultura e la conoscenza dell’uomo apportano alla società. Contro la «solitudo animorum» Vico ammoniva che i più grandi benefici degli studi erano conseguibili solo da chi accrescesse il suo sapere mirando al bene dello Stato, cioè al bene comune dei cittadini, come si legge nel titolo della IV orazione, Rei publicae seu communi civium bono erudiatur (Le orazioni inaugurali. I-VI, a cura di G.G. Visconti, 1982, p. 146). Evocando il nobile ecumenismo di un’ideale «Res publica litteratorum», il filosofo che «aggiunge di suo qualcosa al patrimonio comune» (de suo in commune confert) può legittimamente proclamare «mundi civis sum» (pp. 98 e 128).
In questa pronuncia universalistica è implicito, sul piano dei contenuti, il proposito di uno sviluppo armonico di tutti i rami del sapere, senza specialismi e tanto meno senza imperialismi di alcuna disciplina. Si spiega così un primo motivo di insofferenza verso il metodo cartesiano, per la sua esaltazione unilaterale della logica, dell’algebra, della fisica e delle altre scienze della natura. Con il suo orgoglio razionalistico, René Descartes non solo aveva giudicato inutili le scienze umane che consentivano soltanto una conoscenza probabile e approssimata, ma aveva di conseguenza trascurato nel suo sistema educativo le risorse dell’immaginazione, della fantasia, dell’ingegno. Vico pertanto, che ricordava la fatica con cui, adolescente, era stato costretto a studiare la logica e a esercitare la ragione quando aveva un’età in cui invece avrebbe dovuto coltivare con più profitto la memoria attraverso la storia e la creatività fantastica attraverso le invenzioni dei poeti, reagì al «maggior fervore» con cui a Napoli «si celebrava» «a tutta voga» la fisica cartesiana, lieto che, «dal suo buon genio guidato, aveva fatto il maggior corso dei suoi studi senza niun affetto di setta», mentre nella sua città, «come moda di vesti, si cangiava ogni due o tre anni gusto di lettere» (Vita, cit., p. 25).
A prima vista, queste censure parrebbero appartenere a un arretrato custode della più libresca cultura del passato, tanto più che quanto gli altri ammiravano in Descartes «di sublime, grande e nuovo» a lui risultava «vecchio e volgare» (p. 29). In realtà, anche Vico riconosceva con franchezza i progressi delle scienze fisiche, né ripudiava i vantaggi del metodo moderno, quando ormai la querelle con i sostenitori degli antichi aveva varcato le angustie di una diatriba in cui si doveva per forza stabilire un primato. Combatteva semmai quel particolare paradigma che, seguito dai cartesiani saturi di mentalismo, pretendeva di trascendere il mondo fenomenico della natura e quello civile degli uomini per approdare a un’astratta metafisica, in quanto la ferrea logica delle idee chiare e distinte rischiava di esaurirsi in un’episteme dogmatica illusa di arrivare al possesso dell’essenza delle cose. In antagonismo a ogni forma di sapere sterile Vico contrapponeva quegli studi che, «non sibi aut paucis», potessero «a lungo e largamente ben meritare dall’umana società e giovare al maggior numero possibile di persone» (Le orazioni inaugurali, cit., p. 209).
È questo il vero nucleo polemico del De nostri temporis studiorum ratione, ossia l’orazione del 1708 che, pubblicata l’anno successivo, a differenza di quelle precedenti rimaste tutte inedite, costituì il ‘discorso del metodo’ vichiano, applicato a un disegno culturale che compendiava ideali filosofici, pedagogici, scientifici, morali, politici, giuridici e sociali. Anziché sequestrarsi nei ristretti recinti del vero indubitabile, di cui Descartes si era occupato in modo esclusivo, dopo avere stimato «quasi falso tutto ciò che era solo verosimile», in quanto anche uomini dotti avevano diverse e molteplici opinioni su un medesimo argomento, «senza che ce ne possa mai essere più di una sola che sia vera» (R. Descartes, Discours de la méthode; trad. it. a cura di A. Pozzolini, 1968, p. 20), Vico estendeva la circoscrizione del sapere al verosimile e al probabile, avvicinati con la retorica, che dimetteva la veste meramente ornamentale per indossare quella speculativa, alleata e non subordinata alla logica, avendo per obiettivo finale una cultura praticata come valore sociale e civile grazie all’eloquenza, alla poesia, al diritto.
Mentre il metodo cartesiano, volendo acquisire solo verità apodittiche, si precludeva lo studio e la comprensione del mondo umano, quello della vita in società e della politica, autocondannandosi all’individualismo e all’isolamento, con tutte le conseguenze negative che questo ripiegamento poteva comportare, le acquisizioni del metodo vichiano erano pragmatiche e comprensive, rivolte all’uomo nella sua interezza e non solo al piano nobile dell’intelletto. Di qui l’importanza attribuita da Vico alla «topica», ossia l’erario delle argomentazioni da calare caso per caso nei contenuti reali della storia e confacenti ai temi specifici da trattare, a differenza di quanto succedeva per la «critica» cartesiana, anonima e acronica perché il locutore diventava affatto indifferente, una volta chiarito che la ragione era uguale per tutti. Oltre tutto, la pretesa di prefiggersi come unico scopo la verità finiva per orientare la ricerca esclusivamente sull’esame della natura, che pareva garantire certezze, trascurando invece lo studio della «natura umana», resa «incertissima» dal libero arbitrio, su cui si fondava, tuttavia, la «dottrina dello stato» (de republica doctrina; De nostri temporis studiorum ratione, in Id., Opere, cit., p. 130).
L’intento di Vico era di formare non già un semplice e impassibile spettatore, come pretendevano per esempio l’«apatia» degli stoici e il rigorismo dei giansenisti, ma un attore che, conscio della continua metamorfosi della realtà, voleva intervenire attivamente, senza sacrificare o annullare le sue passioni, ma rendendole complementari alla razionalità. Nei territori imprevedibili dei comportamenti umani doveva valere il relativismo, per la consapevolezza che nella vita civile il senso dell’approssimazione in cui si è costretti a esistere si rivelava alla fine assai più produttivo delle poche certezze della ragion pura. La parte «che si occupa dell’indole dell’animo nostro e delle sue tendenze alla vita civile e all’eloquenza, alla casistica delle virtù e dei vizi, ai costumi» è per un verso omnium difficillima, la «più difficile di tutte», ma per un altro verso amplissima praestantissimaque, «la più compiuta e la più nobile» (p. 130). Rivolte all’élite dei giovani studenti dell’università napoletana, le orazioni inaugurali vichiane si prefiggevano con ferma determinazione di formare cittadini e non semplici individui, ossia un ceto di servitori dello Stato intellettualmente preparati e aventi come unico obiettivo l’interesse pubblico. La retorica, con l’eloquenza impiegata da Vico per convincerli a questa meta, era essa stessa la disciplina dell’urbanitas, della socialità, della politica, dello stare insieme.
Dopo che nelle orazioni precedenti si erano messi in luce i fini giuridici e sociali degli studi, è soprattutto il De ratione a occuparsi della maniera di studiare e a porsi quale erede sia della trattatistica sulla ragion di Stato, sia della letteratura rinascimentale sulla civil conversazione, sia ancora della filosofia degli antichi che, pur con diversi esiti e proposte, si è sempre orientata, da Platone ad Aristotele, fino a Cicerone, verso una convinta vocazione ‘politica’, ossia verso il mondo della prassi. Vico non ignorava che questo tipo di sapere non è geometricamente deducibile, perché soggetto alle contingenze e al caso, alla mutevolezza e alla mobilità delle cose, affatto diverso dalle leggi della natura, che, per dirla con Galileo Galilei, sono «inesorabili». Per questo il De ratione deriva dal pensiero greco e romano la coscienza che nel mondo umano le scienze esatte della matematica e della logica debbano subordinarsi alla prudenza civile, con cui discernere ciò che è utile per l’uomo. In particolare, ammonisce che «i fatti umani non possono misurarsi con il criterio di una rettilinea e rigida regola mentale» (p. 131), ma vanno rapportati a quella flessibile unità di misura anticamente in uso nell’isola di Lesbo, di cui si legge nell’Etica nicomachea di Aristotele, consistente in un particolare regolo di piombo avente la peculiarità di adattarsi docilmente alla forma dell’oggetto da misurare, richiamato nel campo del diritto per rappresentare la duttilità dello spirito della legge rispetto all’inflessibilità della sua lettera.
Una mobilità non diversa era colta da Vico nel mondo della natura, ritenendo che l’incessante metamorfosi dei fenomeni non dovesse essere imprigionata in un meccanicismo deterministico. Reduce dal De ratione, nel 1710 volle allora dedicarsi ai problemi della scienza, in quel periodo vivacemente dibattuti nei circoli intellettuali napoletani. La personale risposta venne affidata al De antiquissima Italorum sapientia, un lavoro incompiuto che, seguendo una consuetudine del tempo, attribuiva le proprie tesi, invero molto personali, a un passato assai remoto, dalle radici addirittura mitiche, patrimonio di una civiltà preromana, quella degli Ioni e degli Etruschi, il cui pensiero, pur essendosi irrimediabilmente perduto, si poteva comunque ricostruire con un’indagine filologica e linguistica del sostrato che del loro sepolto linguaggio era rimasto nel latino dei più rozzi e pragmatici Romani.
Con questo escamotage archeologico Vico affrontava in realtà i temi della filosofia affermatasi sulla scena europea con Descartes, Nicolas de Malebranche, Baruch Spinoza, Galilei, ma alla prevalente visione meccanicistica e corpuscolare della nuova scienza reagiva nel De antiquissima proponendo una cosmologia esoterica, di ascendenza pitagorica ed ermetica, alla quale faceva ricorso per sottolineare gli aspetti animistici e vitalistici della natura già presenti nella epistemologia rinascimentale. Nella sua visione, il procedimento deduttivo dei moderni, maliziosamente ricondotto alla logica sillogistica di Aristotele, non poteva accrescere la conoscenza, in quanto le conseguenze ricavate erano già tutte implicite nelle premesse. La stessa critica era indirizzata all’adozione del metodo analitico della geometria nel campo della fisica, alla quale si doveva sostituire «la diretta dimostrazione sperimentale», la cui fecondità euristica è comprovata, nei tempi moderni, dai risultati conseguiti da Galilei, che ha spiegato peculiaria naturae effecta peculiaribus experimentis («i peculiari fenomeni della natura con peculiari esperimenti»; De antiquissima Italorum sapientia, in Id., Opere filosofiche, a cura di P. Cristofolini, 1971, pp. 124-25).
Anche per questa via Vico trovava il modo di elevare una critica pertinente al cogito cartesiano, già accennata nel De ratione, dove si accusava quel principio gnoseologico di essere solipsistico, capace di fare scoprire al soggetto soltanto il suo stesso pensiero. Nel De antiquissima il discorso si fa più consapevole e disteso attraverso l’osservazione che, ignorando le cause del pensiero, si poteva avere soltanto la coscienza del proprio esistere, non la conoscenza. A quel canone meramente psicologico Vico sostituiva il criterio genetico del verum et factum convertuntur, secondo cui è possibile conoscere solo ciò che si è in grado di fare. Per il momento però la denuncia dei limiti della scienza cartesiana, in sintonia con la sfiducia serpeggiante nelle generazioni che a Napoli erano venute dopo l’estinzione dell’Accademia degli Investiganti, di tradizione sperimentalmente galileiana, perveniva a un esito prossimo allo scetticismo. Se la condizione per attingere la verità non risiedeva nell’immediata evidenza o nella chiarezza e distinzione delle idee, ma nella conversione del vero nel fatto, la conoscenza era per il momento possibile solo in matematica e in geometria, edifici mentali costruiti dall’uomo e dunque veri, ma astratti e convenzionali, incapaci, per la loro arbitrarietà, di incidere sulla realtà fisica.
Per un verso la conoscenza del mondo naturale era preclusa in quanto creato da Dio e non dall’uomo, per un altro verso l’impianto metafisico del De antiquissima e l’estrema povertà delle prove filosofiche, circoscritte alla sola etimologia, per giunta di derivazione intellettualistica, non consentivano ancora, nel 1710, una reale prospettiva storica. Non per nulla il «Giornale de’ letterati d’Italia» (una rivista culturale pubblicata nella repubblica di Venezia), gestito da intellettuali molto più avvezzi di Vico all’erudizione ricavata dallo studio concreto dei documenti, si era rammaricato, recensendo il De antiquissima, che Vico non avesse
rivangato e dissotterrato, per quanto si può, i monumenti più antichi della vecchia Etruria, onde i Romani ricevettero le prime leggi spettanti sì al governo civile della sua repubblica, sì ai riti sacri della sua religione (cit. in Risposta di Giambattista Vico all’articolo X del tomo VIII del «Giornale de’ letterati d’Italia», in Id., Opere filosofiche, cit., p. 147).
In effetti, il diritto romano aveva in quell’opera caratteri di metafisica esemplarità perché ancora privo di una storicizzazione che ne comprendesse le ragioni della sua lunga durata. Era però già radicata la predisposizione metodologica a risalire comunque alle origini, ai principi, ai fondamenti delle cose, in modo da conquistare il vero per linee interne, lungo un filo genetico.
A orientare Vico verso la ricerca storica e a predisporlo ad applicare il canone del verum-factum al mondo civile degli uomini, non considerato nel De antiquissima, fu, oltre alle critiche dei giornalisti veneti e alle proprie aspirazioni a una cattedra di giurisprudenza, molto più rimunerativa di quella già detenuta di retorica, la citata committenza (ricevuta nel 1713) di una biografia su Antonio Carafa. In quegli anni il genere biografico aveva ormai abbandonato la primitiva dimensione oratoria ed encomiastica a favore di una divisa più scientifica. Vico, nel rievocare la genesi del De rebus gestis Antonii Caraphaei, non mancò di avvertire la transizione, in virtù della quale la sua storia era al tempo stesso «temprata di onore del subbietto, di riverenza verso i prìncipi e di giustizia che si dee aver per la verità» (Vita, cit., p. 43). Gli ideali della storiografia umanistica, inclini all’encomio, vennero sorvegliati dall’aspirazione all’obiettività, da esercitare su un caso controverso, quello rappresentato dal comportamento di Carafa, un uomo d’armi che non aveva esitato a ricorrere alla forza e alla violenza in nome del diritto e della giustizia. Ma se del potere si impadronì, machiavellianamente, con un atto travolgente, la sua conservazione e quella della società civile si poterono salvaguardare solo con la prudenza e la sapienza mondana.
Carafa, benché poco avvezzo alla cultura, si dedicò assiduamente alla lettura dei teorici della ragion di Stato, fino a essere annoverato tra i massimi uomini politici del suo tempo (inter primarios suae tempestatis politicos viros; Le gesta di Antonio Carafa, a cura di M. Sanna, 1997, p. 105). Colui che era dapprima sembrato un soldato che riponeva la sua fiducia nella sola forza delle armi, si rivelò poi un prudente diplomatico, per un verso dotato di intuito e di ingegno, ma per un altro verso provvisto della ponderata razionalità, secondo una declinazione inconfondibilmente vichiana dei temi machiavelliani del centauro, ovvero della simbiosi di «lione» e di «golpe», di fulminea irruenza e di circospetta cautela. Come il principe di Niccolò Machiavelli, anche il Carafa descritto da Vico dovette fronteggiare la fortuna e vincerla con le sue sole forze. E se anche la sorte gli fu spesso favorevole, fino a sembrare che la fortuna assecondasse la virtù (virtuti Fortunam feliciter adspirare) (p. 105), nulla nella ricostruzione vichiana fa ancora pensare alla «Provvedenza» che nella Scienza nuova sovrintenderà alla «storia ideale eterna».
Nondimeno Vico dovette anche interrogarsi sul rapporto esistente tra i fatti irrelati vissuti giorno per giorno e il significato profondo di un’esistenza, ovvero, per ripetere la terminologia che sarà ripresa e chiarita nella Scienza nuova, sul nesso di «filologia» e «filosofia». Fu questa un’esigenza che, secondo il resoconto fatto da lui stesso nell’autobiografia, indusse Vico a leggere il De iure belli ac pacis dell’olandese Ugo Grozio (Huig van Groot, 1583-1645), subito promosso, nella ricostruzione selettiva e mitizzata delle proprie fonti, a suo «quarto auttore» tra quelli «che egli ammirava sopra tutt’altri» (Vita, cit., p. 44). Dopo che in Platone aveva trovato l’esigenza di assoluto e di universalità con l’idealizzazione utopica dell’umanità perfetta e ideale, inculcandogli la necessità del «vero», in Tacito la considerazione dell’uomo come effettivamente è, condizionato dai bisogni e dalle passioni, da studiare attraverso il «certo» dei fatti storici, e in Francesco Bacone il richiamo a una sintesi tra vero e certo e a un sapere unitario, senza però che fosse indicato il mezzo per realizzarlo per i limiti di un empirismo particolarmente vistoso in campo giuridico, Grozio finalmente realizzava un «sistema» del diritto universale costruito in equilibrio sui dati concreti e sull’universalità delle leggi filosofiche. È pur vero che anche il giusnaturalismo peccava di senso storico, privo della dinamica propria delle istituzioni soggette al loro fluire nel tempo. Nondimeno Grozio aveva di nuovo indirizzato Vico allo studio del diritto, consentendogli dopo «continova ed aspra meditazione» di applicare il principio del verum et factum convertuntur non più entro gli stretti e artificiali steccati della matematica ma ai vasti e inclusivi orizzonti della storia romana.
Subito dopo avere licenziato il De rebus gestis Antonii Caraphaei, uscito alle stampe nel 1716, Vico si applicò di nuovo al giurisdizionalismo groziano, che lo aveva lasciato insoddisfatto perché, trascurando il diritto positivo, gli sembrava acronico e indeterminato nella sua presunzione razionalistica di essere connaturato nell’uomo. L’approfondimento di questi temi, che si prolungò fino al 1722, si tradusse in una somma di scritti che vanno sotto il nome complessivo di Diritto universale, un’opera di cui ancora non si è del tutto compresa la grandezza, forse perché non la si è studiata autonomamente, vinti dalla facile tentazione di considerarla propedeutica alla Scienza nuova, mentre invece si tratta di una ricerca compiuta e sistematica che, analizzando la realtà politica e giuridica di Roma antica, volle unificare in un sistema la conoscenza empirica delle leggi, garantendo scientificità alla storia del diritto. Il problema più acuto, sollevato soprattutto dalla lettura del De iure belli ac pacis, riguardava la possibile conciliazione della legge naturale e razionale, valida universalmente e considerata da Grozio, con le contingenti leggi positive e storiche, che pure esistono e che il grande giureconsulto olandese pareva non avere tenuto nel debito conto.
Vico riscopriva così lo studio del diritto, tanto sviluppato nella Napoli del suo tempo, quello dei Francesco D’Andrea (1625-1698), dei Gian Vincenzo Gravina (1664-1718), dei Pietro Giannone. Mentre però in costoro prevaleva rispettivamente la pratica dell’avvocatura, la disamina delle istituzioni romane per intenderne le leggi, il riscontro delle prevaricazioni e delle illegalità della Chiesa, nel Diritto universale il sorgere delle leggi fu calato nella storia drammatica delle passioni e degli egoismi umani. A frenarli, non intervenne, come aveva preteso Thomas Hobbes, la ragionevolezza di un contratto sociale, ma il terrore ancora più tremendo di una forza superiore, in modo che a fondamento del diritto si pose la religione, rivalutata da Vico non solo e non tanto per un intento apologetico, quanto e soprattutto per la nuova prospettiva antropologica con la quale l’ordine metafisico del De antiquissima veniva finalmente sostituito da un ordine storico. Il canone del verum-factum trovò il suo campo di applicazione nel mondo umano, in quanto le prime leggi di convivenza e le conseguenti forme di vita associata sotto il governo di un diritto fortemente connotato di significati mitici e religiosi furono opera dell’uomo, e come tali conoscibili, sia pure con l’estrema difficoltà di chi, vivendo in tutt’altra temperie, doveva compiere lo sforzo di prescindere dalla propria cultura affinata dall’incipiente Illuminismo per immergersi in una vita affatto feroce e violenta, quale fu quella dei primordi.
Per Vico il diritto naturale dei filosofi, composto da massime ragionate da moralisti e da teologi, non era innato, ma costituiva, per l’uomo decaduto con il peccato originale, una riconquista conseguibile attraverso il diritto naturale delle genti, precisato storicamente. Dallo studio della giurisprudenza il Diritto universale arrivava a meditare sui rapporti tra il «vero» e il «certo», ossia sulla presenza del razionale nella storia, dell’assoluto nell’empirico, dell’universale nell’individuale o, per dirla con una formula tipicamente vichiana, sulla correlazione tra ratio e auctoritas e, più in generale, tra «filosofia» e «filologia». Le idee assolute di giustizia, equità, moralità regolavano provvidenzialmente il mondo degli uomini, ma questi le conquistavano per proprio conto, sublimando le necessità, le passioni, la forza, la ricerca dell’utile, considerate le «occasioni» in virtù delle quali il diritto razionale poteva emergere. Per un verso il giusnaturalismo veniva storicizzato e reso più realistico a contatto con i bisogni e le violenze degli uomini, per un altro verso il cinico e utilitaristico scetticismo volta a volta professato per Vico da Epicuro, Machiavelli, Hobbes, Spinoza, Pierre Bayle veniva trasceso in un disegno escatologico, ideale ed eterno, di cui la giurisprudenza romana rappresentava la realizzazione più convincente. A essere universali non erano più i contenuti delle leggi, soggette alle contingenze e alla precarietà dei diritti particolari, ma i modi con cui esse si evolvevano, le forme del loro divenire, il succedersi delle fasi con cui si erano fissate le norme di una convivenza civile.
Dopo la sconfitta al concorso universitario per una cattedra di diritto civile, avvenuta nel 1723, Vico cominciò a lavorare alla Scienza nuova, continuandone la cura fino all’anno della sua morte. A segnare le differenze dal Diritto universale furono non soltanto il passaggio dal latino all’italiano – e tuttavia già questa scelta non è di poco conto, per i diversi destinatari a cui si indirizzava –, ma soprattutto le divergenze strutturali e di contenuto, rivendicate con vigore dallo stesso Vico e dal titolo inneggiante orgogliosamente alla ‘novità’. Nelle ripetute stesure della Scienza nuova le coordinate della ricerca vennero enormemente dilatate e il diritto non fu più il protagonista principale, dal momento che la riflessione sulla giurisprudenza e sulle forme politiche di governo fu subordinata all’indagine assai più enciclopedica della «natura comune delle nazioni», ossia allo studio della fase aurorale in cui ebbe origine l’umanità, allorché si passò dallo stato meramente biologico, dove il tempo non aveva alcun significato perché non esistevano ancora il ricordo e la memoria di sé, a un’età in cui all’uomo fu possibile sopravvivere alla sua stessa esistenza fisica attraverso le tracce culturali lasciate dopo di sé, consentendo di trovare una legge costante nell’evoluzione di tutti i popoli.
La natura dell’uomo non venne fissata staticamente una volta per tutte, ma si costituì dinamicamente nel corso del tempo. Dopo un lungo travaglio speculativo, Vico uscì vittorioso dalla lotta contro lo scetticismo storiografico dei libertini che aveva aperto la «crisi della coscienza europea». Il suo cammino però, anziché percorrere la strada comune tracciata dai padri maurini e fondata sulla citazione esatta, sul riferimento bibliografico puntuale, sulle prove epigrafiche, numismatiche, archeologiche, sulla distinzione tra fonte ed esegesi, sul fitto commercio epistolare e i conseguenti scambi di idee tra eruditi, sulla lettura assidua dei giornali scientifici, imboccò la via solitaria e scoscesa di un’epistemologia genetica alla quale, prima ancora del documento storico, importava il dato originario, di molto anteriore alle testimonianze già consegnate alla scrittura alfabetica. Nel giudizio impietoso di Vico, la «critica erudita» «di nulla serve a far sappienti coloro che la coltivano». In nome dello «scire per causas» egli arretrò vertiginosamente alle origini dell’umanità, a un’età «oscura e favolosa» che lasciò soltanto le tracce labilissime di confusi «rottami», di enigmatici «relitti», di indecifrabili «frantumi». Di conseguenza la filologia non ebbe più l’accezione umanistica legata ai soli documenti letterari, ma diventò «dottrina di tutte le cose le quali dipendono dall’umano arbitrio» (Princìpi di scienza nuova, 1744, in Id., Opere, cit., p. 419).
Così, mentre negli stessi anni Ludovico Antonio Muratori, educato alla scuola di Jean Mabillon e dei padri maurini, Giannone, Voltaire, Edward Gibbon e gli altri storiografi del Settecento si dedicavano alla ricerca e all’interrogazione di carte d’archivio, di diplomi, di manoscritti e di libri, con la Scienza nuova Vico, propriamente, si volse all’antropologia e, arretrando ai tempi remotissimi in cui i primitivi «incominciaron a umanamente pensare» (p. 546), appuntò l’attenzione sui miti classici, sulle tradizioni popolari, sulle ricostruzioni etimologiche, sulle più arcaiche frasi poetiche, sul linguaggio figurato, sulle osservazioni del comportamento dei bambini, sulla psicologia elementare dei popoli meno civilizzati ancora esistenti nel Settecento, sui poemi omerici, indagati con un’impostazione sociologica, poiché la poesia era esaminata per scoprire le istituzioni umane di cui essa fu sempre inevitabile testimonianza. Anche negli anni più maturi Vico conservava intatto il fascino dell’antichissima sapienza, solo che adesso, superata l’impasse antistorica che proiettava nel passato i modi di ragionare esclusivi dell’uomo civile e raffinato, la chiave interpretativa per accedervi non era più intellettualistica, ma emotiva, passionale, adeguata, per quanto possibile, alla mentalità dei primi uomini che, affondati nei sensi, «avvertivano con animo perturbato e commosso», del tutto incapaci di riflettere «con mente pura» (p. 515).
Il compito che attendeva il moderno antropologo, per il quale «natura di cose altro non è che nascimento di esse in certi tempi e con certe guise» (p. 500), consistette nel
discendere da queste nostre umane ingentilite nature a quelle affatto fiere ed immani, le quali ci è affatto niegato d’immaginare e solamente a gran pena ci è permesso d’intendere (pp. 546-47).
Nel costante confronto oppositivo tra le forme percettive dei primi uomini e il modo di pensare dell’umanità civile, la logica e la ragione, imperanti nella stagione cartesiana dei lumi, non possedevano alcuna utilità ermeneutica, per essersi sviluppate in tempi molto più recenti. Etimi e miti non nascondevano, come pretendeva la «boria dei dotti» impersonata, tra i filosofi familiari a Vico, da Platone, Bacone e Gravina, verità recondite di una filosofia rarefatta, ma esprimevano il rozzo sentire di uomini ingenui e semplici, impossibilitati ad astrarre perché immersi nella corporeità. Per intendere la grammatica della poesia e del mito, per loro natura ambigui, indefiniti, dai significati molteplici, occorreva un metodo che si prestasse a interpretare i fenomeni connotativi del linguaggio e riconoscesse i diritti gnoseologici della fantasia, dell’immaginazione, della memoria, già asseriti a livello pedagogico nel De studiorum ratione e nella Scienza nuova riconfermati per il loro valore ermeneutico quanto mai utile da una prospettiva antropologica.
Da questo punto di vista, nulla si prestava meglio della retorica, la disciplina insegnata da Vico per quasi quarant’anni e impiegata nella Scienza nuova per ricostruire la psicologia, la cultura, la gnoseologia, la società dei primitivi, tutti aspetti fondati originariamente su passioni violentissime, congruenti a esseri affatto incapaci di astrazione e di logica. Se dunque egli attese alla faccia espressiva e creativa delle manifestazioni umane non fu perché, come aveva preteso Benedetto Croce, volesse fondare l’estetica, ma perché i primitivi, conservando la natura ferocemente egoistica degli «insensati ed orribili bestioni» da cui discendevano (p. 374), facevano di sé misura esclusiva di tutte le cose, portando alla ribalta le proprie incontenibili pulsioni. Il loro modo di comunicare non era mai neutro, per il coinvolgimento emotivo con il quale vivevano ogni esperienza. Il loro lirismo era pertanto del tutto spontaneo e naturale, e se impiegavano traslati e figure retoriche non lo facevano, a differenza di come si comportano oggi i poeti freddi e cerebrali dei tempi civili, per ornare con belle immagini i loro discorsi, ma per la povertà estrema del loro vocabolario, ristretto dapprima alla sola sfera semantica del corpo umano e delle attività agricole che originariamente costituivano le sole fonti di sussistenza.
Il linguaggio originario non fu articolato e quindi riflesso, ma muto, fatto di gesti o, al più, di istintive grida onomatopeiche, da cui prorompeva il pathos di chi le emetteva, in assenza totale di logos. Per Vico la civiltà nacque a opera della fantasia e delle sue invenzioni di sublime poesia, grazie alla quale la natura si animò e cominciò a diventare cultura. I miti non furono affatto un modo imperfetto o corrotto di pensare, ma mezzi originari di conoscenza, peculiari di epoche in cui l’attività intellettuale con l’elaborazione dei concetti non si era ancora formata a ordinare e organizzare un patrimonio di conoscenze prodotte dall’incalzare delle passioni. Se quelle storie apparivano ai tempi di Vico assurde o oscene, come non mancò di denunziare la critica libertina di Bayle, lo si dovette a una loro interpretazione antistorica che non teneva in nessun conto la differenza radicale intercorrente tra le barbariche e fertilissime fantasie collettive che le crearono e il moderno stile di pensiero. La storia dell’umanità si sviluppò con scansioni molto simili a quelle di ogni singolo uomo che nel corso della sua vita passa attraverso l’ingenuità della fanciullezza, l’immaginazione generosa dell’adolescenza, la razionalità posata degli anni maturi. Di conseguenza, per avvicinarsi alla comprensione della psicologia dei primitivi il moderno antropologo avrebbe dovuto rinvenirne «i princìpi dentro le modificazioni della nostra medesima mente umana» (p. 542), mettendo in pratica il canone del verum-factum e rivedendo se stesso bambino.
Per Vico il solo metodo adeguato e pertinente per ricreare il sorgere della civiltà consisteva nel raffigurarlo non già con un’impossibile dimostrazione scientifica, ma nell’immaginarlo mimeticamente con un mito, quello del primo fulmine e del primo tuono che inculcarono nei bestioni vaganti anarchicamente nella «gran selva della terra» il terrore di un’entità superiore. La luce accecante e il rombo terribile s’impressero indelebilmente nella «robusta memoria» di quei primi uomini che, vissuti fino allora nella condizione di belve feroci, arrivarono da quel momento a percepire il senso del tempo, rapportando ogni loro istante di vita all’atavico orrore per quel fenomeno naturale trasformato dalla «corpolentissima fantasia» in cenno di comando impartito da una smisurata e prepotente divinità antropomorfa immaginata a loro somiglianza, ma infinitamente più potente. La nascita dell’umanità e dei consorzi umani avvenne, al pari di quella dell’individuo, con un trauma violento, con uno shock conoscitivo che faceva giustizia dell’interpretazione idillica con cui gli intellettuali del Sei e Settecento leggevano l’età dell’oro. Lo sguardo disincantato di Vico escluse dal suo orizzonte antropologico ogni condizione edenica e si concentrò sul periodo terribile succeduto al diluvio universale, allorché gli uomini si erano ridotti a «uno stato affatto bestiale e ferino» (p. 564).
Prede di «violentissime passioni», essi potevano essere trattenuti soltanto da una eccitabilissima immaginazione, capace di trasfigurare la natura, in realtà indifferente alle loro vicende, in un ente al quale si doveva ubbidire perché creduto molto più forte di loro. Incominciò da questo terrore religioso il «conato», ossia la volontà, umana e non più animalesca,
di tener in freno i moti impressi alla mente dal corpo, per o affatto acquietargli, ch’è dell’uomo sappiente, o almeno dar loro altra direzione ad usi migliori, ch’è dell’uomo civile (p. 457).
Imponendo «modo e misura», le «passioni bestiali» divennero «passioni umane» (p. 457). A poco a poco, con la religione si passò dagli istinti anarchici all’autocontrollo e all’umanità, fondata anche sul matrimonio e sulle sepolture. Con i matrimoni si garantì una discendenza definita e una trasmissione dei beni nel susseguirsi delle generazioni, rispecchiate a livello iconico dagli alberi genealogici. Il senso della proprietà fu acuito dal terzo dei «princìpi universali» comune al «mondo di nazioni», ossia il culto dei morti e le «solennità» delle sepolture, che con la loro presenza attestarono i diritti maturati dagli avi, persistenti anche per la fede nell’immortalità dell’anima, un presupposto che spiega perché i miti narrino che «tutti i gentili fondatori de’ popoli», da Ercole a Orfeo, da Teseo a Enea, siano scesi agli inferi (pp. 779-80), non per impartire allegoricamente lezioni di morale e di metafisica, ma per ribadire il diritto eroico perpetuabile nella discendenza. Se per un verso queste istituzioni furono fattori imprescindibili della vita civile, per un altro verso la loro perdita comporterebbe un ritorno alla barbarie e alla condizione bestiale.
Nel costituirsi della società civile furono per Vico del tutto assenti la razionalità e il calcolo dei suoi fondatori, dominanti viceversa nei sistemi politici dei giusnaturalisti (per i quali il diritto sarebbe stato universale e sempre illuminato dalla ragione fin dalle origini) e dai contrattualisti alla Hobbes, che aveva poggiato la sua concezione dello Stato autocratico sul proposito utilitaristico dell’interesse personale. Invece, secondo l’avvincente ricostruzione della Scienza nuova, allo scoppio del primo tuono non tutti i bestioni alzarono gli occhi al cielo e, atterriti, cominciarono ad avere il senso del divino e a esercitare la religione e la pietà. Una parte di loro continuò la vita ferina, esposti a ogni violenza e indeboliti dalla loro stessa vita solitaria. Per sopravvivere, ripararono presso i primi consorzi degli «uomini pii», economicamente superiori per avere cominciato a coltivare le terre e socialmente fortificati dalle leggi che osservavano con cieca ingenuità per crederle in buona fede espressione diretta della volontà divina. Agli uomini empi venne concessa soltanto la vita, in cambio della quale dovettero fornire prestazioni servili che poi furono l’origine di molte contese agrarie. Nacque di qui la rigida divisione in classi tra eroi e volgo, tra nobili e plebei, tra padroni e servi, tra chi, rispettoso della divinità, ne eseguiva gli ordini attraverso il privilegio di trarre gli auspici e chi, escluso da ogni diritto religioso e civile, combatteva per conquistare lo stesso stato giuridico, in una lotta continua che contribuì in maniera decisiva all’ulteriore incivilimento con l’esercizio delle virtù, perseguite anche dai plebei per rendersi degni in tutto dei nobili.
I miti classici, insieme con la storia delle origini di Roma, anziché celare allegorie di una filosofia misteriosofica, o racchiudere ardue teorie cosmogoniche, come avviene nelle Metamorfosi di Ovidio, riprese dai mitografi di Cinque e Seicento, espressero vicende sanguinose di una lotta di classe opponente da una parte gli uomini nobili ed eroici che, atterriti da divinità plasmate dalle loro stesse fantasie, coltivarono la religione, la temperanza dei matrimoni solenni e la pietà delle sepolture, e dall’altra i servi che, non frenati dal timore della religione, vissuti nella promiscuità dei «concubiti incerti» (p. 564) e privi di quel rispetto per i loro defunti derivato dalla credenza dell’immortalità dell’anima, mantennero una condotta ferina che li privò dei diritti civili. Né il numero impressionante di dei fantasticati nell’antichità e la loro natura spesso ibrida (sirene, fauni, centauri) è da ritenersi il sintomo di insensate inverisimiglianze, dal momento che esso fu il segno della progressiva complicazione della vita, manifestatasi con il politeismo per l’incapacità di unificare fenomeni simili sotto specie, generi o concetti comuni.
Soppresse le idealizzazioni con una prospettiva crudamente realistica cui non dovette rimanere estranea la visione sociale e politica di Machiavelli, il cammino verso la civiltà fu per Vico terribile e faticoso, ripercorso tenendo sott’occhio le tesi di Lucrezio e scandito dalle lotte per la sopravvivenza, dai bisogni dapprima elementari, dal necessario, dall’utile. Mentre però la filosofia epicurea giudicava esecrabile la superstizione, perché cieca e irrazionale, Vico considerava positivamente le religioni primitive, vincoli costitutivi della società, e le sfrenate fantasie che le avevano originate in quanto, lungi dall’essere soltanto un remoto aspetto propedeutico e subordinato all’avvento della riflessione «con mente pura», esse costituirono un vero e proprio codice gnoseologico grazie al quale il mondo acquistò una forma e un significato per l’uomo. La «chiave maestra» della Scienza nuova è appunto quella degli «universali fantastici» (pp. 440 e 621), con cui i primi uomini facevano di un individuo, di un’immagine o di una percezione sensibile e particolare un punto di riferimento e di aggregazione universale perché non sapevano riconoscere tra soggetto e predicato un rapporto distinto di somiglianza o di analogia.
Identificando una cosa e una sua proprietà, il tuono non fu soltanto ‘simile’ alla voce irata di un essere antropomorfo ma fu, alla lettera, il linguaggio con cui si esprimeva il cielo. Solo per gli interpreti moderni la designazione del cielo e dell’universo con Giove è una metafora che trasforma ciò che è inanimato in animato, perché i primitivi, privi di coscienza paradigmatica, non ebbero la percezione di servirsi di un pensare e di un parlare figurato. La loro cosmogonia, benché tutta fantastica, non aveva nulla di fittizio, essendo creduta assolutamente vera e reale. Per questo i primi uomini «furon detti “poeti”, che lo stesso in greco suona che “criatori”» (pp. 570-71). Si capisce allora la ragione per cui la Scienza nuova concede tanta importanza alla «sapienza poetica», alla mentalità mitica, al parlar figurato e ai poemi omerici, nei quali non sono da ricercare verità artatamente occultate ma la storia civile e politica delle prime comunità.
Individuata l’origine dell’umanità, che comportò una regolamentazione del tempo, ritmato su una severa liturgia stagionale, dello spazio, con l’abbandono del nomadismo e la formazione dei primi insediamenti, mentre le selve vennero ridotte a coltura, e dei corpi che, soggetti ora all’igiene e ai sacrifici lustrali, restituirono i giganti postdiluviani alle giuste stature, Vico poté ricostruire l’evoluzione della civiltà, secondo la griglia della «storia ideale eterna». Lungo una successione regolata si sviluppò dapprima un’«età degli dèi», allorché gli uomini vivevano in una teocrazia in cui le leggi inflessibili si credevano emanate dalla divinità e trasmesse agli uomini attraverso gli auspici recepiti e interpretati dai sacerdoti; a seguire furono l’«età degli eroi», ove un’aristocrazia regnava sui plebei perché si riteneva eticamente superiore, e infine l’«età degli uomini», all’insegna della democrazia da quando la ragione rese finalmente gli uomini consapevoli di essere tutti uguali. In questa uniformità, che tuttavia ammetteva la persistenza di fasi precedenti anche nei periodi successivi, Vico coglieva un disegno della Provvidenza, che però agirebbe per vie del tutto naturali, fungendo nella trama della Scienza nuova da concetto regolativo che consentiva la scientificità delle leggi storiche. Non per caso nella «Dipintura» con cui si apre la Scienza nuova, ossia la sinossi iconica che compendia unitariamente il significato dell’intera opera, non mancano la divinità e «il raggio della divina provvedenza» (p. 418), ma a campeggiare in primo piano sono i manufatti umani, a cominciare dall’aratro per finire con il timone, simbolo dei primi scambi commerciali tra le nazioni.
I fondatori delle nazioni, considerati degli eroi, non si segnalarono con atti di guerra contro altri uomini, ma con l’immane fatica necessaria per soddisfare gli impellenti bisogni elementari e vitali della sopravvivenza, lottando contro le bestie feroci, contro le intemperie e contro la fame. Per questo Ercole, «con cui è al colmo il tempo eroico di Grecia», è la figura più rappresentativa del «fondatore di popoli per l’aspetto delle fatighe» (p. 475), artefice di un radicale mutamento di rapporti tra l’uomo e la natura. Nell’atto di bruciare le selve c’è sempre un intento religioso, quello di aprire un «lucus», un luogo sacro in cui entri la luce, un varco delle «selve rasate dentro il chiuso de’ boschi» (p. 630), attraverso cui potere contemplare il cielo e interpretare il volere degli dei dal volo degli uccelli. Intanto però con questa opera, che oggi Martin Heidegger chiamerebbe di Lichtung, di illuminazione dell’Essere, Ercole vinse con l’agricoltura, ovvero con il nomos della terra (secondo la definizione di Carl Schmitt), il caos della natura, gettando le fondamenta della civiltà. Per Vico la virtù e l’eroismo furono dunque frutto della fatica.
Anche Ercole, come Giove nell’età degli dei, è un universale fantastico o, per dirla con lo stesso Vico, è, presente in ogni nazione gentile, «il carattere degli eroi politici, i quali dovettero venire innanzi agli eroi delle guerre» (p. 416). La corposa mentalità dei primitivi fece sì che tutti i lavori benemeriti per l’umanità e il progresso a cui avevano assistito lungo molte generazioni venissero attribuiti a un’unica persona, di nome Ercole, al quale «attaccarono tutti i particolari diversi appartenenti a ciascun d’essi generi» (p. 823). Soltanto a seguito di questo processo antonomastico si spiega perché il mito attribuisce a Ercole dodici titaniche fatiche, impossibili a essere compiute da un unico individuo. Non mette conto di insistere oltre sul significato di universale fantastico, se non per mostrare la singolarità di un eroismo che, di solito pensato in termini di estremo individualismo, acuitosi nel Seicento con il risorgere degli ideali feudali e rilanciato nel Settecento con la popolarità delle Vite parallele di Plutarco, per Vico è invece il prodotto di azioni collettive.
Lo schema di filosofia della storia, che consente una semplificazione paradigmatica, pur nella rigidezza formata da tre età in costante successione, non sopprime le esperienze tangibili e l’apparato documentario perché, se verum et factum convertuntur, la teoria astratta è presente e complanare alla vita concreta. Nella Scienza nuova la tensione tra il severo deduttivismo e l’empirica induzione non riesce a placarsi e la possibilità di una serrata catena dimostrativa scende a patti con l’inesauribile varietà del mondo umano. L’intuizione più geniale fu che a ogni mutamento sociale dovesse corrispondere un uguale mutamento delle forme di giurisprudenza, di governo, di religione, di linguaggio, di pensiero, di arte, di organizzazione civile, al punto che non si possono estrapolare statuti di singole discipline, di fatto inserite in una piena totalità. Un unico stile di vita e di pensiero, simile allo Zeitgeist, informa ciascun tempo storico e lo rende omogeneo, influenzandone ogni aspetto, talché ciascuna delle tre età degli dei, degli eroi e degli uomini non definisce soltanto un regime politico ma un modello culturale descritto in chiave sociologica. La Scienza nuova, non che essere interessata all’individuo, studia esclusivamente l’uomo in una collettività. La grandezza di Ercole, o di Prometeo, ma anche di Achille o di Ulisse, per non dire di Omero, i cui poemi furono per Vico non già opera di un singolo, ma, in quanto «universale fantastico», opera collettiva del popolo greco, non si erge più quale motivo di distinzione e di separazione, ma come elemento egualitario e di raccordo tra individui, ceti, valori culturali. Polemico contro i «filosofi monastici o solitari» (p. 496) che, stoici o epicurei, professavano l’apatia e l’egoismo, ma anche ostile alla egocentrica autocoscienza riflessiva del cogito cartesiano, Vico si indirizzò alla «comune natura delle nazioni», alle masse anonime, all’umanità intera, da indagare agli albori del suo stato sociale.
Unica eccezione era fatta per gli ebrei, la cui storia sacra era tenuta separata dalla storia profana dei popoli che non conobbero il vero Dio. A prima vista il privilegio del popolo eletto, non toccato dalla degradazione ferina perché prescelto da Dio a ricevere la Rivelazione, potrebbe apparire frutto della prudenza con cui evitare pericolose identificazioni con quanto era occorso alle nazioni gentili; al tempo stesso però era anche un atto di coraggio, perché mettendo da parte una storia miracolosa Vico svincolava l’analisi sociale e politica degli uomini dagli interventi soprannaturali, proprio come avevano fatto Machiavelli nel Principe e, nell’ambito delle scienze della natura, Galilei, il quale aveva rinunziato a discutere di metafisica per avere piena autonomia nell’esame del mondo fisico e delle sue leggi interfenomeniche. In modo simile a quanto accadeva con il nuovo metodo scientifico, ma applicato alle vicende umane, anche con la «storia ideale eterna» i fatti e le idee interagivano, in un connubio che, attingendo alla lezione tanto dell’empirismo quanto del razionalismo, fondeva l’esperienza e la teoria, con l’interpretazione dei documenti integrata da una prospettiva filosofica, secondo l’interazione di certo e di vero.
Come nel momento originario ogni popolo della Terra immaginò allo stesso modo una divinità, o, come si legge nella Scienza nuova, «ogni nazione gentile» ebbe il suo Giove (p. 511), ancorché di diversa onomastica, così seguì la stessa legge dinamica della storia, sia pure anche in questo caso in modo indipendente l’uno dall’altro e con tempi e modi diversi e peculiari. A differenza degli altri eruditi che lo avevano preceduto, Vico non cercava il primato di un popolo in quanto, nel dare per scontato quello religioso degli ebrei, ne prescindeva per indagare lo sviluppo parallelo e autonomo di tutte le altre genti. D’altro canto questa evoluzione non è infallibilmente progressiva, perché con la teoria dei «ricorsi» ammette sempre una possibile (ma non meccanica) involuzione verso il ritorno della barbarie. Con il «ricorso» la concezione rettilinea e cristiana del tempo si flette minacciosamente fino a immaginare, con il recupero della circolarità temporale dei classici greco-latini, il crollo della civiltà, già riscontrato storicamente con il Medioevo. In Vico è molto forte e drammatica la coscienza del possibile decadere progressivo del mondo civile, dovuto in primo luogo all’abbandono della coscienza religiosa, giacché, come ammoniscono le ultime pagine della Scienza nuova, «perdendosi la religione ne’ popoli, nulla resta loro per vivere in società, né scudo per difendersi, né mezzo per consigliarsi, né pianta dov’essi reggano, né forma per la qual essi sien affatto nel mondo» (p. 970).
Vico si preoccupò fino all’ultimo della funzione civile della religione, giudicata la componente decisiva che mantiene unita una società nonostante i fattori potenzialmente disgregatori delle passioni individuali, tenuti a freno dal timore di una divinità. Un altro istituto che risulta complementare alla sua filosofia etico-politica è la «legislazione» che, come recita una «degnità»,
considera l’uomo qual è, per farne buoni usi nell’umana società; come della ferocia, dell’avarizia, dell’ambizione, che sono gli tre vizi che portano a travverso tutto il gener umano, ne fa la milizia, la mercatanzia e la corte, e sì la fortezza, l’opulenza e la sapienza delle repubbliche; e di questi tre grandi vizi, i quali certamente distruggerebbero l’umana generazione sopra la terra, ne fa la civile felicità (p. 497).
I vizi naturali sono convertiti dal diritto in elementi costitutivi dell’ordine sociale. Con queste pronunce Vico mostra di risentire del nuovo clima culturale antistoico inauguratosi a fine Seicento, a seguito del quale le passioni non venivano più soffocate come aspetti deleteri, ma guidate a fini utilitaristici. La «civile felicità», sinonimo di «pubblica felicità», diventò una delle parole d’ordine più ricorrenti del Settecento, per il cui conseguimento si batté, non ultimo, anche Vico.
Ne è una riprova l’appendice pragmatica che nell’edizione del 1730 volle intitolare Pratica di questa Scienza, scritta per dimostrare che la sua opera non era meramente «contemplativa» ma intendeva anche «soccorrere alla prudenza umana» e fare sì che «le nazioni […] o non rovinino affatto, o non s’affrettino alla loro rovina», dovendo le vere scienze dedicarsi «a materie le quali dipendono dall’umano arbitrio, che tutte si chiamano attive» (La scienza nuova 1730, a cura di P. Cristofolini, M. Sanna, 2004, p. 511). Con questa esplicita professione di impegno civile e politico teso a impedire o frenare la decadenza degli Stati, Vico si inseriva a pieno titolo nella scia di una tradizione di pensiero peculiare nella cultura italiana, quella per cui un Machiavelli si dichiarava disposto a «voltolare un sasso» pur di servire al bene della sua patria e, per arrivare ai tempi di Vico, un Muratori, quasi contemporaneamente alla Scienza nuova, pubblicava un trattato Della pubblica felicità oggetto de’ buoni principi (1749). Vico, dal suo canto, non era stato da meno, dimostrando con le sue opere di essere «nato per la gloria della patria e in conseguenza dell’Italia» (Vita, cit., p. 53).
Fino alla metà del Novecento, per le Opere di Vico si poteva contare sull’edizione a cura di F. Nicolini, 8 voll., Bari 1914-1941.
Negli anni Cinquanta sono uscite, tra le più significative:
La scienza nuova e opere scelte, a cura di N. Abbagnano, Torino 1952.
Opere, a cura di F. Nicolini, Milano-Napoli 1953.
Opere, a cura di P. Rossi, Milano 1959.
Nei decenni successivi sono uscite le seguenti edizioni:
Opere filosofiche, a cura di P. Cristofolini, Firenze 1971.
Opere giuridiche, a cura di P. Cristofolini, Firenze 1974.
Opere, a cura di A. Battistini, 2 voll., Milano 1990 (comprende la Vita, il De nostri temporis studiorum ratione, una scelta di poesie e di lettere, le orazioni In morte di donn’Angela Cimmino, De mente heroica e Le Accademie e i rapporti tra la filosofia e l’eloquenza, la Scienza nuova del 1725 e quella del 1744).
De nostri temporis studiorum ratione/La méthode des études de notre temps, éd. A. Battistini, Paris 2010.
Nella serie «L’edizione critica delle opere di Giambattista Vico», promossa dal Centro di studi vichiani (oggi Istituto per la storia del pensiero filosofico e scientifico moderno), sono usciti i seguenti volumi:
Le orazioni inaugurali. I-VI, a cura di G.G. Visconti, Bologna 1982.
La congiura dei principi napoletani. 1701, a cura di C. Pandolfi, Napoli 1992.
Epistole. Con aggiunte le epistole dei suoi corrispondenti, a cura di M. Sanna, Napoli 1993.
Varia. Il “De mente heroica” e gli scritti latini minori, a cura di G.G. Visconti, Napoli 1996.
Le gesta di Antonio Carafa, a cura di M. Sanna, Napoli 1997.
Minora. Scritti latini storici e d’occasione, a cura di G.G. Visconti, Napoli 2000.
Le iscrizioni e le composizioni latine, a cura di G.G. Visconti, Napoli 2004.
La scienza nuova 1730, a cura di P. Cristofolini, M. Sanna, Napoli 2004.
B. Croce, La filosofia di Giambattista Vico, Bari 1911, 19626.
E. Paci, Ingens sylva: saggio sulla filosofia di G. B. Vico, Milano 1949.
N. Badaloni, Introduzione a G.B. Vico, Milano 1961.
P. Rossi, Le sterminate antichità: studi vichiani, Pisa 1969, 19992.
E. Garin, Dal Rinascimento all’Illuminismo, Pisa 1970, Firenze 19932, pp. 197-230.
I. Berlin, Vico and Herder. Two studies in the history of ideas, London 1976 (trad. it. Roma 1978).
D.Ph. Verene, Vico’s science of imagination, Ithaca (N.Y.) 1981 (trad. it. Roma 1984).
J. Trabant, Neue Wissenschaft von alten Zeichen: Vicos Sematologie, Frankfurt a.M. 1994 (trad. it. Roma-Bari 1996).
P. Cristofolini, La “Scienza nuova” di Vico: introduzione alla lettura, Roma 1995.
L. Amoroso, Lettura della “Scienza nuova” di Vico, Torino 1998.
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A. Battistini, Vico tra antichi e moderni, Bologna 2004.
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