Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
Giambattista Vico è una delle figure più interessanti del panorama filosofico moderno. Il suo pensiero coniuga alcune istanze del pensiero classico con l’idea della fondazione di una vera e propria filosofia della storia, una fondazione che, rimodulando il concetto tradizionale di metafisica, tiene conto della complessità cognitiva, linguistica e simbolica dell’uomo.
Giambattista Vico nasce a Napoli il 23 giugno 1668. Notizie sulla sua vita e sulle sue opere sono ricavabili dall’Autobiografia (1728), un prezioso documento del suo itinerario intellettuale, ma anche di un genere letterario che avrebbe avuto nel XVIII secolo altri illustri esempi. Suo padre Antonio era un modesto libraio. Dopo aver frequentato una scuola privata di grammatica, a partire dal 1680 frequenta il Collegio massimo dei Gesuiti e ha come professore il filosofo Antonio Del Balzo. Ma ben presto lascia i Gesuiti e come autodidatta comincia a studiare la grammatica di Alvarez e le opere di Pietro Ispano e Paolo Veneto. I suoi interessi sono ben presto rivolti alla filosofia, anche se si iscrive alla facoltà di diritto dell’università di Napoli. Nel 1686 accetta l’incarico, offertogli dal vescovo di Ischia Geronimo Rocca, di precettore dei nipoti che vivono buona parte dell’anno nel castello di Vatolla nel Cilento. Nella solitudine del piccolo borgo ha modo di approfondire gli studi classici, leggendo e glossando testi di Cicerone, Virgilio, Orazio, Dante. Pur continuando gli studi giuridici, si rivolge ben presto a quelli letterari, filologici e speculativi e nel 1693 pubblica due importanti canzoni, Affetti di un disperato e Canzone in morte di Antonio Carafa, che compendiano, pur nella forma poetica, il duplice corso degli studi e degli interessi di Vico: la filosofia e la scienza storica e politica. Dopo aver conseguito la laurea “in utroque iure”, lascia l’incarico di precettore della famiglia Rocca e nel 1699 vince il concorso per la cattedra di retorica presso l’università di Napoli, aspirando poi invano, molto più tardi, a quella più prestigiosa e meglio pagata di diritto civile. Ma è proprio grazie a questo incarico che abbiamo notizia dei primi scritti filosofici di Vico. Il professore di retorica era chiamato ogni anno a tenere la prolusione inaugurale. Al periodo tra il 1698 e il 1708 risalgono le prime sei, che sono state poi tramandate con il nome di Orazioni inaugurali e si sviluppano intorno a un programma ben riassunto dallo stesso Vico nell’Autobiografia: “le prime tre trattano principalmente de’ fini convenevoli alla natura umana, le due altre principalmente de’ fini politici, la sesta del fine cristiano” (Giambattista Vico, Vita scritta da se medesimo, 1728). La settima, De nostri temporis studiorum ratione (1708), occupa una posizione particolare all’interno della concezione vichiana e quindi ha meritato un posto a parte rispetto alle altre.
Dopo il 1708 l’interesse di Vico si sposta verso un tentativo di fondazione metafisica del mondo umano, affidato a un ambizioso progetto che avrebbe dovuto articolarsi in tre libri: un Liber metaphysicus, un Liber physicus e un Liber moralis, nei quali sistemare rispettivamente le sue idee su Dio, il mondo e l’uomo. L’opera, De antiquissima italorum sapientia ex linguae latinae originibus eruenda libri tres, edita nel 1710, comprende però il solo primo libro, gli altri due non saranno mai scritti. Nell’aprile del 1711 compaiono le dispense del corso di retorica dell’anno accademico 1710-1711 con il titolo Institutionum oratoriarum liber unus. Nello stesso anno sul “Giornale de’ letterati d’Italia”, edito a Venezia, esce una recensione anonima al De antiquissima, alla quale Vico replica con due Risposte. Il programma vichiano, che si orienta sempre di più nel senso di una ricerca della genesi e dello sviluppo dello sviluppo dell’umanità, trova una sua prima, compiuta espressione nel Diritto universale (1722), opera che, illustrata nell’opuscolo del 1720, Sinopsi del «Diritto universale», è suddivisa in due libri – De universi iuris uno principio et fine uno e De constantia jurisprudentis (a sua volta ripartito in De constantia philosophiae e De constantia philologiae) – corredati da una serie di Notae. Sul finire del 1724, il filosofo termina la stesura della cosiddetta Scienza nuova in forma negativa, opera andata perduta che non riesce a pubblicare per mancanza di finanziamenti. Per questo ne riscrive una versione più breve e autofinanziata, che vede la luce nel 1725 e alla quale viene posto il titolo di Principi di una scienza nuova d’intorno alla natura delle nazioni. Qualche anno più tardi, nel 1727, sugli Acta Eruditorum di Lipsia esce una recensione anonima negativa e critica verso l’opera vichiana, alla quale Vico stesso replica duramente nelle Vici vindiciae. Nel 1728 pubblica la Vita. Vico ora lavora a una seconda edizione della Scienza nuova che, dopo poco più di cento giorni di febbrile lavoro, viene pubblicata nel 1730 e alla quale appone la famosa “Dipintura”, che riassume simbolicamente il contenuto dell’opera. Nel corso della stampa di questa seconda edizione Vico compone le Correzioni, miglioramenti e aggiunte, e successivamente, per emendare alcuni errori rimasti nel testo, dà alle stampe il fascicolo delle Correzioni, miglioramenti e aggiunte seconde (1731), a cui seguiranno le Correzioni, miglioramenti, ed aggiunte terze (1731 e 1733).
Nel 1732 recita l’orazione inaugurale De mente heroica, e nel 1735 il re Carlo di Borbone lo nomina storiografo regio. Tra il 1735 e il 1736 Vico comincia la stesura di una nuova edizione della Scienza nuova alla quale lavora fino alla morte. Nel 1743 avvia la pubblicazione della terza edizione del suo capolavoro, che esce postuma nel luglio del 1744, dopo che Vico ne aveva rivisto le bozze fino all’ultima notte della sua vita, quella tra il 22 e il 23 gennaio 1744.
C’è un tema di fondo che, tra gli altri, caratterizza il De antiquissima: l’uomo non può avere accesso alla verità del mondo naturale, poiché tale accesso è consentito solo a Dio per effetto dell’atto creativo. Ben diversamente si pone il problema della conoscenza del mondo storico. Nel capitolo in cui affronta il rapporto tra il vero e il fatto, dopo aver sostenuto che il “primo vero” è in Dio, cioè nel “primo facitore”, e dopo aver assegnato alla mente divina una capacità di intelligenza infinita e compiuta delle cose, Vico lascia alla mente umana lo spazio del pensare, della cogitatio. “Dio infatti raccoglie tutti gli elementi delle cose, estrinseci e intrinseci, in quanto li contiene e dispone; invece la mente umana, in quanto limitata, e in quanto sono fuori di lei tutte le altre cose che non sieno essa stessa, può soltanto andare ad accozzare gli elementi estremi delle cose, senza mai collegarli tutti. Pertanto è partecipe della ragione, non padrona” (Giambattista Vico, De antiquissima italorum sapientia, 1710). La mente umana, allora, è in grado di elaborare un sistema di conoscenze applicabile a un ambito di fatti, quello storico per intenderci, costruito e al tempo stesso conosciuto dall’uomo. La scienza, afferma Vico in modo inequivocabile, “è la conoscenza del genere o modo in cui la cosa si fa: per mezzo di essa la mente, al tempo stesso in cui viene a conoscere quel modo in cui compone gli elementi, fa la cosa” (De Antiquissima).
Sta qui il senso di quella che forse è la più profonda ipotesi teorica di Vico: la convertibilità di verum e factum. Il vero, oggetto della conoscenza dell’uomo, è convertibile con ciò che dall’uomo viene fatto e conosciuto. Solo in Dio vi è piena identità di verità e creazione, mentre la ragione umana conosce il vero solo nella misura in cui lo produce. Tutto ciò che l’uomo costruisce nelle operazioni concettuali, nelle creazioni linguistiche e nell’esperienza storica è per lui stesso conoscibile e vero, in quanto egli stesso l’ha prodotto. Il ragionamento vichiano prefigura quell’intenso, futuro dibattito filosofico ed epistemologico sulla fondazione delle scienze dell’uomo. Infatti, dall’assoluta impenetrabilità del vero divino discende la pensabilità di una norma che serve a riconoscere le verità prodotte delle scienze umane. Così, dalla divisione tra corpo e anima, intelletto e volontà, figura e moto, ente e uno, derivano i vari ambiti del sapere: la metafisica, l’aritmetica, la geometria, la meccanica, la medicina, la logica, la morale. Dunque, proprio muovendo dalla consapevolezza dei limiti della sua mente, l’uomo si dispone ad “investigare la natura delle cose”, poggiando sulla astrazione, per mezzo della quale riesce a immaginare il punto e l’uno, cioè i contenuti della geometria e della matematica.
Il principio della conversione verum-factum sta, com’è noto, anche all’origine della polemica anticartesiana. Essa, e lo si vedrà meglio più innanzi, ruota intorno alla centralità che in Vico assume il senso comune e ciò che costituisce il suo sfondo, cioè il mondo del verosimile, il mondo della umana produttività. Proprio nel De antiquissima Vico traccia le linee di fondo della sua critica al concetto cartesiano di verità basato sulle idee chiare e distinte. Il nesso di convertibilità tra vero e fatto, l’individuazione della norma del vero umano “nell’averlo fatto”, impediscono che l’idea chiara e distinta possa essere elevata a criterio della mente. Conseguentemente, anche la metafisica del “primo vero”, di quel vero “esente da dubbio” dal quale deriverebbero i “secondi veri” di tutte le altre scienze, non riesce alla fine a districarsi dalle contraddizioni cui conducono sia il dogmatismo sia lo scetticismo. Al contrario, la metafisica vichiana non mette in dubbio che il primo vero sia quello divino, capace di contenere l’infinità di tutti i generi e di tutte le cause. Si tratta solo di riconoscere che il vero umano, proprio perché non è in grado di elevarsi a questa infinità, ha una sola via per individuare il criterio del vero, cioè la sua identificazione con l’effettuazione di esso. Nella conclusione del Liber metaphysicus egli parla esplicitamente di una “metafisica commisurata alla debolezza del pensiero umano”. Si tratta di una metafisica che non pretende di fornire all’uomo la gamma di tutte le possibili conoscenze, ma soltanto quelle che si producono nel fare. Ma Vico, sulla scia della grande tradizione moderna della scienza galileiana, ci dice pure che proprio la limitatezza della conoscenza umana è alla base della regola che serve alla fisica sperimentale, dal momento che in funzione di essa riconosciamo per vero in natura solamente ciò che è possibile riprodurre con adeguati esperimenti. La metafisica, nel senso appunto di una “metafisica della mente umana”, diventa il motivo fondamentale dell’opera vichiana, già delineato nel Liber metaphysicus e, poi, definitivamente elaborato nella Scienza nuova.
La mente umana, come si è visto, è stata creata da Dio, ma essa non ha carattere di completezza e definitività. Essa, piuttosto, rappresenta il mondo dell’indeterminatezza e della possibilità. La natura di Dio – scrive Vico nella Sinopsi del diritto universale – è quella di essere “nosse, velle, posse infinitum”, dal che si dimostra la natura dell’uomo, che è quella “nosse, velle, posse finitum, quod tendat ad infinitum” (Giambattista Vico, Sinopsi del diritto universale, 1720). Perciò, in questo contesto, diventa decisivo il ruolo della storia. La mente umana non può mai attingere alla verità assoluta, però, attraverso la storia, può cogliere le modificazioni della coscienza umana e le articolazioni di queste modificazioni nella mente dell’uomo. Si chiarisce, in tal modo, il concetto di “storia ideale eterna”, quell’argomento “e nuovo e grande” che s’agitava, fin dalle prime prove, nella mente di Vico e, cioè, come si legge nell’Autobiografia, la ricerca di un “principio” che “unisse egli tutto il sapere umano e divino”. La metafisica vichiana della storia, come si vedrà meglio anche più innanzi, postula consapevolmente il grande problema filosofico del rapporto tra fatti e idee, temporalità ed eternità. La storia ideale eterna, se è da intendere come storia delle idee, lo è non certo nel senso della riduzione della storia a idee metafisiche, predefinite e preesistenti alla coscienza dell’uomo, ma in quello di idee costruite dalla mente umana, la cui capacità creativa muove lo stesso agire sociale e storico dell’uomo.
La metafisica di Vico, la rinnovata metafisica che non ha più nulla ormai di quella tradizionale di essenze eterne e immutabili, è inscindibile dal programma che sta al centro della Scienza nuova: la “storicizzazione della ragione”. È una metafisica, come si è visto, del genere umano, che nella storia ideale eterna non trova un luogo dispensatore di immobili idee date una volta per tutte, ma quella straordinaria inventio rationis di un universale civile che si radica nell’originaria etimologia del Logos-Lex, Nous-Nomos. Ad esso poi si affianca la scoperta dell’universale storico che si dispiega nelle forme di civilizzazione e socializzazione dell’umanità e, infine, la teorizzazione dell’universale fantastico che si manifesta nelle forme di creatività poetica e linguistica di popoli e nazioni.
La comprensione degli eventi storici, tuttavia, ha bisogno di tutti i sussidi della scienza filologica (dell’antiquaria, dell’etimologia, della cronologia), ma ha ancor più bisogno di commisurare i movimenti della storia con le strutture ideali della mente umana, con quelle strutture, cioè, dell’ordine naturale che attraversa, nel tempo, la vita degli uomini e delle nazioni. Si può così tornare agli essenziali tratti del concetto vichiano di “storia ideale eterna” e al ruolo che essa svolge nel rinnovato significato della metafisica. Se si volge per un momento l’attenzione alla “spiegazione della dipintura” che, com’è noto, apre la Scienza nuova, a mo’ di quadro sinottico dell’intera opera e di ausilio mnemotecnico per il lettore, si possono agevolmente fissare alcuni punti fermi. Al centro dell’immagine, sia simbolicamente sia concettualmente, appare la metafisica, la “donna con le tempie alate” che certo anche figuralmente sovrasta il globo terrestre, cioè il mondo della natura, ed è investita dal raggio della provvidenza che parte dall’occhio veggente di Dio. E, tuttavia, prima ancora che Vico si dia a spiegare il senso della raffigurazione, egli afferma significativamente di voler offrire al lettore in primo luogo una “tavola delle cose civili” (Scienza nuova, 1744,), mostrando in tal senso la preminenza dello specifico oggetto della nuova scienza: il processo di incivilmento e socializzazione del genere umano, la genesi del concetto di auctoritas, la funzione “civile” della filosofia. D’altronde, il paragrafo sulla Idea dell’opera che apre l’edizione del 1725 aveva già messo in chiaro come il libro intendesse ragionare su una Scienza “dintorno alla natura delle nazioni”, muovendo cioè dal livello di acquisita umanizzazione dei rapporti civili, dal momento che se è pur vero che l’alba dell’umanità inizia con la religione, essa si è poi definitivamente compiuta “con le scienze, con le discipline e con l’arti” (Scienza nuova, 1725). Nella “Dipintura” la metafisica non si limita a contemplare Dio “sopra l’ordine delle cose naturali”; nell’occhio divino essa contempla anche il mondo delle menti umane proprio al fine di dimostrare l’azione della provvidenza in quel mondo civile che è essenzialmente il mondo delle nazioni. Vico, dunque, non ha alcuna intenzione di negare il ruolo della provvidenza nella vita e nella storia dell’uomo; ma questo non significa che non possa delinearsi uno spazio di autonomia proprio del facere delle umane volontà. È tale spazio che può e deve divenire oggetto della scienza che Vico vuole fondare e prefigurare. Perciò il globo che è ai piedi della donna alata è poggiato su un solo lato dell’altare, a significare, come spiega Vico stesso, il fatto che avendo i filosofi “contemplato la divina provvedenza per lo sol ordine naturale, ne hanno solamente dimostrato una parte”. E si tratta di quella parte che è la “più propria” degli uomini, “la natura de’ quali ha questa principale proprietà: d’esser socievoli” (Scienza nuova, 1744).
Si definisce e si precisa sempre di più il ruolo della storia dell’uomo, dell’umanità nel suo processo di civilizzazione, e si spiega, così, la centralità delle forme di socializzazione e di organizzazione politico-giuridica. Ma tutto ciò diventa possibile perché, a partire dalla Scienza nuova (sia pur sviluppando intuizioni già contenute nel De antiquissima e, in modo particolare, negli scritti giuridici raccolti nel De Uno), la filosofia di Vico – come ha sostenuto in un famoso saggio Pietro Piovani – è diventata “filosofia senza natura”. E non perché si voglia negare l’ambito specifico di conoscenza e realtà del mondo fisico-naturale, ma proprio per attestare uno spostamento di interesse verso un mondo, quello dell’uomo e della sua storia, finora trascurato o sottovalutato dai filosofi. Vico, spiega Piovani, ha così individuato la “strada verso lo studio del mondo morale; ma solo nella ricerca specifica della nuova scienza quella indicazione esce dalla genericità e designa una scelta metodologica fra mondo morale e mondo naturale” (Pietro Piovani, Vico e la filosofia senza natura, 1990). Il principio teoretico basilare su cui poggia la nuova scienza diventa la certezza di un “mondo civile” fatto dagli uomini e la filosofia, arricchita dal metodo filologico, può impegnarsi nella conoscenza dei “veri che gli uomini hanno fatto”. Riprendendo il concetto già espresso in apertura dell’opera – quando spiega il motivo della precaria positura del globo su un solo lato dell’altare –, Vico chiarisce, nella sezione De’ principi, che cosa egli intende quando parla di una verità che assolutamente non può essere messa in dubbio (e cioè il mondo civile come prodotto dell’umano facere), ma, al tempo stesso, egli critica il fatto che la filosofia non abbia saputo fino ad allora sviluppare tutte le conseguenze di tale verità. “Lo che, a chiunque vi rifletta, dee recar maraviglia come tutti i filosofi seriosamente si studiarono di conseguire la scienza di questo mondo naturale, del quale, perché Iddio egli il fece, esso solo ne ha la scienza; e trascurarono di meditare su questo mondo delle nazioni, o sia mondo civile, del quale, perché l’avevano fatto gli uomini, ne potevano conseguire la scienza gli uomini” (Scienza nuova, 1744).
Vico ritiene così possibile la “scoverta dé veri elementi della storia”, ancora una volta individuabili a partire dalla natura degli uomini e non dati una volta per tutte da una astorica mente universale (la storia ideale eterna, come sappiamo, non è separabile dal tempo storico delle nazioni). Soltanto dalla natura degli uomini derivano i costumi e da questi poi discendono i governi, i quali, a loro volta, danno vita alle leggi, sulla cui base si formano gli “abiti civili” e, infine, le costanti che caratterizzano la vita delle nazioni. “Onde questa scienza viene nello stesso tempo a descrivere una storia ideal eterna, sopra la quale corrono in tempo le storie di tutte le nazioni ne’ loro sorgimenti, progressi, stati, decadenze e fini” (Scienza nuova, 1744). Tutto ciò, come ben sappiamo, è certo regolato dalla provvidenza divina, ma proprio i caratteri della storia, incardinati nella natura umana e nel suo esplicarsi nelle forme di incivilimento politico e sociale, fanno si che la scienza della quale vuole ragionare Vico si presenti come una “teologia civile ragionata della provvedenza divina” (Scienza nuova, 1744). Si ripropone qui, ancora una volta, il problema della provvidenza.
Il problema di Vico, dunque, non è quello di negare l’universalità delle forme in cui si manifesta (attraverso l’eterna ragione) la presenza divina nel mondo, e neanche quello di sostituire a essa una universalità o logica o naturale di segno opposto. Si tratta, piuttosto, di muovere dalla scoperta di una universalità propria del mondo umano che, per essere esperita e compresa, ha bisogno di strumenti conoscitivi (oltre che di esperienze) che non possono essere analoghi a quelli della fisica e della metafisica. Il concetto è espresso in modo inequivocabile nel capoverso conclusivo della spiegazione della “Dipintura”. C’è sempre un ordine finalistico che sovrasta ogni cosa e che prefigura in sé le tappe del percorso che le menti umane devono seguire per innalzarsi al cielo. E, tuttavia, questo percorso passa per fasi e per “mondi” distinti. Nella Scienza nuova del 1744, infatti, Vico afferma: “Tutti i geroglifici che si vedono in terra dinotano il mondo delle nazioni [come si vede il tragitto delineato da Vico inizia dal livello più terrestre e vicino alla realtà dell’uomo], al quale prima di tutt’altra cosa applicarono gli uomini. Il globo ch’è in mezzo rappresenta il mondo della natura, il quale poi osservano i fisici. I geroglifici che vi sono al di sopra significano il mondo delle menti e di Dio, il quale finalmente contemplarono i metafisici” (Scienza nuova, 1744,). Vico appare dunque consapevole della sua scoperta, di quell’argomento “e nuovo e grande”, a lungo trascurato dai fisici che si sono applicati al solo mondo naturale e dai filosofi che hanno contemplato il mondo nella sua sola parte metafisica, trascurando questo nuovo e inesplorato mondo della storia e delle civiltà umane.
Giambattista Vico
Memoria e conoscenze
Principî di scienza nuova
Abbiamo dedotto le conoscenze dalle nostre facoltà. La storia proviene dalla memoria; la filosofia dalla ragione; la poesia dall’immaginazione. È una distribuzione feconda che vale anche per la teologia stessa, perché in questa scienza i fatti sono storia e si riferiscono alla memoria, senza eccettuare neanche le profezie, le quali non sono altro che una specie di fatto storico, ove il racconto precede l’avvenimento; i misteri, i dogmi, i precetti provengono dalla filosofia eterna e dalla ragione divina; e le parabole, una specie di poesia allegorica, dalla immaginazione ispirata.
Così abbiamo visto sgorgare le nostre conoscenze le une dalle altre; la storia si è suddivisa in ecclesiastica, civile, naturale, letteraria, ecc. La filosofia in scienza di Dio, dell’uomo, della natura, ecc. La poesia in narrativa, drammatica, allegorica, ecc. Donde teologia, storia naturale, fisica, metafisica, matematica, ecc., metereologia, idrologia, ecc., meccanica, astronomia, ottica, ecc. insomma, una moltitudine innumerevole di rami e branche, di cui la scienza degli assiomi o delle proposizioni evidenti di per se stesse dev’essere considerata, nella sua rappresentazione sintetica, come il tronco comune.
Giambattista Vico, Opere filosofiche a cura di N. Badoloni e P. Cristofolini, Firenze, Sansoni, 1971
Giambattista Vico
Sulle sepolture
Principî di scienza nuova
[...] truoverassi che le razze, prima di Cam, poi di Giafet e finalmente di Sem, élleno, senza la religione del loro padre Noè, ch’avevano rinniegata (la qual sola, nello stato ch’era allora di natura, poteva, co’ matrimoni, tenergli in società di famiglie) essendosi sperdute, con un errore o sia divagamento ferino, dentro la gran selva di questa terra, per inseguire le schive e ritrose donne, per campar dalle fiere (delle quali doveva la grande antica selva abbondare), e, sì sbandati, per truovare pascolo ed acqua, e, per tutto ciò, a capo di lunga età essendo andate in uno stato di bestie, quivi, a certe occasioni dalla divina provvedenza ordinate (che da questa Scienza si meditano e si ritruovano), scosse e destate da un terribile spavento d’una da essi stessi finta e creduta divinità del Cielo e di Giove, finalmente se ne ristarono alquanti e si nascosero in certi luoghi; ove, fermi con certe donne, per lo timore dell’appresa divinità, al coverto, coi congiungimenti carnali religiosi e pudichi, celebrarono i matrimoni e fecero certi figliuoli, e così fondarono le famiglie. E, con lo star quivi fermi lunga stagione e con le seppolture degli antenati, si ritruovarono aver ivi fondati e divisi i primi domini della terra i cui signori ne furon detti giganti (ché tanto suona tal voce in greco quanto figliuoli della terra, cioè discendenti da’ seppelliti), e quindi se ne riputarono nobili, estimando, in quel primo stato di cose umane, con giuste idee, la nobiltà dall’essere stati umanamente eglino generati col timore della divinità. [...] Or tai giganti, con ragioni come fisiche così morali, oltre l’autorità dell’istorie, si truovano essere stati di sformate forze e stature; le quali cagioni non essendo cadute ne’ credenti del vero Dio, criatore del mondo e del principe di tutto l’uman genere Adamo, gli ebrei, fin dal principio del mondo, furono di giusta corporatura. Così (dopo il primo d’intorno alla provvedenza divina, e ’l secondo il qual è de’ matrimoni solenni) l’universal credenza dell’immortalità dell’anima, che cominciò con le seppolture, egli è il terzo degli tre principî, sopra i quali questa Scienza ragiona d’intorno all’origini di tutte l’innumerabili varie diverse cose che tratta.
Giambattista Vico, Opere, a cura di A. Battistini, Milano, Mondadori, 2001