GIAMBERTI, Francesco, detto Francesco da Sangallo o Il Margotta
Figlio dello scultore e architetto Giuliano e di Bartolomea Picconi, nacque a Firenze il 1° marzo 1494 nella dimora di famiglia in Borgo Pinti (Clausse, p. 140). Educato giovanissimo allo studio delle arti plastiche e dell'architettura, si trasferì nel 1504 a Roma, dove il padre, chiamato da papa Giulio II Della Rovere, aveva ottenuto incarichi importanti, connessi soprattutto a progetti destinati alla nuova basilica di S. Pietro. Nel 1506 (Fea, p. 329) il G. ebbe la possibilità di assistere ad alcuni scavi archeologici e al rinvenimento, nell'area di S. Maria Maggiore, del celebre gruppo marmoreo del Laocoonte. La lunga frequentazione di Michelangelo, attivo a Roma nello stesso periodo, dovette segnare marcatamente il linguaggio del G., come attesta l'analisi stilistica delle sue prime opere. Utile ai fini dell'istruzione del giovane G. risultò ancora lo studio delle sculture dello zio Antonio e la conoscenza delle statue di Andrea Contucci, detto il Sansovino, e di G.F. Rustici. Rientrato in Toscana in seguito alla morte del padre (avvenuta nel 1516), si orientò, per un breve periodo, anche verso la pittura, tessendo legami soprattutto con Andrea del Sarto e Piero di Cosimo (Clausse, p. 141).
È probabile che a questo tempo risalga l'esecuzione di un tondo in marmo con La Madonna e il Bambino "la qual opera egli donò à Papa Leone, e ne fu da lui largamente repremiato" (Borghini, p. 540). Ispirata in parte alle celebri Madonne Pitti e Taddei di Michelangelo, la scultura, tuttora non identificata, fu scolpita entro il 1521, anno di morte del pontefice destinatario del tondo.
Agli inizi dell'attività del G. risale la statua lignea con S. Maria Maddalena orante, proveniente dalla pia casa di S. Ambrogio e conservata al momento nella chiesa di S. Stefano al Ponte a Firenze (Darr - Roisman). Datata 1518, ma non firmata, la scultura, di forte impronta ascetica e priva di ostentazioni edonistiche, si qualifica per il crudo realismo espressivo intriso di passionale spiritualità, memore dei precetti del tardo Donatello e non esente dalle suggestioni pittoriche di Filippino Lippi di ambito savonaroliano.
Prossimo a questa immagine risulta l'intrigante S. Giovanni Battista nel deserto nel Museo nazionale del Bargello a Firenze, databile alla prima metà del terzo decennio del Cinquecento (Kaufmann).
Già attribuita a Donatello e poi a Michelangelo, l'opera rivela un modellato aspro e quasi spigoloso, utilizzato per acuire magistralmente le sofferenze e le privazioni patite dal santo durante il suo eremitaggio. La resa esageratamente sottile e quasi legnosa del corpo, unita alla velata inquietudine dello sguardo, apparenta la statua, più che alla scultura toscana coeva, ai nuovi orientamenti pittorici perseguiti da artisti come il Rosso Fiorentino, in opere quali il Matrimonio della Vergine in S. Lorenzo a Firenze, del 1523 circa. Sulla traccia di indagini critiche circostanziate è da rilevare che la scultura, più di altre del G., dichiara "un'adesione consapevole e coerente alle istanze linguistiche della nuova maniera… espresse qui con una drasticità rigorosa fino al punto di conferire alla figura quell'aspetto complessivamente non armonico e comunque inquieto che è il segno della sua modernità" (Paolozzi Strozzi, p. 366).
Tra il 1522 e il 1526 il G. fu impegnato nell'esecuzione del gruppo marmoreo raffigurante S. Anna con la Madonna e Gesù Bambino per la chiesa fiorentina di Orsanmichele (Heikamp, 1977). L'opera, preceduta da un modellino preparatorio, comprensivo di due angeli poi non inclusi nella redazione finale, fu commissionata per sostituire una scultura lignea trecentesca, oggi sconosciuta. Tra i precedenti iconografici importanti per la scultura del G., il cui soggetto fu molto diffuso in ambito toscano soprattutto all'inizio del XVI secolo, si ricordano in particolare il cartone leonardesco (Londra, National Gallery, 1501) e il gruppo statuario di A. Sansovino in S. Agostino a Roma (1512).
In stretta sintonia stilistica con il marmo di Orsanmichele è da collocare la statua con la Vergine con Gesù Bambino in S. Maria a Petrazzi, in Valdelsa, ascritta al G. da Zeri e connotata da richiami lessicali connessi alla "ripresa del naturalismo quattrocentesco" di Desiderio da Settigano e del Sansovino.
Di difficile collocazione cronologica, ma certamente contenibile nel primo tempo di attività del G., risulta il Crocifisso ligneo nel convento delle oblate in S. Maria Nuova a Firenze (Lisner, 1969, pp. 203-207; 1970, pp. 92 s.), mutuato da prototipi legati per lo più allo zio Antonio Giamberti.
Dopo aver eseguito nel 1522 la medaglia di Giovanni dalle Bande Nere, condottiero delle truppe fiorentine e padre del futuro duca Cosimo I de' Medici, il G. ebbe l'incarico di eseguire un busto marmoreo (Firenze, Museo nazionale del Bargello) raffigurante lo stesso personaggio, morto prematuramente nel 1526 (Middeldorf, 1938, pp. 113 s.). L'opera, una delle più apprezzate della ritrattistica sangallesca, si segnala per l'"interpretazione consapevolmente "eroica" e idealizzata" della figura (Paolucci, pp. 199 s.), il cui volto è segnato dallo sguardo fiero e austero. Databile tra la fine del terzo e l'inizio del quarto decennio, il busto sembra attestare assonanze tipologiche soprattutto con la pittura locale contemporanea e in particolare con i ritratti di Iacopo Carrucci, detto il Pontormo.
Oltre che come scultore, il G. fu impegnato attivamente, a partire dalla metà del terzo decennio, come architetto civile e militare. Risalgono al 1528-29 la sua partecipazione ai nuovi progetti di allestimento e ristrutturazione dei bastioni delle città di Prato e Pistoia (Clausse, p. 160) e al 1530, dopo la resa di Firenze, il suo intervento nel ripristino delle fortificazioni della città (Milanesi, in Vasari, IV, pp. 289 s. n. 5) e alcune allogazioni inerenti la "fabbrica del Ponte" a Fucecchio (Gaye, pp. 220 s.).
Alcuni equivoci attributivi in questo settore sono imputabili alla presenza di un cugino pressoché omonimo, Giovan Francesco da Sangallo, architetto attivo all'inizio del Cinquecento.
Ombre di incertezza, oltre che in campo architettonico, avvolgono la figura del G. relativamente ad alcune opere scultoree. È questo il caso di tre rilievi marmorei eseguiti per la Santa Casa di Loreto, già messi in relazione nelle fonti antiche, talvolta con errata lettura dei temi iconografici, con il nome dell'artista.
In base a importanti referti archivistici, rintracciati da K. Weil-Garris, si sa che il "Francesco da Sangallo" operante nel celebre santuario mariano portava stranamente il patronimico di Vincenzo e non di Giuliano. È possibile tuttavia che si tratti di un errore documentario, dato che le fonti tacciono circa un artista omonimo contemporaneo e che l'analisi stilistica delle opere rivela forti analogie con il lessico del G., tanto da lasciare, al riguardo, pochi margini di incertezza attributiva.
Tra il 1531 e il 1533 sono registrati i conti per l'esecuzione dei rilievi marmorei, i più importanti dei quali, la Morte della Vergine e la Traslazione della Santa Casa, furono condotti con la collaborazione di N. Tribolo. Oltre a questi è da ricordare il Censimento, opera di formato più piccolo e d'impianto coreografico meno articolato. Deferenti verso le formule adottate dal Sansovino, autore delle prime composizioni eseguite per l'arredo scultoreo della chiesa loretina, i rilievi presentano caratteri linguistici particolari, che alternano retaggi filologici ispirati all'antichità classica e riflessioni sulla cultura quattrocentesca fiorentina rivitalizzata sull'esempio michelangiolesco. Vasari (IV, p. 518) assegnava impropriamente al G. la Visitazione, documentata invece come opera certa di Raffaello da Montelupo (Weil-Garris, I, pp. 257 s.). Oltre ai rilievi citati, alcuni pagamenti rendono nota la realizzazione di un "puttino et… altro" e dell'"ornamento della cappella con l'istoria della venuta de la madonna" (ibid., II, nn. 656, 665).
Ultimata la permanenza nelle Marche, il G. rientrò in Toscana, dove nel 1536, in occasione dell'ingresso ufficiale dell'imperatore Carlo V a Firenze, eseguì le statue con la Giustizia e la Prudenza, oggi perdute, destinate a uno degli arredi effimeri allestiti all'interno della città (Vasari, VIII, pp. 259 s.). Poco tempo più tardi, entro il 1538, realizzò il bronzo con S. Giovanni Battista, conservato presso la Frick Collection di New York.
La statuetta, la sola opera metallica di grande o medio formato riferibile con certezza al G., fu collocata in origine sul fonte battesimale della chiesa di S. Maria delle Carceri a Prato, da dove fu rimossa alla fine dell'Ottocento e sostituita con una copia nel 1902. Di questa composizione è nota anche una replica con leggere varianti, apparsa sul mercato antiquario sotto il nome dell'artista (Hayot).
Intorno al 1540 si colloca la tomba della badessa Colomba Ghezzi del Museo Bardini a Firenze, già in S. Martino alla Scala (Middeldorf, 1935, p. 405), formulata su uno schema semplice di chiara impronta quattrocentesca.
All'inizio del quinto decennio del Cinquecento, il G. effettuò soggiorni più o meno lunghi a Napoli, dove eseguì inizialmente, con l'ausilio di Bernardino del Moro, il Monumento funebre di Antonio Fiodo nella chiesa di Monteoliveto. A questo seguì la decorazione di una cappella nella chiesa dei Ss. Severino e Sossio, rimossa in età successiva, allogata dai conti Della Saponara. La ricca documentazione su questo edificio ecclesiastico consente di acquisire informazioni importanti, che gettano luce sulle fasi esecutive dell'arredo ornamentale e precisano i tempi operativi del Giamberti. Si sa, così, che nel 1543 il G., con la collaborazione di M. Quaranta, si impegnava a realizzare nella tribuna della cappella una serie di figure di stucco, tra le quali "quattro sibille, 4 profeti, 4 evangelisti… in mezo fra le fenestre…et fra li angeli degli archi… figure de serafini q.nti serano necessarie in detta tribuna incomenzando dala punta de ditta tribuna fino alla cornice de marmore". E che inoltre "tutti li campi di detta tribuna dove serano serafini et altre figure… bisognerà ponerli de azuro…" (Pessolano, pp. 207, 216). Il ricco arredo decorativo, come traspare ancora dai documenti, fu ultimato entro il 1546, anno dei pagamenti complessivi ai due scultori.
In occasione di uno dei rientri in patria, al tempo delle commissioni partenopee, il G. ebbe modo di eseguire l'Autoritratto a bassorilievo in marmo bianco, donato come ex voto alla chiesetta di S. Maria Primerana a Fiesole (Middeldorf, 1938, pp. 123 s.). L'opera, provvista di iscrizione con il nome e la data 1542, rappresenta una delle immagini più note del G. e il prototipo per tre medaglie datate 1551: una realizzata in coppia con il ritratto della moglie, Elena Marsupini, e due recuperate in occasione di scavi ottocenteschi in S. Croce a Firenze (Armand, 1883, pp. 235, 239).
Apprezzato dai Medici per la scultura e "similmente" l'architettura (Vasari, VII, p. 624), il G. fu nominato nel 1543 dal duca Cosimo I, dopo la morte di Baccio d'Agnolo, capomastro della cattedrale di S. Maria del Fiore a Firenze (Clausse, p. 168): qualifica che mantenne fino al termine della sua vita. Per questo edificio, tra gli altri incarichi, seguì personalmente il lungo lavoro di pavimentazione, condotto a termine solo nel 1560 (Heikamp, 1957, p. 159).
Come architetto fornì i progetti e sovrintese ai lavori di costruzione del campanile di S. Croce a Firenze, iniziati nel 1549 (Clausse, p. 179).
Dopo diversi incarichi in campo architettonico, il G. si dedicò al Monumento funebre del vescovo Angelo Marzi, ultimato nel 1546 ed eretto nel santuario servita della Ss. Annunziata a Firenze (ibid., pp. 171-177). Il ritratto dell'alto prelato, una delle personalità più eminenti dell'entourage mediceo, è caratterizzato da una forte carica psicologica. L'opera, realizzata con superba maestria esecutiva, è stata minuziosamente descritta da Venturi (pp. 250 s.), che nota come il G. miri "ad effetti di colore col movimento delle superfici tormentate, valendosi delle carni affloscite, delle stole auree, delle pieghe sfatte e arruffate, di tutti i particolari d'un realismo crudo e materiale" e aggiunge che "par che la sostanza marmorea, ammollita in pasta, non serbi più la propria natura".
Dopo questo inquietante "mausoleo", il G. diede inizio al capolavoro della sua attività funeraria: il Monumento del vescovo Leonardo Buonafé nel capitolo della certosa del Galluzzo a Firenze (Chiarelli, pp. 287 s.).
Il motivo di questo insolito sepolcro, a metà strada tra una lastra tombale e un monumento funebre, è da ricercarsi con probabilità nelle tradizioni funerarie certosine, che prevedono il semplice interramento dei defunti. La scelta del luogo e la tipologia della tomba manifestavano in modo esplicito la devozione del Buonafé, già priore al Galluzzo e poi spedalingo di S. Maria Nuova a Firenze e vescovo di Cortona, per questo monastero e ordine religioso.
Documentazioni del 1539, rendono noto che in tale anno lo stesso Buonafé seguì di persona i progetti del suo monumento funebre, affidando inizialmente al G. la realizzazione del pavimento in marmi policromi. Sconosciuti risultano, invece, i referti archivistici connessi all'esecuzione del ritratto in marmo, collocato al centro del pavimento intorno alla metà del secolo, in un tempo di poco posteriore alla morte del vescovo, avvenuta nel 1545. Un disegno autografo del G. conservato nelle raccolte del British Museum di Londra (n. 1946-7-13-5), che ritrae dal vero il volto del defunto, testimonia la fase preliminare connessa probabilmente all'esecuzione della scultura.
Definita con ovvi intenti naturalistici, l'opera raggiunge virtuosismi particolari nella resa incisiva delle mani e nella fisionomia del volto, dai tratti quasi taglienti e dall'intricata ragnatela di rughe, e nella doviziosa descrittività delle vesti e delle stoffe, evidenti nella definizione quasi tattile delle pieghe dei panneggi e nell'eccentricità del cuscino di broccato.
L'abilità del G., come è stato acutamente osservato, risulta palese "nella capacità di giungere attraverso esatte connotazioni realistiche, alla creazione di un ritratto altamente idealizzato, la cui espressione è serena e distaccata" (Chiarelli, p. 288). Formulato su uno schema tipologico che non trova riscontri nella scultura di altri maestri italiani del tempo, il sepolcro è stato comparato, per dignità e monumentalità, a rinomati prototipi quattrocenteschi, come il Sepolcro di Innocenzo VIII di Antonio del Pollaiolo in S. Pietro a Roma (Middeldorf, 1938, pp. 128 s.).
Sulla scia di quest'opera è stato avanzato, in via puramente propositiva, il nome del G. anche per la Lastra tombale del cardinale Angiolo Acciaiuoli, sempre alla certosa del Galluzzo (Chiarelli, pp. 277 s.). Già avvicinata al linguaggio di G. Bandini e di Raffaello da Montelupo, la scultura, databile alla metà del Cinquecento, attesta un gusto rétro di chiara impronta arcaicizzante, del tutto desueto nell'arte fiorentina contemporanea.
Una lettera inviata nel 1546 al G. da Niccolò Martelli, in rapporto alla fusione di una medaglia con la propria effigie (Heikamp, 1958, p. 39), consente di fissare in tale anno il termine ante quem per l'esecuzione di una delle opere marmoree più importanti dello scultore. Si tratta della "Madonna di più che di mezzo rilievo col putto che li rivolge le carte che ella tiene in mano", menzionata dettagliatamente nella biografia dell'artista redatta da Borghini (p. 541), secondo cui l'opera, rimasta proprietà del G., fu venduta dopo la sua morte ad Alfonso Strozzi. Sebbene ancora sconosciuta, la scultura è da avvicinare con probabilità a un raffinato rilievo in terracotta conservato a Berlino (Heikamp, 1958, p. 35), forse uno studio preliminare, connotato da caratteri stilistici oscillanti tra la grazia sansoviniana e la solida plasticità michelangiolesca.
Un lungo lasso di tempo, dovuto essenzialmente alla mancanza di finanziamenti adeguati e continui, richiese l'esecuzione delle statue e dei rilievi istoriati destinati al Monumento funebre di Piero de' Medici, detto Il Fatuo nella badia di Montecassino. Nel sepolcro, eretto su progetti dei fratelli Antonio il Giovane e Battista da Sangallo e destinato ad accogliere le spoglie dello sfortunato figlio primogenito di Lorenzo il Magnifico già da tempo inumato nei sotterranei dell'edificio, era stato previsto, fin dalle origini, l'inserimento di parti figurate. Il G. eseguì le statue del defunto, dei santi Pietro e Paolo e il rilievo con il Cristo risorto, e affidò, al contempo, a M. Quaranta la realizzazione dei bassorilievi destinati ai riquadri dello zoccolo.
Da alcune notizie epistolari del 1548 si sa che il G., appena dato inizio alle sculture, fu costretto a sospenderne l'esecuzione per "diatribe" insorte tra i monaci della badia e il duca Cosimo I de' Medici, responsabile del proseguimento dei lavori al sepolcro dopo la morte di papa Clemente VII, committente dell'opera (Gaye, pp. 356 s.; Milanesi, in Vasari, IV, p. 287 n. 5). Sebbene la traslazione dei resti mortali di Piero fosse avvenuta nel 1552, le statue giunsero da Firenze solo nel 1558, dopo un viaggio effettuato parzialmente via mare dal porto di Livorno; e l'anno successivo fu portata a termine la realizzazione del monumento (Clausse, p. 200). Non catalogabili tra le opere migliori del G., le statue di Montecassino, deferenti alle formule del Sansovino e mutuate in parte da prototipi antichi, si segnalano comunque per la resa vigorosa delle figure degli apostoli e per l'interpretazione malinconica di Piero de' Medici, intrisa di humana fragilitas. Questi, seduto mollemente sul sarcofago, evoca soprattutto immagini codificate nell'iconografia sacra, connesse in prevalenza a episodi legati alla Passione di Cristo.
Nel sesto decennio il G. fu molto impegnato tra progetti scultorei di vario genere, incarichi civili e militari e nell'esecuzione di medaglie commemorative.
Risalgono al 1552 la realizzazione di una fontana per la villa di papa Giulio III a Roma e al 1553 la nomina a sovrintendente delle mura fiorentine presso porta S. Croce in occasione della guerra di Siena (Clausse, pp. 193-197).
Del 1551 è la medaglia di Lelio Torelli, nota in varie redazioni, e del 1555 la medaglia di Gian Giacomo de' Medici, marchese di Marignano, comprensiva, nel rovescio, di una scena allegorica con un cane giacente legato a una palma con il motto "Senis receptis" (ibid., pp. 245-247).
Preceduta da una medaglia, coniata nel 1552, è la statua marmorea raffigurante il vescovo Paolo Giovio, erudito e rinomato collezionista di opere d'arte legato alla famiglia de' Medici, ultimata nel 1560. La scultura, firmata e datata nella parte inferiore, fu collocata nel chiostro della basilica di S. Lorenzo a Firenze nel 1574, nei pressi della porta di accesso alla Biblioteca Medicea Laurenziana (ibid., pp. 243 s. e 205-213 rispettivamente). Inquadrata da imponenti pilastri e collocata entro una nicchia di marmi scuri, l'immagine del religioso, qualificabile per l'accentuato verismo del volto e per la definizione analitica delle vesti e della mitria vescovile, trova assonanze stilistiche più o meno dirette con alcuni esempi michelangioleschi e con le formule compositive adottate da scultori fiorentini coevi come Iacopo Tatti, detto il Sansovino e B. Ammannati.
L'età avanzata e alcuni problemi sorti all'interno della famiglia contribuirono a segnare quasi una battuta d'arresto nell'attività estrema del Giamberti. Dopo aver realizzato nel 1570 la medaglia dei duchi Alessandro e Cosimo I de' Medici, il G. si dedicò alla realizzazione del Ritratto di Francesco del Fede per la chiesa fiesolana di S. Maria Primerana: l'ultima opera oggi nota riferibile al suo catalogo (Middeldorf, 1938, p. 130). Realizzata nel 1575 come ex voto, la scultura si segnala per un modellato dolce e quasi arrotondato che tende a stemperare la forte tensione emotiva ricorrente nei ritratti precedenti dell'artista, conferendo all'effigie un'aura di intensa serenità.
Prossimo alla morte il G. fece redigere dal notaio C. Campani un dovizioso testamento in data 24 sett. 1574, al quale ne seguì un secondo stilato il 26 genn. 1576. Oltre agli ovvi lasciti destinati a luoghi di culto cittadini e alla servitù, i due rogiti gettano luce sull'ambito famigliare dell'artista e sull'entità dei suoi beni. Apprendiamo così che il G., in mancanza di figli avuti dalla consorte, nominava come erede universale il figlio naturale Clemente, legittimato nel 1559 con decreto mediceo, a quel tempo imprigionato nelle "galere di Sua Altezza Serenissima". Di particolare interesse risultano alcune notizie relative alle opere conservate nella sua abitazione. Impartendo accurate disposizioni, il "testatore volse et ordinò che al più lungho infra sei mesi dal dì della morte di detto testatore, tutti i quadri di scultura o pittura o prospettive o figure di bronzo o di marmo antiche e moderne, o pietre antiche e moderne, lavorate o non lavorate, e medaglie, statue di legnio, o di modegli d'architettura, o ferramenti per marmo e per legnio, si devino… vendere nel miglior modo… per essere più utile all'heredità di esso testatore", e con l'intervento di "Monna Lena", sua moglie, destinati "al sopradetto Clemente in quel luogho dove si troverà" (Darr - Roisman, pp. 790-793).
Il G. morì a Firenze pochi giorni dopo aver fatto redigere il secondo testamento e seguendo le sue disposizioni fu sepolto, il 17 febbr. 1576, nella basilica di S. Maria Novella.
Artista di non facile inquadramento stilistico e caratterizzato da un lessico espressivo di notevole originalità, il G. rivestì un ruolo importante e forse primario nell'evoluzione della ritrattistica scultorea fiorentina del Cinquecento, formulando immagini inedite oscillanti tra crudo verismo e astrazione idealizzata. La lunga protezione offerta da casa Medici contribuì a favorire la fortuna del G., attestata, oltre che dalle pressanti richieste di statue ufficiali e di monumenti funebri, da progetti architettonici connessi all'edilizia civile cittadina e militare. Apprezzato dai critici del tempo, fu menzionato da Vasari come uno dei rappresentanti di spicco tra gli accademici del disegno.
Il soprannome Margotta, con il quale è talvolta ricordato, allude al fatto di essere stato l'ultimo germoglio di una nota famiglia di scultori e architetti, punto di riferimento imprescindibile per lo studio delle arti in Toscana tra Quattro e Cinquecento.
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