CONFORTI, Gian Francesco
Nacque a Calvanico, un piccolo paese a pochi chilometri da Salerno, il 7 genn. 1743. Era il secondogenito di una modesta famiglia della piccola borghesia. Dimostrando promettenti qualità nello studio, il giovane fu avviato alla carriera ecclesiastica, che era la via più facile per conseguire, soprattutto in provincia, una qualche posizione di prestigio sociale e intellettuale. Tra gli undici e i dodici anni il C. entrava perciò nel seminario arcivescovile di Salerno, e nel 1766 era consacrato sacerdote.
Un passo decisivo fu il trasferimento a Napoli, che avvenne sul finire degli anni Sessanta e che permise forse al C. di assistere a qualcuna delle ultime lezioni del Genovesi; in ogni caso il pensiero di questo ebbe non poca influenza sui suoi orientamenti. Il trasferimento a Napoli sarebbe ancor più significativo se, come accenna qualche biografo, il C., pur di recarvisi, rifiutò una cattedra di filosofia che già gli sarebbe stata offerta nel seminario di Salerno. A Napoli egli aprì uno studio privato di diritto civile e canonico, e delle sue lezioni è rimasta testimonianza in alcuni manoscritti conservati presso la Biblioteca della Società napoletana di storia patria (appunti e schemi di corsi).
Preparava intanto un lavoro di teologia che gli avrebbe procurato una certa notorietà, aprendogli la strada all'insegnamento universitario. L'opera (InTheologiam et divinam oeconomiam volumen parascevasticumDeveritate Christianae Religionis et Theologicis locis sive Universae Theologiae dogmaticae Institutiones Mathematicum fere in morem adornatae, Neapoli 1771) fu significativamente dedicata a F. Vargas Maciucca, alto magistrato, impegnato nella difesa della giurisdizione regia contro la Curia di Roma.
Nel 1774 il C. è prefetto e catechista del Real Convitto della Nunziatella, una carica di rilievo, data l'importanza attribuita dal sovrano e dal governo a questa nuova istituzione. Ma un riconoscimento particolarmente ambito egli ottenne nel 1777 quando fu chiamato ad insegnare storia sacra e profana nella regia università degli studi. A maggiore responsabilità fu assunto nel 1779 quando gli fu conferita la nomina anche alla cattedra di storia dei concili. La cattedra era stata istituita su suggerimento del Genovesi nel clima teso dei rapporti tra Stato e Chiesa e tendeva a diminuire il prestigio dell'antico insegnamento delle Decretali e quasi a contrapporsi ad esso. La nomina è significativa perché prova che il C. era già allora nettamente schierato tra i regalisti e i riformatori cattolici e disposto a sfidare l'autorità assoluta dei pontefici, i quali, per evidenti ragioni, non vedevano con simpatia l'insegnamento di una materia che forniva occasioni e spunti a precisare i limiti del primato e della superiorità della Chiesa romana. Che il favore del governo e della corte andasse al C. piuttosto che "agli emuli della fazione vaticana" lo conferma il fatto che egli chiese ed ottenne, nonostante le proteste di don Carmine Fimiani, "professore di Decreto", che la sua cattedra fosse riconosciuta come "primaria, tuttoché unita a quella delle storia sacra e profana".
Gli studi teologici e giuridici del C. si conclusero con la pubblicazione della sua opera maggiore (Antigrotiusqui complectitur prolusionem, et exercitationes criticas XII totidem Grotiànis capitibus oppositas. Sequitur una in Blondelium exercitatio, Neapoli 1780), cioè la confutazione del De Imperio. summarum porestatum circa sacra, dell'arminiano olandese.
La polemica contro le teorie del Grozio ha dato luogo a qualche equivoco e ha fatto talora annoverare il C. tra gli scrittori perfettamente ortodossi e addirittura curialisti. Ma il pensiero del teologo è ben compreso dai suoi contemporanei e valga per tutti l'affermazione di G. M. Galanti, che a sostegno della tesi della separazione di poteri tra sacerdozio e imperio cita l'Antigrotius, "dove con molta erudizione e sapere [il C.] espone, come il sacerdozio, che per legge naturale e politica sembra essere unito all'impero, è stato separato prima dalla legge mosaica e poi dalla legge evangelica" (Descrizione delle due Sicilie, I, Napoli 1786, p. 305). Il C. combatte dunque le idee dell'arminiano basandosi sul principio della netta separazione del potere temporale e spirituale; principio che non poteva certo essere condiviso pienamente dai curialisti e che era, anzi, punto di partenza necessario per la polemica anticuriale.
Dopo la pubblicazione dell'Antigrotius, il C., assorbito dall'insegnamento universitario, e da varie incombenze di carattere pratico connesse alla fase più acuta del contrasto tra Chiesa e Stato, non pubblicò altre opere di rilievo, né portò a termine il disegno della sua opera teologica, annunziato nel volume del 1771. Il piano prevedeva almeno due altri volumi, il secondo dedicato a Dio e ai suoi attributi e alla Trinità; il terzo alla incarnazione, alla grazia, ai sacramenti. Rimane tuttavia per gli anni successivi al 1780 un importante manoscritto (De Conciliis) che può ritenersi traccia abbastanza ampia e fedele delle lezioni tenute come professore di storia dei concili. Questo testo, nei suoi rapporti con la giovanile In Theologiam e con l'Antigrotius, consente di comprendere con quali conoscenze e convinzioni egli partecipasse alla battaglia regalista e da quali motivi e aspirazioni fosse indotto ad appoggiare i diritti del sovrano contro le posizioni della Curia romana. Nel manoscritto degli anni Ottanta certamente il pensiero è più maturo e l'espressione più esplicita. Il fatto stesso che si trattasse di lezioni consente una maggiore libertà, che nelle opere a stampa avrebbe potuto comportare qualche rischio di censura ecclesiastica. Nel complesso tuttavia la posizione del C. e quasi sempre misurata e prudente.
"La Chiesa è stata creata - egli afferma nel De Conciliis (ff. 19-12) - per tener viva la religione, cioè il culto del vero Dio e per amministrare i sacramenti. La religione risiede nella mente e non può essere governata e propagata con mezzi politici. Né Cristo né gli apostoli rivendicarono a sé il potere temporale; essi si riservarono il compito di insegnare e diffondere la fede. Se, dunque, la religione non è tra quelle cose che si amministrano con le leggi civili, è chiaro che la Chiesa non è res publica, né status politicus. Perciò tutti gli attributi dello Stato non si possono adattare alla Chiesa. Sono fuori strada quei teologi che si affannano a dimostrare che la Chiesa è retta da un governo monarchico, aristocratico o democratico". Una concezione quindi tutta spirituale della Chiesa e della sua funzione. Già nell'Antigrorius, del resto, aveva esposto lo stesso concetto, polemizzando con gli arminiani: "essi concepiscono la religione come uno strumento politico, quae imperio procuranda sit, e i vescovi come funzionari dello Stato: ma non è questa la natura della religione cristiana; la Christiana pietas, che trova posto nella mente, nell'animo, ab omni imperio libera est. La Chiesa è una società spirituale e perciò gli Apostoli si chiamarono Christi administri e servi e non re e imperatori" (I, pp. 64-65). A mostrare la maturazione del pensiero conviene riferire che il C. nella In Theologiam non aveva manifestato la stessa ferma consapevolezza: pur avendo insistito sul carattere spirituale della Chiesa, ricordando le parole di Pietro "arma militiae nostrae non carnalia sunt", si era lasciato trascinare nella disputa sulla forma della Chiesa, sembrando propendere per una monarchia temperata di aristocrazia, seguendo l'autorità di teologi parigini (In Theologiam, pp.371, 453).
Pur nella sostanziale prudenza e nella ricchezza di sfumature è tuttavia possibile trovare un coerente sviluppo nel pensiero del C.; se qualche differenza è da notare è nel tono, dimesso e per nulla polemico nella In Theologiam, più sicuro nell'Antigrotius, aggressivo e polemico, talora, nel De Conciliis. Un punto importante di confronto è la questione del primato della Chiesa romana. Nell'opera In Theologiam il primato di Pietro è ammesso ed anche difeso contro luterani, calvinisti, hussiti (pp. 544 s.), ma è già mantenuto in limiti, che non potevano essere pienamente graditi alla curia. Promettendo a Pietro la potestà delle chiavi, Cristo dava al Princeps apostolorum un segno della sua stima, anche se in quel caso non intendeva parlare solo a Pietro ma a tutti gli apostoli, ai quali, infatti, senza nessuna distinzione, affidò pari potestà. "Non vedo alcuna contraddizione, scrive il C., tra i due passi evangelici, in uno dei quali si dice che le chiavi furono promesse a Pietro, mentre nell'altro si afferma che le chiavi furono date a tutti gli apostoli. Dio, "Petro soli illam potestatem promittens, quam omnibus apostolis ad vitam redux mandavit", volle costituire Pietro "senatus apostolici praesidem". Capo sì, dice il C., ma con poteri assolutamente uguali a quelli degli altri apostoli, e come a Pietro successero i romani pontefici, così legittimi successori degli apostoli sono i vescovi, i quali traggono la loro autorità direttamente da Dio, come lo stesso papa. Il primato di Pietro sarebbe stato sostanzialmente istituito per conservare visibilmente l'unità della Chiesa, come dice Girolamo, "ut capite constituto schismatis tollatur occasio" (In Theologiam, pp. 453, 535, 543, 537 s., 541 s., 544; De Conciliis, ff. 43 s.).
Sull'infallibilità del papa, riprendendo un concetto che era già stato espresso dal Genovesi sulla vacuità nauseabonda delle dispute teologiche, il C. così scriveva: "Quelle questioni molto più note e più celebri se il giudizio del presule romano nei decreti di fede e di costumi sia infallibile, e se la sua autorità sia superiore a quella dei concili ecumenici, questioni che si offrono nelle scuole ai giovani come ghiottonerie, già da tempo sono cibi che danno nausea ai teologi provetti" (In Theologiam, p. 570). Ma se in questo passo non si pronunzia direttamente ed esplicitamente e riporta solo le varie e contrastanti opinioni, là dove si parlava dei concili, già nel 1771 non lasciava adito a dubbi: "Tutti i vescovi chiamati ad esprimere il loro voto nelle riunioni ecumeniche della Chiesa godono di potestà assoluta, tanto che coloro i quali ritengono che la facoltà di vagliare e di decretare spetti soltanto al vescovo della Chiesa romana, mentre gli altri vescovi possono soltanto dare consigli, appaiono dei vergognosi adulatori" (In Theologiam, pp. 518-519). È alla luce di questa netta e precoce affermazione che bisogna interpretare anche i passi meno espliciti. Della superiorità del concilio si trova aperta conferma nell'Antigrotius, dove si adopera l'artificio polemico di attribuire agli arminiani l'opinione che i cattolici siano divisi. Ciò può apparire perché si tien conto delle dispute dei teologi e non dei dogmi fissati dalla tradizione evangelica e dal consenso dei Padri della Chiesa. Punto fermo per i cattolici è questo: "omnium aut fere omnium Antistitum Ordo, qui Ecclesiae personam sustinet, ille est interpres, cognitor et Judex Christianae Religionis". Dalle pagine dell'Antigrotius, pur tra molte ripetizioni di formule scolastiche e tradizionali, risulta abbastanza chiaro lo sviluppo del pensiero del C.; ma nell'inedito De Conciliis, senza più necessità di accorgimenti e mezzi termini, il linguaggio prende calore e forza.
Il problema della infallibilità è posto esplicitamente in termini nuovi: non soltanto l'ordine dei vescovi è il solo interprete della Chiesa; ma perché le decisioni siano infallibili è necessaria la concordia di tutti; se vi è una minoranza dissenziente, la maggioranza non può arrogarsi il diritto di rappresentare infallibilmente la Chiesa. Il C. si pone ormai su un terreno apertamente polemico e riprende motivi chiaramente febroniani, familiari alle correnti dissenzienti e giansenistiche toscane e lombarde. Non manca l'occasione per ribadire con fermezza che i vescovi, successori degli apostoli, ricevono la loro giurisdizione da Cristo e non dal pontefice romano.
Il capitolo di maggiore interesse è quello che s'intitola Dissertatio de novae disciplinae caussis. In esso confluiscono molte delle conclusioni alle quali, sulla base della netta separazione tra Stato e Chiesa e del carattere tutto spirituale della Chiesa, era pervenuta la letteratura giurisdizionalista e regalista degli anni sessanta. La linea del C. è comunque una linea moderata, che non accede ad aperture contrattualistiche e democratiche. Così se le tesi dell'Antigrotius potrebbero per un momento far pensare all'opuscolo La Chiesa e la Repubblica dentro i loro limiti, attribuito a Cosimo Amidei, le distanze, che il C. tiene a ribadire dal Rousseau "cuius per nomen iuranda ponunt ara scelesti in Europa iuvenes" (Antigrotius, p. 241), mostrano la diversa ispirazione e la cautela, per non dire l'ostilità, verso gli sviluppi estremi del pensiero illuministico. Non senza influenza sulla maturazione culturale del C., oltre alla tradizione napoletana, dal Giannone al Genovesi, appaiono le posizioni febroniane, soprattutto quelle di Tommaso Antonio Contin e del gruppo veneto. In seguito si avvicinerà a P. Tamburini, al gruppo di Pavia e di Pistoia.
Il punto di partenza dal quale si sviluppa il discorso è l'affermazione della natura soltanto spirituale della religione e quindi della Chiesa: nessun diritto hanno i ministri religiosi al potere temporale. La degenerazione della primitiva disciplina ecclesiastica è illustrata sulla scorta delle fonti che sono comuni a tutta la letteratura anticuriale. Sostenere "ecclesiam esse civitatem, rempublicam, et statum civile, h. e. societatem imperio regendam" è precisa scelta fatta da quei teologi "qui decretalibus student, atque a partibus Romanae Curiae dimicant" (De Conciliis f. 237). Costoro sostengono che il pontefice romano è il sommo principe della Chiesa con potere assoluto sia temporale che spirituale e ha potestà "diretta" o quanto meno "indiretta" (Bellarmino). Queste opinioni sono confermate con l'autorità delle decretali, le quali, commenta il C., "quod eam rem uti Evangelium evertunt, ita Christianae religioni dedecori sunt et rerum publicarum statum pessumdant" (f. 231).
Quanto al potere spirituale coloro, "qui Decretales in deliciis habent", credono che la potestà di tutte le chiavi e tutta la giurisdizione apostolica siano affidate soltanto a Pietro e quindi al romano pontefice, negando perciò l'autorità preminente dei concili. Le decisioni del concilio di Costanza, ad esempio, furono rifiutate da Roma e dai teologi italiani, mentre furono recepite dalla Chiesa gallicana "in celeberrima declaratione anni 1682". Anche nella In Theologiam e nell'Antigrotius il C. aveva accennato alla dichiarazione gallicana del 1682, ma con equivoca cautela. Ogni equivoco è ormai dissolto, la dichiarazione si rifà ai principi del Vangelo: "Evangelica illa Gallicanae Ecclesiae declaratio".
A mano a mano che la Chiesa da società spirituale si trasformava in Stato temporale, anche i beni ecclesiastici, che prima appartenevano alla comunità dei fedeli, furono trasformati in "beneficia sive feuda". E si indica la ragione per cui l'antica "politica" evangelica delle origini è degenerata: "princeps tantae rei causa fuerunt divitiae, quibus Ecclesiae omnes, ac praecipue Ecclesia Romana affluere coeperunt a temporibus Constantini magni" (f. 247 v) "Ecclesia e coelo delapsa, terram respiciebat". Questo sistema politico-sociale, inventato e costruito dai romani pontefici e che trovò in Gregorio VII uno dei maggiori assertori, conclude il C., è quanto di più nefasto si potesse concepire e per i principi e per la stessa Chiesa di Cristo (ff. 251-252).
La separazione tra Stato e Chiesa comporta la divisione del potere spirituale da quello temporale, entrambi derivanti direttamente da Dio, ma il principe cristiano deve essere considerato come il difensore della Chiesa. Egli non può ingerirsi nelle questioni propriamente spirituali, ma ha il diritto di intervenire in ciò che riguarda l'amministrazione esterna della Chiesa, nella disciplina ecclesiastica. Il principe deve soprattutto badare a che la Chiesa non degeneri e non contravvenga alle massime evangeliche, ai canoni e alla disciplina istituita dai Padri. Siccome suo compito precipuo è di assicurare ai sudditi benessere e tranquillità, egli ha il diritto di esaminare ogni decisione ecclesiastica e di rigettare quelle che, a giudizio suo e dei suoi consiglieri, o siano contrarie al diritto di sovranità temporale o possano turbare l'ordine pubblico. Ha il diritto di convocare i concili, che sono l'organo supremo della Chiesa, ha finanche il diritto di parteciparvi, ma senza alcun potere deliberativo. Queste posizioni decisamente regaliste, nel solco di una tradizione consolidata, erano già presenti nell'Antigrotius, ma vengono con più chiarezza e forza affermate nel De Conciliis.
Il C. considera pressoché nulli i diritti del popolo nella Chiesa e nello Stato. Nella "exercitatio in Blondellum" afferma che i popoli sono l'"oggetto" della predicazione e dell'insegnamento dei pastori, ed è loro dovere ascoltare ed apprendere da questi i sacri precetti. Le teorie del Richer e quelle calviniste della partecipazione dei laici all'amministrazione della Chiesa sono nettamente respinte (Antigrotius, II, pp. 333 ss., p. 360). Un problema che egli si pone nell'Antigrotius è se il popolo debba ubbidire al principe quando questi violi le leggi divine. E risponde che bisogna sempre ubbidire, tranne nei casi nei quali si verrebbe meno alla "pietas". Del resto i sudditi non possono ribellarsi. Debbono piuttosto sopportare leggi inique che prendere le armi contro il sovrano. Questo insegnarono i primi cristiani sopportando con rassegnazione le persecuzioni imperiali (I, pp. 96-97). Il C.respinge egualmente le idee di Grozio sulla tolleranza. Quella "sentiendi libertas in pietatis negotio", porterebbe alla rovina dello Stato e della religione. Si va anche oltre. "Ad Reipublicae tranquillitatem Religio plurimum facit non modo propter praecepta morum, sed etiam prepter cognitionem dogmatum quibus publica et privata civium, vita accomodari solet" (Antigrotius, cap. X, par. 4). I principi cristiani debbono perciò perseguitare e distruggere gli eretici non solo perché così proteggono la religione, ma perché le eresie possono anche turbare la tranquillità dello Stato (ibid., p. LXX).
La concezione politico-religiosa espressa dal C. rendeva il sacerdote salernitano pienamente accetto alla schiera degli anticurialisti, che da più anni avevano intrapreso la battaglia in difesa delle "regalie", dei diritti assoluti del sovrano anche in materia di disciplina ecclesiastica. Un Demarco, un Peccheneda, un Vecchietti non potevano non rallegrarsi di trovare un intelligente e combattivo sostenitore in un dotto sacerdote: il C. divenne ben presto un collaboratore attivo nella lotta anticuriale, non soltanto come docente di storia dei concili. Fu nominato teologo di corte e partecipò alle commissioni (le giunte) che, in quegli anni di frequenti contrasti con la S. Sede, venivano formate per esprimere al re il loro parere sugli affari in discussione. Nel 1783, quando il papa condizionava la nomina di Andrea Serrao come vescovo di Potenza, alla ritrattazione delle sue idee sospette di giansenismo, il C. fu chiamato, insieme col padre Maroni e l'olivetano don Chiliano Caracciolo a pronunziarsi sulla richiesta del pontefice. I teologi la ritennero ingiusta e suggerirono al re, nel caso il papa persistesse nel suo rifiuto di consacrare il Serrao, di convocare un concilio nazionale "nel quale si farebbero ammettere le libertà della Chiesa gallicana, quali ne godeva la Francia prima del concordato di Francesco I, e consacrare non solo l'eletto di Potenza, ma tutti gli altri vescovi nominati dal re, e che Pio VI ricusava di consacrare per conservare un preteso diritto, usurpato sui popoli e sui metropolitani del Regno, ai quali un tempo spettava di eleggere e consacrare i loro vescovi". Sono parole di Forges Davanzati, ma è significativo che, quanto alla chiesa gallicana, esse trasferiscono sul piano della politica le dottrine che il C. professava nelle sue lezioni. Il sovrano mostrava di apprezzarle. Nei primi mesi del 1785 veniva concessa al C. la R. Cappellania laicale di S. Maria a Tebenda nella terra di Castiglione, in diocesi di Salerno. Nel novembre di quello stesso anno, il re nominò "preposto" di Canosa il Forges Davanzati: per la consacrazione si adottò la vecchia disciplina ecclesiastica e fu il C. l'estensore della bolla di adesione che i vescovi furono invitati ad inviare al nuovo eletto. Quando nell'ottobre del 1786 morì il cappellano maggiore Sanchez de Luca, tra i candidati proposti a succedergli dal ministro Demarco figurava, subito dopo il Serrao, il Conforti. Nel riferire alla segreteria di Stato la decisione del re di nominare a quella carica l'ottantaquattrenne monsignor Mazza, vescovo di Castellammare, l'internunzio monsignor Caleppi osservava che la esclusione del Serrao e del C. doveva "renderci molto cara quella scelta" e definiva quest'ultimo "il nemico più scoperto e più acerrimo della Santa Sede". Il C., ancora insieme con il Serrao, fu consigliere e collaboratore del Vecchietti e del Demarco impegnati a negoziare con monsignor Caleppi nelle trattative per il concordato iniziate dal ministro Caracciolo nel 1786. Membro del tribunale al quale era stata rimessa in appello la causa matrimoniale del duca di Maddaloni, il C. viene considerato dal Caleppi l'ispiratore e il vero estensore del Parere dei due teologi di Corte che approvava e difendeva il nuovo ufficio di S. Cataldo composto da monsignor Capecelatro, arcivescovo di Taranto.
Del 1789 è un altro Parere dei teologi di Corte di S.M. Siciliana in risposta a una memoria della Curia romana concernente i diritti del sovrano sul matrimonio dei sudditi cattolici. Se non proprio steso dal C., da lui ispirato appariva l'opuscolo Il Diritto de' Sovrani per la consecrazione dei Vescovi, stampato s. l. nel 1788, senza l'approvazione ecclesiastica. Nel dispaccio del 7 ottobre il rappresentante pontificio scrive alla Segreteria di Stato: "Chiamai il Cestari (il vero estensore del libretto) complice per lo meno delle due accennate stampe, giacché i sentimenti de' quali sono esse informate vengono ancora nudriti da altri non buoni ecclesiastici e particolarmente dal Teologo D. Francesco Conforto, il quale tien cattedra e dogmatizza come ne fanno fede i suoi proseliti che s'imbevono e vanno spargendo le pessime nuove massime". Proprio a questo periodo è da attribuire uno scritto inedito del C. che lascia meglio comprendere il duro giudizio e le preoccupazioni del Caleppi sulla dottrina e l'insegnamento che il teologo professava. Si tratta del manoscritto dal titolo significativo: De Mediis a summis Principibus ineundis pro restituenda et conservanda Ecclesiae disciplina. Conviene ricordare che in quegli stessi anni si manifestavano più attivi che mai giansenisti e filogiansenisti toscani e lombardi e che nel 1786 si era riunito il sinodo di Pistoia.
Dopo aver esposto ancora una volta la degenerazione della disciplina ecclesiastica e i suoi motivi, il C. si fa ora più audace nel proporre i rimedi. Non si tratta soltanto di difendere l'exequatur e di far riconoscere i diritti del sovrano, ora bisogna porre rimedio alla decadenza della Chiesa, bisogna restaurare la sua costituzione. È dovere dei principi intervenire. Essi avrebbero dovuto preparare un codice canonico, espungendo tutti i canoni in contrasto con l'antica costituzione della Chiesa.
È interessante notare che in questa fase il C. fa qualche passo nella direzione di una più attiva partecipazione dei fedeli. Per sradicare gli abusi, egli dice, il primo e più efficace rimedio sta nell'istruire tutti i fedeli nei loro doveri, nell'informarli intorno alla vera origine e alle prerogative del primato romano, e alla riverenza che la stessa S. Sede deve agli antichi canoni. Ma soprattutto bisogna fare appello ai vescovi perché prendano chiara coscienza dei loro diritti, secondo l'antica disciplina della Chiesa, e si convincano intimamente di essere i successori degli apostoli, dai quali traggono direttamente la loro autorità.
I concordati, afferma il C., non sono la via migliore per una soluzione dei gravi problemi della Chiesa. I concordati e le trattative con la Curia romana fanno perdere di vista l'orizzonte universale della riforma della Chiesa. La soluzione migliore sarebbe quella della convocazione di un concilio ecumenico. Se il papa lo rifiutasse, potrebbero essere gli stessi principi a promuoverlo. Ove il concilio ecumenico fosse impossibile, ciascun principe potrebbe riunire tutti i vescovi che amministrano le Chiese nel proprio regno. Non sono da temere scismi, la cui colpa sarebbe non dei re o dei vescovi, ma del papa che rifiutasse il concilio. In alcuni casi infatti, come precisarono i padri dei concilio di Basilea, "iustis ex causis" può venire sottratta l'obbedienza ai romani pontefici.
Emerge in queste pagine la concordanza con le teoriche regaliste dei gruppi giansenisti "ribelli" di Pavia e di Pistoia. Ma non bastano questi punti di contatto per poter affermare che il C. fu giansenista. Due soli riferimenti al giansenismo si trovano nelle sue opere: una prima volta, nell'opera In Theologiam (1771), prende una posizione nettamente ortodossa e accetta - contro le tesi di Febronio - la validità delle condanne pontificie (pp. 531 s.). Ma un giudizio ben diverso traspare dalle parole con le quali nel 1792 egli riassume il pensiero dello Spedalieri: "questi vuole - scrive il C. - che si proscriva il Giansenismo, cioè la dottrina di sant'Agostino, perché i Giansenisti e gli Agostiniani spargono dubbi intorno alla autorità del papa" (Consulta sullo Spedalieri). L'espressione "il Giansenismo, cioè la dottrina di sant'Agostino" è di per se significativa. Egli non accetta più la condanna dei giansenisti. Durante gli anni della lotta contro la Curia il C. aveva certamente modificato qualche aspetto del suo pensiero e se, è improbabile che aderisse alla concezione teologica dei discepoli di Giansenio, ne condivideva certamente lo spirito di ribellione all'assolutismo pontificio e l'esigenza di un ritorno alla disciplina evangelica. L'ammirazione per il vescovo di Pistoia di tutto il gruppo anticurialista napoletano, nel quale è espressamente ricordato il C., è testimoniata nel 1790 da una lettera di G. Gianni a Scipione de' Ricci. Inoltre, è da ricordare che la consulta del C. contro lo Spedalieri fu ispirata dal Troisi, che era tra i napoletani più vicini al vescovo giansenista.
Nei primi mesi del 1791 il C. era così impegnato dalle sue varie incombenze, alle quali si era da poco aggiunta quella pesantissima di "revisore dei libri esteri", che chiese ed ottenne di avere un "interino sostituto" nella cattedra di storia ecclesiastica e dei concili, che potesse far lezione per lui quando era costretto ad assentarsi perché "occupato in altri servigi di S.M. o era indisposto per causa di salute". Aveva scelto un discepolo prediletto, il padre Celestino Teodoro Monticelli, che fu poi figura eminente di patriota e di studioso, rimasto sempre fedele alla memoria del suo maestro.
L'impegno più gravoso fu in quegli anni la revisione dei libri che provenivano dall'estero. Gli eventi rivoluzionari francesi cominciavano a sconvolgere l'Europa e ponevano fine alle illusioni del dispotismo illuminato, spingendo ad un accordo tra i sovrani cattolici e la S. Sede. I regalisti, soprattutto quelli che avevano sostenuto la necessità di una riforma della Chiesa, venivano a trovarsi in una situazione pericolosa. Compito del C. era di rivedere ed esaminare "con ogni diligenza... tutte le casse, le balle, i colli, e gli involti che per la Dogana e per lo Procaccio si immettevano in Napoli". Doveva ispezionare le librerie e curare che non si introducessero "libri malvagi e sediziosi, sotto un titolo ed un frontespizio innocente e di autore cognito ed approvato". Doveva informare il governo dei libri che ritenesse dannosi alla sovranità e alla religione e che dovevano essere sequestrati e banditi. Il C. esercitò con severità il suo ufficio di censore, come ci testimoniano le sue consulte. Ma la posizione sua e dei suoi amici anticurialisti, soprattutto provenienti dalle file ecclesiastiche, divenne estremamente debole dopo che, a partire dal 1791, si delineò un accordo tra Ferdinando IV e Pio VI. Tuttavia ancora nel luglio, del '91, non essendo stato possibile, per il veto pontificio, far passare la candidatura del C. al vescovado, il re ricompensava il suo teologo di corte con l'assegnazione di due terzi delle rendite della r. badia di S. Biagio in Mirabella.
La reazione di Pio VI non si fece attendere e toccava punti delicati e dolenti: "L'articolo della dottrina è interessante, anche solo politicamente per la quiete e sicurezza dello Stato, come, senza riandare ad altri esempi, ci dimostrano le correnti rivoluzioni di Francia, fra le quali si vuole da democratici la libertà di scrivere, e di stampare senza alcuna revisione, tutto ciò che cade in mente a chi ha scosso la soggezione alla Reale Autorità. Ciò non ostante con dispaccio di codesta Segreteria del l'ecclesiastico del 22 del caduto luglio, si torna a commendar per sana e soda la Dottrina dell'olivetano Caracciolo, e gli si assegna una pensione di ducati 290 sulla Abbadia giurisdizionale di S. Biagio di Mirabella, mentre questa si conferisce a D. Francesco Conforto, rimunerando entrambi per i molti fedeli servigi prestati alla Corona e allo Stato in qualità di Teologi di Corte. Ma se lodevoli dichiaransi i servigi dai medesimi prestati, lo saranno stati in senso e soddisfazione de' nemici dichiarati della Chiesa, ma non in vantaggio de' Sudditi, né della Maestà Vostra" (Arch. di Stato di Napoli, Affari Esteri, f. 1452).
Nelle consulte come revisore dei libri esteri l'abate resta coerente ai postulati enunciati nelle sue opere. Condanna le pretese temporali della corte di Roma, la richiesta di annullamento del placet regio e dell'exequatur, e respinge egualmente i libri di Voltaire di Mably, di Rousseau, di Raynal, di Mirabeau, di Bayle e così via.
Mably diffonde in tutte le sue opere sentimenti di uguaglianza e di libertà democratica ed è il maestro dei giacobini. Le sue opere vanno proscritte perché sommo interesse dello Stato è che "da tutti gli organi de' cittadini per effetto di bene intesa educazione si rispetti e si adori la Monarchia come fondata sul diritto divino, e come consagrata da Dio alla felicità de' popoli". Le opere di Bayle, specialmente quando siano lette dai giovani, possono trarli al pirronismo, e quindi all'irreligione. Helvétius è il patriarca dei materialisti. Rousseau è "il principale autore delle nuove massime" e nel Contratto sociale "è il maestro di coloro che incitano le nazioni alla ribellione". La lettura di Voltaire che "si studia di abbattere ogni rivelazione e di stabilire il deismo, è perniciosa allo Stato e alla religione". In alcune opere di Federico II di Prussia si distruggono i principali dogmi della religione cattolica. Raynal è scrittore dannoso alla religione. Thomas Paine è un furioso rivoluzionario. Anche la difesa di Luigi XVI del cittadino Desèze è opera pericolosa perché "per le circostanze, nelle quali si ritrova il difensore s'autorizzano tutti i principi della ribellione francese". E così La Monarchie vengée des attentats républicains modernes, opera scritta per confutare "il diabolico libro di M. de la Vicomterie intitolato Les Crimes des Rois de France... èperniciosa alla vera e perfetta monarchia, perché dall'autore s'imprende a difendere la monarchia organizzata nella Costituzione del 1790, e si assumono e si comprocano quelle medesime massime delle quali si valse l'assemblea costituente". La storia della decadenza e della caduta dell'Impero romano del Gibbon è "perniciosa alla religione cattolica e alle monarchie assolute, che in una nota del sesto volume, con temerità degna di forca, si dicono contrarie alla natura". Il Bruto e la Morte di Cesare di Voltaire, tradotti dal Cesarotti, presentano "i più sediziosi sentimenti di libertà democratiche contro le monarchie". È intollerabile che siano stati tradotti in italiano e pubblicati a Livorno. Ne Il Bruto primo e ne IlBruto secondo "di Vittorio Alfieri d'Asti si commendano come virtuosi i sentimenti democratici e vi si contengono espressioni abominevoli contro i monarchi". IlPrincipe di Machiavelli "fu sempre opera pericolosa perché è diretta a mettere in orrore il Principato, anzi non vi è opera più dannosa per la Monarchia poiché vi si insegna il delitto come arma propria a sostenerla". E, per finire con questo florilegio di citazioni che testimoniano il rigore, almeno ufficiale, del C. censore, il De rerum natura deve essere proscritto perché "corrompe il costume". Ispirandosi ai concetti intolleranti e conservatori che emergono daquesti passi, il C. nega che sia opportuno accogliere la richiesta del marchese di Salsa, F. M. Berio, che per mantenere alla giornata la sua ricca biblioteca desiderava introdurvi anche i libri che non si ammettevano nel Regno. Era vero che tra le biblioteche private quella del Berio era "la più grande, la più ricca e la più assortita", ma, argomentava il C., una biblioteca conserva tutto il suo pregio anche se non sia fornita di quei libri, o ne' quali si tratta di abbattere la religione e di rovesciare il governo, incitandosi le nazioni alla sedizione, e al cambiamento delle costituzioni". Tutto deve essere diretto a difendere la monarchia e le sante massime dalla "folle ed empia filosofia francese". Ma non ci si poteva illudere, osserva lucidamente il C., di opporsi al diffondersi delle idee e delle opinioni soltanto con l'opera della censura, bisognava soprattutto curare la pubblica istruzione. "La pubblica istruzione dovrebbe essere diretta ad insegnare che l'uomo non può godere della vera libertà... senza l'ordine sociale, che l'ordine non si ritrova senza governo, che tra le varie costituzioni del governo la monarchia sia da preferirsi alle altre, che la monarchia si fonda nell'ordine naturale, che tragga sua origine dal Cielo, e sia organizzata dalla Divina provvidenza, che conseguentemente il monarca sia il vicario, il luogotenente di Dio. Queste massime si dovrebbe dettare con facile metodo, e con argomenti tratti dal dritto delle genti, dal dritto della chiesa, e dall'avviso de' filosofi e politici più illustri". Nelle attuali circostanze la mobilitazione dei docenti e degli intellettuali deve essere totale "per riparare la seduzione della gioventù". Il C. non esita a citare se stesso come esempio: "Sostengo io nella R. Università degli Studi una cattedra di facoltà ecclesiastiche. Nondimeno nell'attuali circostanze ho stimato spesse volte trascorrere a questo interessante oggetto per prevenire la moltitudine degli ascoltanti dalla seduzione". Lo stesso debbono fare gli altri. "La Curia del Cappellano Maggiore riservatamente dovrebbe essere incaricata di fare una tale insinuazione a tutti i professori e pubblici e privati, siccome la delegazione della Regal Giurisdizione per farla a' Vescovi".
Si era nell'aprile del 1794. Alla luce degli avvenimenti successivi, tanto zelo potrebbe apparire sospetto, anche se da sempre il C. aveva sostenuto la concezione della monarchia assoluta di diritto divino. Alcuni, sulla base di una relazione alla giunta di governo del novembre 1799, hanno ritenuto che già nel 1794 il C. fosse stato arrestato per aver partecipato alle "compricole e pranzi a Capo di Monte". Risulta invece che fino ai primi mesi del 1796 l'abate salernitano era ancora attivo come revisore dei libri esteri. L'arresto avvenne il 9 giugno 1796. Può essere interessante notare che l'8 gennaio egli aveva informato l'Acton del sospetto che gli ufficiali delle poste non sottoponessero alla sua revisione tutti i libri in arrivo. Il 22 marzo dava notizia di aver rimesso alla Real Segreteria tutti i libri che giacevano nell'ufficio di revisione: probabile preludio del prossimo arresto.
La motivazione specifica del provvedimento non è nota. Certo è che il C. era legato da vincoli di amicizia e di affetto a molti di quegli intellettuali napoletani realmente implicati in attività cospirativa o che guardavano con interesse, favore e speranza agli avvenimenti francesi. Tra questi era il suo discepolo Teodoro Monticelli. Nei primi mesi del 1796 i sospetti della corte e le misure repressive colpirono molti di coloro che si erano compromessi nella lotta contro la Curia romana. Il C. era in prima fila tra questi e in una lettera al fratello ad altro egli non sapeva attribuire il suo arresto se non all'"odio teologico" che, si era attirato contro in venti anni di costante difesa delle "canoniche regalie". "La classe degli ecclesiastici curiali - egli scriveva - animata dall'interesse, credendosi offesa, giurò di perdermi e di tenermi in osservazione. Prese tutti i sembianti, si valse di ogni agente per perseguitarmi. Questo mio nemico. agitato da un certo spirito che chiama religioso, ma che in verità è terreno, e contrario allo Stato, non potrà mai rimuovermi, siccome ha preteso, dal sincero attaccamento al Trono".
Invece furono probabilmente due anni di meditazione in carcere a rimuovere il C. dal sincero attaccamento al trono, fino a indurlo ad aderire alla Repubblica e a diventarne il ministro degli Interni. Rimesso in libertà nel luglio del 1798, sembra che si ritirasse nella natia Calvanico. Entrò il 12 febbr. 1799 (24 piovoso anno VII) nel governo provvisorio della Repubblica partenopea nominato dallo Championnet e tenne tale incarico per poco più di due mesi. La scelta del C. da parte del generale francese fu probabilmente ispirata al desiderio di dare una garanzia a quanti temevano che la rivoluzione non avrebbe rispettato i valori della religione cattolica. La sua qualità di sacerdote, di uomo colto, onesto e dalle idee moderate devono aver consigliato la nomina. I precedenti giurisdizionalisti dell'abate lasciavano, d'altra parte, intendere che la politica religiosa della Repubblica si sarebbe orientata verso la costituzione e la difesa di una Chiesa nazionale, contro ogni eventuale pretesa o ritorno offensivo della Curia romana. Quali che fossero le ragioni della scelta, i pochi documenti rimasti dell'attività di governo del C. rivelano molti buoni propositi, ma nessuna "preparazione", non diciamo per risolvere, ma neppure per affrontare le gravi questioni inerenti all'amministrazione dello Stato, di competenza di un ministero nuovo come quello dell'interno. Del resto, anche i funzionari francesi che affiancavano gli inesperti ministri napoletani, come Marc-Antoine Jullien, che fu segretario del governo, e probabile ispiratore ed estensore delle istruzioni generali emanate il 23 febbraio dal ministro degli Interni per la formazione dei dipartimenti e delle municipalità, non sembrano brillare per particolari capacità politiche e amministrative. Si trattava di creare quasi dal nulla una nuova amministrazione, in una situazione estremamente difficile e precaria.
Di più diretta competenza del C. può ritenersi la circolare del 22 ventoso (12 marzo) diretta A' cittadini Arcivescovi, Vescovi e Prelati. Vi si espongono i principi. per i quali il regime democratico e repubblicano è "il più conforme alla mente del Vangelo". È un inno alla libertà e all'eguaglianza: "Nella Repubblica l'uomo diviene cittadino, cioè membro della Sovranità, poiché il popolo è il vero Sovrano". Il detestato Rousseau s'è preso la sua rivincita. "Tra le diverse forme di amministrazione sociale - continua il testo firmato dal ministro - la democrazia è il più gran beneficio che Dio faccia al genere umano". Queste massime arcivescovi, vescovi e prelati sono invitati a chiarire e a sviluppare rivolgendosi a canonici, parroci, a superiori monastici e a tutto il clero. Erano passati soltanto cinque anni dal giorno in cui ben altri suggerimenti il C. dava all'Acton sulle "insinuazioni" da farsi ai vescovi perché nei catechismi si insegnasse che la monarchia si fondava nell'ordine naturale, traeva la sua origine dal cielo ed era organizzata dalla divina provvidenza.
Lasciato il ministero dell'Interno, quando il commissario Abrial riorganizzò il governo, il C. fece parte della Commissione legislativa; ma negli ultimi mesi della Repubblica non esplicò alcuna azione degna di particolare rilievo. Era tuttavia già a tal punto compromesso col nuovo regime che per lui non vi era possibilità di scampo con la restaurazione monarchica.
Egli si trovava tra coloro che capitolarono a Castel Nuovo. Violati i patti della capitolazione, fu tradotto nelle carceri di Castel dell'Ovo. La giunta di Stato, forse per salvarlo, decise di rinviare l'esecuzione, motivando il rinvio con l'opportunità di recuperare dal C. documenti di somma importanza "concernenti i diritti della monarchia sopra una porzione dello Stato romano". La giunta di governo, disapprovando la dilazione, ne informò il re, il quale ordinò che si desse corso alla sentenza. Il C. fu dissacrato e il giorno stesso dell'esecuzione gli fu sottoposta una ritrattazione, nella quale egli rinnegando il suo costante insegnamento avrebbe dovuto riconoscere "il primato del venerando Sommo Pontefice... fondato nel Diritto Divino, primato non solo d'ordine, ma di potere giurisdizionale". Era il supremo oltraggio alle sue profonde convinzioni, abbia egli firmato o respinto quel documento.
Il 7 dic. 1799, a Napoli, nella piazza del Mercato, moriva sulla forca.
Fonti e Bibl.: Appunti di lezioni e altri scritti ined. del C. sono conservati a Napoli nella Bibl. della Società napoletana di storia patria: Iuriscivilis, luris canonici, luris Regni; De Gonciliis Oecumenicis. Accedunt dissertationess, quae cum rem dogmaticam, tum disciplinam, iurisque canonici omnem rationem illustrant; De Mediis pro restituenda Ecclesiae disciplina; Parere sulla predicazione di fra Vincenzo Messina accusato di eresia; Dritto regio sulla nomina del priore del Carmine. Nell'arch. storico del Museo di S. Martino di Napoli sono conservate le Consulte del C. come revisore dei libri esteri dal 1792 al 1796. Notizie biogr. in M. D'Ayala, Vita degl'Italiani benemeriti della libertà e della patria uccisi dai carnefici, Torino 1883, 188 ss.; L. Conforti, Napoli nel 1799, Napoli 1889, pp. 222-228; C.Zottoli, Di due esimi salernitani: F. Conforti, M. Galdi, Salerno 1904; A. Capone, In occas. delle pubbliche onoranze fatte a Salerno il 18 marzo 1906 all'ab. C., Salerno 1906; G. Taormina, Per G.F.C., Salerno 1906; A. Capone, Replica al prof. Taormina, Salerno 1906. Per la ricostruz. dell'attività anticuriate del C. va tenuto presente D. Forges Davanzati, G.A. Serrao vescovo di Potenza e la lotta dello Stato contro la Chiesa, a cura di B. Croce, Bari 1937, ad Indicem;G. Cigno, G.A. Serrao e il giansenismo nell'Italia merid., Palermo-Lovanio 1938, ad Indicem;P.Sposato, Orientam. giansenistici nella vita e nel pensiero dell'ab. Vincenzo Troisi, in Arch. ster. delle prov. nap., n.s. XXXIV (1953-54), pp. 217-252; Id., Per la storia del giansenismo nell'Italia meridionale. Amici e corrispondenti di A. Capobianco, arcivescovo di Reggio Calabria, Roma 1966, ad Indicem; A. Abbate, F.C., giansenista e martire del 1799, Napoli 1967; R. De Maio, Società e vita religiosa a Napoli nell'età moderna, Napoli 1971, ad Indicem;D. Ambrasi, Riformatori e ribelli a Napoli nella seconda metà del Settecento. Ricerche sul giansenismo napoletano, Napoli 1979; E. Chiosi, Andrea Serrao. Apologia e crisi del regalismo nel Settecento napoletano, Napoli 1981. Per più ampi riferimenti archivistici e bibl. si veda P. Villani, Contributo alla storia dell'anticurialismo napoletano: l'opera di G. F. C., in Mezzogiorno tra riforme e rivoluzione, Bari 1962, ad Indicem.