GIAN GALEAZZO Visconti, duca di Milano
Figlio di Galeazzo (II) Visconti e di Bianca di Savoia (sorella di Amedeo VI detto il conte Verde), nacque a Milano il 16 ott. 1351. Poco si conosce dell'infanzia e dell'educazione di G., svoltesi probabilmente nel castello di Pavia, eletto a dimora da Galeazzo dopo la conquista della città. Ospite di riguardo del nuovo signore fu Francesco Petrarca che, secondo il racconto di P.C. Decembrio, per il giovanissimo G. coniò l'emblema araldico della tortora nel sole radiante con il motto "à bon droit" (Novati, p. 55). Creato cavaliere all'età di quattro anni dall'imperatore Carlo IV di Lussemburgo già nel 1360 sposò con la decisiva mediazione sabauda Isabella di Valois, figlia del re di Francia Giovanni II. L'unione, che rivestiva grande importanza nella strategia di affermazione dei Visconti, costò ai signori di Milano un cifra enorme, compresa fra i 400.000 e i 600.000 scudi: a tanto, secondo l'indignata reazione del cronista fiorentino Matteo Villani (Cronica, libro IX, cap. CIII), il re di Francia aveva venduto la propria carne. Dote della sposa fu la contea di Sommières, poi sostituita da quella di Vertus - più vicina a Parigi -, da cui G. derivò il titolo di conte di Virtù, al quale rimase sempre particolarmente legato. Nonostante le aspettative di cui era circondato, non fu un matrimonio fortunato: tre dei figli - Gian Galeazzo (n. 1366), Azzone (n. 1368 - m. 1380) e Carlo (n. 1372) - morirono giovanissimi e la stessa Isabella morì nel dare alla luce l'ultimogenito. Solo l'unica figlia, Valentina (n. 1370), sopravvisse alla madre e ai fratelli. Né molto più fortunati furono i primi passi di G. sulla scena politica: sebbene richiesto di aiuto dal cognato Carlo (IV) di Valois contro il conte di Bar, si guardò bene dall'intervenire in affari così lontani, rimandando il proprio esordio al 1372, quando ricevette il comando delle milizie che cercarono vanamente di assediare Asti, occupata dai Savoia. Divampata frattanto la guerra che opponeva Galeazzo e Bernabò Visconti alla Lega italica, G. fu posto a capo dell'esercito che si opponeva alle scorrerie sabaude: complice l'inesperienza del giovane principe, le truppe andarono però incontro a una dura sconfitta presso Montichiari il 7 maggio 1373, e lo stesso G. rimase ferito in combattimento. Ricevuta il 9 marzo 1374 la procura paterna per trattare con Amedeo VI di Savoia, capitano generale della Lega, il 6 giugno seguente sottoscrisse con questo la pace di Casale, trattato che definiva le rispettive zone di influenza. Ormai iniziato alla politica e alle armi, G. fu emancipato dal padre l'8 genn. 1375, ricevendo contestualmente il governo su Novara, Vercelli, Alessandria, Tortona, Valenza e Casale, con la facoltà di fare pace e guerra con il conte di Savoia; Galeazzo si riservava invece Pavia, Como, Piacenza, Bobbio e il titolo di dominus generalis, secondo un piano di successione che preludeva alla sua definitiva uscita di scena avvenuta il 4 ag. 1378 quando, ormai da tempo malato, si spense nel castello di Pavia.
Da questo momento ebbe inizio per G. la difficile gestione dello Stato, gestione condivisa con lo zio Bernabò, la cui politica, tutta protesa a favorire i propri figli legittimi e naturali, entrò presto in urto con le ambizioni del nipote, nient'affatto disposto a cedere il passo all'altro ramo visconteo. Un primo forte attrito nacque intorno alle ambizioni siciliane dei Visconti: rispolverando un precedente progetto matrimoniale, Bernabò avviò trattative per unire Maria, giovane regina di Sicilia succeduta al padre Federico IV nel 1377, con uno dei propri figli, scontrandosi però con il veto di papa Gregorio XI, contrario a un rafforzamento del potente signore di Milano. Della situazione cercò allora di profittare G., pronto a raccogliere le proposte che ai Visconti continuavano a giungere dalla Sicilia. Grande la preoccupazione di Bernabò, che se da un lato cercò di ostacolare il nipote, dall'altro provò a volgere a proprio vantaggio quella che poteva sembrare un'intollerabile sconfitta della sua politica: usando tutto il suo ascendente, riuscì infatti a imporre a G. il matrimonio fra il secondogenito ed erede di questo, Azzone, e la propria figlia Antonia, nozze che preludevano a un sempre più stretto controllo sul genero, una volta partito G. per la Sicilia. Il progetto tuttavia non andò in porto: la convergente opposizione degli Aragonesi, tutt'altro che disposti a rinunciare all'isola, di papa Urbano VI, succeduto a Gregorio XI nel 1378, e della casa di Baviera - dietro il cui schieramento è stata vista la mano di Bernabò, suocero di Stefano di Baviera - bloccarono definitivamente le mire di G., che nel giro di breve tempo non solo vide svanire le proprie ambizioni regali ma si ritrovò legato alle scelte politiche dello zio. Attraverso una politica endogamica, volta a unire gli eredi di Galeazzo con i propri, Bernabò cercò infatti di preservare l'unità del dominio e allo stesso tempo di affermarvi la sua primazia come maior domus: questo il senso della doppia unione matrimoniale che nel 1380 portò G. e sua sorella Violante a sposare Caterina e Ludovico, entrambi figli di Bernabò. Di fronte al tentativo dello zio di stringerlo in un abbraccio sempre più vincolante, G. si premurò di richiedere a Venceslao di Boemia la concessione del vicariato imperiale (17 genn. 1380), titolo che lo metteva al riparo dalle possibili rivendicazioni di Bernabò. Impegnato G. nel consolidamento del confine occidentale, dal 1378 spostato verso Asti sottratta con l'inganno a Secondo Ottone di Monferrato, e intento Bernabò a rivendicare i diritti della moglie Beatrice Della Scala sui domini paterni, le occasioni di attrito fra i due sorsero intorno a quelle questioni che potevano mutare gli equilibri e i rapporti di forza in seno alla famiglia. Se qualche divergenza si era avuta nella politica viscontea in Toscana, più gravi conseguenze poteva avere l'alleanza di Bernabò con Luigi II duca d'Angiò e conte di Provenza, in cerca di aiuti per riconquistare il Regno di Napoli. L'intesa, suggellata dalla promessa di matrimonio fra Lucia, figlia di Bernabò, e Luigi II, si configurava come un rafforzamento intollerabile dell'altro ramo della famiglia, e proprio l'avanzato stato dei preparativi indusse G. a rompere gli indugi e a liberarsi una volta per tutte dello zio. Il 6 maggio 1385, fingendo un pellegrinaggio alla Madonna del Monte, sopra Varese, fece sapere allo zio di volergli rendere visita, senza tuttavia entrare in Milano, così da non attardarsi troppo. Senza alcuna scorta e preceduto solo dai figli Ludovico e Rodolfo, Bernabò raggiunse il nipote fuori dalla pusterla (porta) di S. Ambrogio: qui, al segnale convenuto, Iacopo Dal Verme e Ottone da Mandello lo immobilizzarono, mentre altri componenti il nutrito seguito di G. arrestarono i due figli. Tumulti di popolo - che portarono alla distruzione di parte dell'archivio visconteo - salutarono la fine di Bernabò e l'avvento di G., cui il Consiglio generale di Milano conferì il titolo di dominus, sanzionando formalmente il mutato reggimento politico. Il 25 maggio Bernabò venne condotto nel castello di Trezzo, dove rimase fino al 19 dicembre, quando - racconta il Corio - "fugli dato il tosico in una scodella di fagioli" (Storia di Milano, I, p. 883). Eliminato lo zio, permaneva la minaccia rappresentata dalla sua numerosa prole, oltre trenta tra figli legittimi e naturali: se nessuna solidarietà era venuta loro dalle città del dominio, poco partecipi della lotta in corso e interessate, semmai, solo agli sgravi fiscali promessi da G., maggiori preoccupazioni venivano da quegli accordi matrimoniali con cui Bernabò aveva saputo legare i figli alle principali casate signorili della penisola e d'Europa. Protezione era stata offerta da Antonio Della Scala, signore di Verona, a Carlo Visconti, che fuggiva dopo avere vanamente cercato di spingere il cognato John Hawkwood (Giovanni Acuto), celebre condottiero, a dare l'assalto al castello di Trezzo; ma aiuti aveva offerto il signore di Verona anche a Giovanni Mastino, il più giovane dei figli di Bernabò, che resisteva assediato nella cittadella di Brescia. La politica apertamente ostile di Antonio Della Scala indusse G. a promuovere una lega, siglata a Pavia l'8 ag. 1385, con i signori di Mantova, Padova e Ferrara: sorta come alleanza difensiva contro le compagnie di ventura - e come tale celebrata da Coluccio Salutati, cancelliere della Repubblica fiorentina, che colse l'occasione per contrapporre la politica del conte di Virtù a quella di Bernabò, protettore dei condottieri (Bueno de Mesquita, p. 70) - finì con l'assumere, per l'esclusione del signore di Verona, un chiaro significato antiscaligero. Già il 25 agosto seguente G. sottoscriveva con Francesco il Vecchio da Carrara una nuova lega e questa volta il nemico veniva esplicitamente indicato in Antonio Della Scala. In questa prima fase la posizione viscontea fu improntata alla cautela: saputo della vittoria dei Padovani alle Brentelle (25 giugno 1386), G. si affrettò a congratularsi col Carrarese, cui inviò un'ambasceria capeggiata dall'esule veronese Guglielmo Bevilacqua, ma allo stesso tempo si premurò di mandare una legazione anche agli sconfitti. G. studiava, dunque, la situazione: mentre proibiva ai propri sudditi di porsi al servizio dell'uno o dell'altro offriva segretamente il proprio aiuto sia al Carrarese, sia allo Scaligero, cercando di individuare l'obiettivo più facile e il momento più opportuno per intervenire. Il 21 apr. 1387 inviò ad Antonio Della Scala una lettera di sfida, secondo il costume dell'epoca. Col signore di Milano si schierarono Niccolò d'Este, Francesco Gonzaga, Antonio di Arco e Francesco da Carrara, cui G. prometteva Vicenza, riprendendo così i termini dell'accordo prospettato con la lega dell'agosto 1385. Attaccato su più fronti, abbandonato da Venezia e impossibilitato a ricevere il soccorso delle compagnie di ventura, bloccate in Romagna dai Malatesta, alleati di G., Antonio Della Scala riuscì a resistere fino al 18 ott. 1387, quando fu costretto a capitolare per il tradimento di alcuni concittadini. Rifugiatosi a Venezia, non si dette però per vinto: il 21 genn. 1388 G. faceva giustiziare un famiglio di Antonio, sorpreso a Piacenza con 100 libbre di arsenico e accusato di voler avvelenare il pozzo del castello di Pavia (Pavia, Bibl. C. Bonetta, Archivio storico civico di Pavia, b. 1).
I cronisti Galeazzo e Bartolomeo Gatari raccontano di denari versati da G. all'imperatore per l'acquisto di Verona (Soldi Rondinini, La dominazione viscontea a Verona, p. 46), mentre una bolla di Bonifacio IX definisce esplicitamente G. "imperialis vicarius in Mediolanensi et Veronensi civitatibus" (Archivio di Stato di Pavia, Università, Notaio Griffi, b. 8, c. 156v: 3 marzo 1392): sono notizie allo stato attuale prive di altri riscontri, ma comunque indicative della temperie in cui si consumò l'espansionismo visconteo in Veneto, tra l'impotenza dell'Impero, che aveva visto fallire i propri tentativi di mediazione e si era risolto ad accettare il fatto compiuto, e l'avallo della Chiesa romana, pronta non solo a riconoscere i nuovi domini viscontei, ma anche ad assecondare i progetti di G. per la sostituzione dei quadri ecclesiastici locali con figure più gradite al signore di Milano.
Caduta Verona il 18 ottobre, già il 24 seguente fu la volta di Vicenza. I disegni di G. venivano allo scoperto: servitosi del Carrarese per conquistare le terre scaligere, non solo non aveva alcuna intenzione di spartire il bottino, ma volgeva ora le sue mire contro gli stessi domini padovani, dove Francesco il Vecchio aveva nel frattempo abdicato (29 giugno 1388) in favore del figlio Francesco Novello. Raggiunto un accordo con Venezia (29 maggio), G. apriva le ostilità alla fine di giugno: una breve campagna militare portò il 21 novembre a un deciso affondo nel territorio padovano e mentre il Carrarese si recava a Pavia per chiedere un armistizio, le truppe viscontee occupavano la città. I patti questa volta vennero rispettati: cedute alla Serenissima Treviso e Ceneda, rimasero a G. le città di Feltre, Belluno e Padova. Sua cura fu ora quella di tranquillizzare i sempre più preoccupati governi di Firenze e Bologna: a costoro G. propose dunque una lega fondata sul principio della non aggressione. Troppo poco per chi pretendeva un'esplicita rinuncia alle ambizioni milanesi sulla Toscana e la Romagna. Le trattative segnarono a lungo il passo e solo il 9 ott. 1389 venne chiusa la lega di Pisa: l'accordo, che non aveva valore retroattivo, veniva a sancire la divisione delle aree di influenza, confinando quella milanese non oltre la città di Modena: si accoglievano dunque alcune delle richieste fiorentine, ma allo stesso tempo si riconosceva al Visconti il diritto di intervenire a favore dei suoi alleati toscani, a cominciare da Siena, con cui aveva stipulato un accordo il 22 settembre. Le basi dell'intesa erano debolissime, e già il 10 ottobre la Signoria fiorentina chiudeva un altro trattato con Bologna, Pisa, Lucca e Perugia.
Si veniva così profilando quello scontro fra Firenze e Milano che avrebbe dominato la scena politica per oltre un decennio. Combattuto su più fronti - militare, diplomatico, perfino letterario, con una vivace tenzone che oppose gli umanisti fiorentini ai letterati della corte viscontea, gli uni sostenitori del reggimento repubblicano, arbitro delle libertà democratiche, gli altri teorici di un principato forte, superamento delle divisioni municipali e garante della pace - il dissidio assorbì ogni risorsa dei contendenti e ne orientò la politica delle alleanze. Da un lato G., pronto a continui mutamenti di campo tra Francia e Impero pur di trovare appoggi contro gli "arciguelfi"; dall'altro la Signoria fiorentina, anima e finanziatrice di ogni alleanza antiviscontea.
La guerra era ormai prossima e G. cercò di attivare i propri agenti nelle città che gli si opponevano, a cominciare da Bologna, dove una vasta congiura fu sventata solo all'ultimo. La risposta fiorentina non fu meno decisa: assicuratasi i servigi della "grande compagnia" di John Hawkwood, cercò di coalizzare un ampio schieramento, con principi accomunati oltre che dall'ambizione di conquista, anche da un sentimento di personale rivalsa verso Gian Galeazzo. Dell'alleanza facevano dunque parte Francesco Novello da Carrara, fuggito dal confino visconteo di Asti dove era stato destinato dopo aver formalmente ceduto la città di Padova (11 febbr. 1389), Carlo Visconti, figlio di Bernabò, nonché Giovanni di Armagnac e Stefano di Baviera, sposati con due figlie dello scomparso signore di Milano. Il conflitto si aprì nel maggio del 1390 e fu subito accompagnato da gravi rivolte nelle terre viscontee oltre il Mincio, che portarono alla perdita di Padova, rioccupata dal Carrarese (21 giugno 1390). Il momento pareva propizio per la coalizione antiviscontea, ma le forze del duca di Baviera, varcate le Alpi, non lasciarono più gli acquartieramenti di Padova, alimentando presso i Fiorentini il timore di segrete intese con Gian Galeazzo. Più deciso parve invece l'Armagnac: radunate le truppe necessarie, penetrò in Lombardia al principio dell'estate 1391. Di fronte all'avanzata francese G. cercò di indebolire l'avversario e se con abili maneggi riuscì a privare l'Armagnac dell'appoggio del re di Francia, con non meno efficaci lusinghe economiche convinse il condottiero Bertrand de La Salle e le sue 1500 lance a mutare schieramento. Lo scontro pareva ormai imminente quando accadde l'imprevisto: il 25 luglio, in una piccola scaramuccia presso Alessandria, il conte d'Armagnac venne disarcionato; fatto prigioniero da Iacopo Dal Verme, morì dopo qualche ora, probabilmente per i postumi della caduta. Le truppe francesi, rimaste senza comando, furono facilmente sbaragliate e la propaganda viscontea ebbe buon gioco nel rappresentare l'episodio come una vittoria italiana sullo straniero. Chiusa con un lodo che riconosceva a G. il possesso di Feltre e Belluno ma non di Padova (pace di Genova, 20 genn. 1392), la guerra non aveva prodotto per G. alcun risultato: al contrario, non solo la perdita di Padova significava un duro colpo per le ambizioni milanesi nel Veneto, ma aveva portato alla costituzione di un attivissimo centro di propaganda antiviscontea, promotore già nel febbraio 1392 di una nuova lega. Contro coalizioni sempre più vaste a G. parve ormai giunto il momento di cogliere i frutti di quei legami che univano la corte viscontea a quella di Parigi.
Fin dal 1385 erano stati presi contatti per unire Luigi di Valois, duca di Touraine (poi dal 1392 duca di Orléans), fratello del re di Francia, con Valentina Visconti. Incurante delle trattative precedentemente avviate con Giovanni di Görliz, fratello di Venceslao re dei Romani, G. offrì la propria figlia al duca di Touraine, prospettando una ricchissima dote, comprendente le contee di Asti e Vertus, 450.000 fiorini d'oro, gioielli per altri 75.000 e soprattutto il fedecommesso a favore della stessa Valentina e dei suoi discendenti qualora G. non avesse avuto eredi maschi. La proposta, allettante soprattutto per i suoi risvolti dinastici, non fu fatta cadere: il contratto fu sottoscritto a Parigi il 27 genn. 1387 e la sposa lasciò Pavia il 24 giugno 1389.
È dunque alla Francia, legata da molti interessi alle vicende italiane - fra cui la questione dell'eredità angioina a Napoli e il sostegno, nel quadro dello scisma d'Occidente, al pontefice di obbedienza avignonese, Clemente VII - che G. si rivolse per abbattere Firenze e i suoi collegati. Nel novembre 1392 inviò alla corte di Parigi il suo ambasciatore Niccolò Spinelli, artefice di un ampio progetto politico incentrato sulla discesa in Italia di un forte contingente militare francese: espulso Bonifacio IX, le truppe oltramontane avrebbero dovuto consentire l'insediamento di Clemente VII e questi, a sua volta, avrebbe infeudato a un principe francese, quale Luigi d'Orléans, genero di G., ampi territori del Patrimonium, dando origine al Regno di Adria. In cambio dell'appoggio ricevuto e del riconoscimento di Clemente VII, la Francia avrebbe permesso a G. libertà d'azione nel Veneto (in seguito si promise anche la città di Bologna). L'ambizioso disegno sembrò prendere corpo fra il 1392 e il 1393 e tuttavia difficoltà interne alla corte francese, divisa dalla rivalità fra le fazioni armagnacca e borgognona, problemi finanziari, forti resistenze di Clemente VII alla alienazione di un vasto patrimonio della Chiesa, la scomparsa dello stesso papa nel 1394, e, ancora, la priorità data dalla Francia alla conquista di Genova, furono tutti motivi che ne determinarono il naufragio. Già dal 1393, però, G. aveva cercato di diversificare i propri referenti internazionali, riallacciando e rilanciando i rapporti con l'Impero. A Praga aveva dunque inviato, nel 1394, uno dei suoi più fidati consiglieri, il vescovo di Novara Pietro Filargis, con l'incarico di avviare trattative per la concessione di un titolo della gerarchia feudale che non solo desse più solidi fondamenti di legittimità al suo potere, ma che lo ponesse al di sopra dei feudatari imperiali presenti nel dominio. Le trattative non furono facili: interrotte dalla prigionia del re dei Romani, catturato nel 1394 da alcuni principi ribelli, vennero successivamente osteggiate dall'azione di disturbo di una legazione fiorentina. L'11 maggio 1395, tuttavia, l'atteso riconoscimento fu concesso e il 5 settembre seguente, durante una grandiosa cerimonia in S. Ambrogio, G. fu incoronato duca di Milano. Da questo momento il Visconti poté vantare un titolo che non solo aveva uno spessore giuridico ben superiore a quello del vicariato - tale, per esempio, da offrirgli una nuova arma, la potestà di conferire feudi giurisdizionali, con cui cercare di imbrigliare il particolarismo signorile - ma che soprattutto presentava ridottissimi margini di reversibilità: difficilmente revocabile per le limitazioni imposte dal diritto feudale, era trasmissibile ai discendenti legittimi. La dinastizzazione del potere dei Visconti poteva ora dirsi definitivamente affermata. Al prezzo di 100.000 fiorini il Visconti era diventato principe dell'Impero, titolare di un potere sovrano svincolato dalla necessità di riconoscimenti e legittimazioni da parte dei corpi territoriali.
Al primo diploma imperiale, che riconosceva la nuova dignità solo sulla città di Milano e il suo distretto, ne seguì un secondo (13 ott. 1396) che estendeva i poteri ducali a tutti i domini viscontei, sanciva l'adozione di un sistema successorio basato sulla primogenitura maschile legittima ed erigeva Pavia in contea, appannaggio dell'erede al trono. Nel 1397 un nuovo diploma portò alla costituzione della contea di Angera (25 gennaio), omaggio alla casata viscontea, che i genealogisti di corte facevano discendere da Anglo, figlio di Enea e mitico fondatore di Angera. Falso, invece, il diploma del 30 marzo 1397 con cui Venceslao avrebbe concesso a G. il Ducato di Lombardia. In esso, piuttosto, si possono ravvisare quelle ambizioni per la costituzione di un potentato dal profilo istituzionale sempre più alto delle quali non si faceva mistero alla corte pavese, dove poeti prezzolati come Francesco di Vannozzo e trattatisti come Guglielmo Centueri, vescovo di Pavia, discutevano - il secondo facendo ricorso nella sua opera De iure monarchiae ad argomentazioni tratte anche dalla letteratura giuridica contemporanea (tra gli autori citati è presente anche Baldo degli Ubaldi) - la possibile concessione del titolo regio a Gian Galeazzo.
Superate le tensioni sorte nel 1396 con la Francia intorno al possesso di Genova, cui G. rinunciò pur di non compromettere i rapporti con Carlo VI, fu possibile un riavvicinamento fra Pavia e Parigi, duro colpo all'alleanza che Firenze aveva nel frattempo stretto con la Francia. Per colpire la Signoria fiorentina G. pensò questa volta di rivolgersi a Venceslao, cui offrì la propria mediazione per ottenere da Bonifacio IX la tanto attesa incoronazione imperiale: disceso in Italia per la cerimonia, il re dei Romani avrebbe dovuto coprire l'azione viscontea contro Firenze. Il forte rischio di un coinvolgimento francese indusse però il duca a desistere e a volgere le sue mire contro la vicina Mantova, già da qualche anno staccatasi dall'orbita viscontea. Rotto il 15 luglio lo sbarramento di Borgoforte, le truppe di G. misero a ferro e a fuoco il Serraglio, ponendo quindi l'assedio a Governolo. Nonostante la reazione della Lega, solo l'entrata in campo di Venezia e del conte di Savoia al principio del 1398 indussero G. ad accettare le proposte per una tregua decennale (11 maggio 1398). L'esito deludente del conflitto non fermò però l'espansionismo visconteo, ormai avviato verso la costituzione di un vasto stato regionale. Assicuratosi il controllo della Lunigiana, dove fu repressa la ribellione di alcuni esponenti della casata dei Malaspina, alleatisi con la Lega, G. ritenne fosse ormai giunto il momento di stringere la morsa attorno a Firenze. Al principio del 1399 acquistò da Gherardo Leonardo Appiani la città di Pisa, già da alcuni anni protettorato milanese; il 6 settembre seguente fu la volta di Siena, datasi al duca di Milano pur di contrastare le mire fiorentine. Solo Lucca rimaneva autonoma, ma sempre più forte era la pressione viscontea. L'avanzata di G. sembrava non avere ostacoli: appoggiandosi a una delle fazioni che si fronteggiavano a Perugia si impadronì della città al principio del 1400: occupato il maggiore centro dell'Umbria, a ruota seguirono la dedizione di Assisi, Spoleto, Gualdo e Nocera. Di fronte a un accerchiamento che si faceva di anno in anno sempre più stringente, Firenze ripose tutte le sue speranze nei rivolgimenti che interessavano la corte imperiale, dove i principi elettori avevano rovesciato il filovisconteo Venceslao contrapponendogli Roberto di Baviera. Per indurre il nuovo sovrano a intraprendere una spedizione contro G., Firenze non solo si impegnò per un ingente contributo finanziario, ma di fronte alla titubanza del nuovo re dei Romani non esitò ad alimentare presso il monarca il convincimento di un tentativo di avvelenamento compiuto dal Visconti ai suoi danni. La spedizione tedesca mosse da Augusta il 25 sett. 1401 con l'appoggio del Carrarese, ma già il 24 ottobre le sorti del conflitto erano segnate: in uno scontro presso Brescia le truppe viscontee attaccarono una colonna nemica facendo diversi prigionieri: episodio di modeste proporzioni ma sufficiente per indurre le forze imperiali a ritirarsi. Nessun ostacolo si frapponeva più ai disegni egemonici di Gian Galeazzo. Sconfitte le truppe di Giovanni Bentivoglio presso Casalecchio (26 giugno 1402), le forze ducali entrarono il 30 giugno a Bologna. L'accerchiamento di Firenze era ormai completo: diffidati i Guinigi dal consentire ai Fiorentini l'uso di Motrone e occupati gli altri porti della Toscana, il duca sperava di affamare la città prima dell'assalto finale. Ma l'assalto non venne. Dapprima ritardato da difficoltà finanziarie e da rivalità fra i capitani di G., il piano subì una definitiva battuta d'arresto per l'improvvisa scomparsa del duca. Preceduta dal passaggio di una cometa, che dai contemporanei fu interpretato come presagio di sventura, la morte - forse di peste, forse di malaria - colse G. il 3 sett. 1402 nel castello di Melegnano.
Era la fine dell'ambizioso progetto visconteo. Se nelle intenzioni del suo fondatore il Ducato cessava di essere un semplice aggregato di terre e di città che si raccordavano individualmente al dominus per assumere invece una fisionomia più coesa, la scomparsa di G. rese manifesti tutti i limiti di una simile costruzione. Nonostante gli sforzi per la costituzione di un organismo statale unitario - direzione nella quale andavano importanti provvedimenti, dalla revisione degli statuti delle città suddite, alla nuova disciplina del processo civile - non il Ducato, con il suo nuovo portato istituzionale e giuridico, ma la tempra del duca si rivelò essere il vero collante del dominio. Disciplinato ma non dissolto dalla politica di G., il particolarismo riemergeva con tutto il suo vigore centrifugo, portando alla frantumazione dell'edificio visconteo, complice anche una suddivisione ereditaria che non contribuiva a preservarne l'unità. Secondo il testamento del 1401, integrato dal codicillo del 25 ag. 1402, il titolo ducale, con il nucleo centrale del dominio, andò al primogenito Giovanni Maria; al secondogenito Filippo Maria la contea di Pavia e due nuclei periferici, comprendenti le città più occidentali e più orientali dello Stato. A Gabriele Anglo, suo figlio naturale nato dalla relazione con Agnese Mantegazza (successivamente legittimato), la città di Pisa e il borgo di Crema.
Dell'opera del primo duca di Milano molto si perse nei rivolgimenti che seguirono la sua scomparsa: ciò che invece non venne meno fu l'impronta fortemente accentrata impressa da G. all'apparato di governo, forse il lascito più duraturo della sua eredità. Nuovi organi, il Consiglio segreto e il Consiglio di giustizia, erano stati istituiti per sovrintendere alla amministrazione dello Stato; la Cancelleria, prima con Pasquino de' Cappelli, poi, dopo la sua condanna per tradimento, con il vicentino Antonio Loschi - autore della celebre Invectivain Florentinos -, era notevolmente cresciuta, mentre profondi interventi avevano trasformato anche l'apparato finanziario. Fra il 1384 e il 1388 le entrate dei Comuni cittadini vennero assorbite dalla Camera e nuove regole fissate per l'appalto delle tesorerie; come corollario, anche le spese militari vennero a dipendere direttamente dal centro, consentendo una gestione più controllata. Al governo delle finanze furono preposte nuove figure, i maestri generali delle Entrate, chiamati a sostenere economicamente il peso dell'espansionismo signorile: di qui una fortissima pressione fiscale, con esazioni ordinarie integrate pressoché annualmente da prelievi straordinari, il ricorso a prestiti forzosi ma anche spericolate manovre monetarie sul corso dell'argento. G. fu dunque l'artefice di una profonda riforma del sistema di governo visconteo, un intervento che per la sua ampiezza interessò anche quel vasto settore della società occupato da persone e istituzioni ecclesiastiche: nel giro di due decenni le immunità fiscali e giudiziarie dei chierici vennero ridotte, i pia loca del Ducato sottoposti al controllo di un officiale signorile e l'impetrazione di uffici e benefici vietata senza speciale licenza del dominus. Una proibizione, quest'ultima, che combinata con le pressioni esercitate da G. sul pontefice romano - sensibile alle istanze di un principe mai apertamente schieratosi rispetto allo scisma -, consentì al Visconti un forte controllo sulla nomina dei quadri ecclesiastici del dominio. A questa politica si collegano anche le numerose fondazioni cui il principe accordò il suo patrocinio: le chiese del Carmine di Milano e Pavia, la cattedrale ambrosiana, cui concesse ampie esenzioni fiscali, e soprattutto la certosa di Pavia, destinata nelle intenzioni del duca a divenire il sepolcreto della dinastia. Committente di alcuni splendidi codici miniati - fra cui il celebre Offiziolo, che la mano di Giovannino de' Grassi rende uno dei massimi capolavori dell'"Ouvraige de Lombardie" -, G. non si segnalò per particolari interessi letterari, sebbene accogliesse nella biblioteca del castello - arricchita dopo le conquiste venete dei volumi già dei Carraresi e degli Scaligeri - umanisti come il Crisolora, il Filargis, il Decembrio e il Loschi. Accordò invece ogni favore all'Università di Pavia, per la quale ottenne da Bonifacio IX l'erezione a Studium generale e dove attirò i più celebri lettori del tempo: un articolato piano di potenziamento che mirava a fare dello Studium la principale università del dominio e il centro della elaborazione giuridica e ideologica signorile.
Fonti e Bibl.: Archivio di Stato di Milano, Registri ducali, regg. 1, 18; Rogiti camerali, 216; Archivio ducale Visconteo-Sforzesco, Carteggio, bb. 9, 19; Registri Panigarola, reg. 1; Milano, Archivio storico civico e Biblioteca Trivulziana, Registri litterarum ducalium 1401-1403; Milano, Biblioteca Ambrosiana, cod. D 59; Trotti, cod. 245; C.G. Della Croce, Codex diplomaticus Mediolanensis; Archivio di Stato di Pavia, Notarile, bb. 4, 5, 6; Archivio di Stato di Reggio nell'Emilia, Archiviodel Comune, Registri, reg. "1385-1425", 1386 giugno 30, Pavia. Informazioni sul governo di G. si possono desumere dai documenti conservati nelle città suddite o in quelle che coi Visconti avevano rapporti diplomatici: utili indicazioni archivistiche nelle relazioni presentate dai corrispondenti del Repertorio diplomatico visconteo, in Archivio storico lombardo, 1899-1906 (edito in seguito in un'unica raccolta, I-II, Milano 1911-18, Supplemento e Indice, ibid. 1937). Da segnalare inoltre che, benché questo repertorio termini col 1385, presso la Società storica lombarda si conservano ancora le schede preparatorie per gli anni seguenti, almeno fino al 1402. Annales Mediolanenses, in L.A. Muratori, Rer. Ital. Script., XVI, Mediolani 1730, coll. 772-840; P. de Castelletto, Ordo funeris Iohannis Galeatii Vicecomitis ducis Mediolani, ibid., coll. 1021-1036; Iohannes de Mussis, Chronicon Placentinum, ibid., coll. 522-560; S. de Gazata - P. de Gazata, Chronicon Regiense, ibid., XVIII, ibid. 1731, coll. 80-98; G. Gatari - B. Gatari, Cronaca Carrarese, a cura di A. Medin - G. Tolomei, in Rer. Ital. Script., 2ª ed., XVII, pp. 255-497; Antiqua ducum Mediolani decreta, Mediolani 1654, ad nomen; Codex Italiaediplomaticus, I-IV, a cura di I.C. Lünig, Francofurti-Lipsiae 1725-35, ad indices; Documenti diplomatici tratti dagli archivj milanesi, a cura di L. Osio, I, 2, Milano 1864, pp. 243-287; P. 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