TRIVULZIO, Gian Giacomo Teodoro
– Nacque il 27 ottobre 1597, primogenito di Carlo Emanuele Teodoro, conte di Melzo, signore di Castel Zevio e di Codogno, e di Caterina Gonzaga unica erede di Alfonso, marchese di Castel Goffredo.
Ebbe una sorella, Ippolita, e due fratelli, Geronimo e Alfonso, entrambi morti prematuramente.
Dopo aver conseguito nel primo Cinquecento fasti ineguagliati con i due marescialli di Francia, Gian Giacomo il Magno e Teodoro (v. le voci in questo Dizionario), il casato cercava di ottenere dalla Corona cattolica riconoscimenti adeguati al suo rango. Il padre era tenente generale della cavalleria e consigliere di guerra quando fu ucciso in battaglia in Fiandra (1605).
Erede di un patrimonio fondiario ingente, consolidatosi con l’estinzione di rami collaterali, Trivulzio ebbe un’educazione cavalleresca e umanistica sotto la guida della madre e della nonna paterna Ottavia Marliani, figlia del presidente del Senato Pietro Antonio. Suo precettore a Melzo fu il canonico Agostino Barattieri; influirono sulla sua formazione i soggiorni presso le corti dei Gonzaga e dei Della Rovere, e l’architetto urbinate Muzio Oddi, stabilitosi a Milano, lo istruì in matematica. La morte eroica del padre gli avrebbe consentito di esibire fedeltà e meriti di famiglia nelle sue richieste a Filippo III e una letteratura encomiastica era pronta a collegare i conti di Melzo agli antenati insistendo sulle virtù militari cui egli stesso pareva predestinato. Gli fu concesso l’abito di cavaliere di Santiago (1608) mentre maturavano le condizioni che avrebbero indotto il governo spagnolo a promuoverne la carriera. Il patrimonio da lui ereditato nella bassa pianura lombarda acquistava un rilievo strategico cruciale: il Milanesado era infatti minacciato dall’alleanza tra Enrico IV di Francia e Carlo Emanuele di Savoia e la fedeltà dei potentati italiani non era più scontata.
Con il patrocinio di Filippo III e del governatore, Juan Fernández de Velasco, duca di Frías, si predispose il suo matrimonio con Giovanna Grimaldi, figlia primogenita di Ercole, signore di Monaco, e di Maria Landi dei principi di Val di Taro. Alle nozze, celebrate a Milano nell’ottobre del 1615 alla presenza del cardinale Federico Borromeo, seguirono quelle della sorella Ippolita con l’erede del principato monegasco, Onorato II Grimaldi, sottoposto alla tutela dello zio materno Federico Landi. Il doppio vincolo matrimoniale consentiva di controllare la stabilità di Monaco, che con Ercole (vittima di una congiura nel 1604) si era avvicinato alla Francia.
Nel 1616 Trivulzio divenne tutore di Luigi Gonzaga, erede alla morte del padre Francesco di Castiglione delle Stiviere; la stabilità del principato imperiale incuneato nella Terraferma veneta premeva molto alle due corti asburgiche. Investito di questa responsabilità nel gennaio del 1620 egli si trovò a fronteggiare la ribellione della comunità di Medole. Forte dell’appoggio del governatore di Milano, soffocò in breve la rivolta e concesse poi il perdono. La vicenda gli diede opportunità di procurarsi alleati importanti tra i parenti dei principi di Castiglione: nella corte imperiale i Pernstein, e in quella spagnola la duchessa di Villahermosa, Maria Luisa de Aragón y Gurrea (figlia di Johanna von Pernstein), esponente autorevole del clan Borja - Aragón. La confidenza era favorita dalla comune devozione a una gloria di famiglia: Luigi Gonzaga, proclamato beato nel settembre del 1605. A Milano egli ne sostenne il culto, insieme ai gesuiti del Collegio di Brera.
Con il favore del papato e del partito filospagnolo nella corte imperiale Trivulzio cercò di far valere i suoi diritti su Mesocco e la Val Mesolcina, passati ai conti di Melzo dopo l’estinzione del ramo del Magno (1572) e una lunga vertenza. Come la contigua Valtellina, queste terre a ridosso dei valichi del San Bernardino e dello Spluga erano teatro dei conflitti tra protestanti e cattolici e della competizione tra le potenze. Il 17 settembre 1622 Ferdinando II ne concesse a Trivulzio l’investitura erigendole in principato, tuttavia i tentativi di ottenere la ‘total padronanza’ risultarono vani; la tensione internazionale sconsigliava un’azione di forza contro le Tre Leghe, che ribadivano la propria potestà.
Giovanna Grimaldi, dopo aver generato due figlie, Ottavia e Caterina, era morta nel dare alla luce Ercole (1620). Assicurata la continuità del casato, Trivulzio nel 1625 entrò in prelatura e acquistò un protonotariato e un chiericato di camera; scelta fatta, si dirà in seguito, per conseguire vantaggi temporali più che per zelo religioso. A Milano, con il conseguimento del dottorato in utroque (1626) entrò a far parte del Collegio dei giureconsulti. Nel contempo decise di investire 100.000 scudi sulla ferma del sale. Le difficoltà dell’hacienda regia rendevano l’acquisto di redditi camerali fruttuoso e meritorio; per lui, come per altri maggiorenti lombardi, la difesa del dominio spagnolo veniva a coincidere con quella dei propri possedimenti e crediti.
Fu invece il legame con l’Impero a favorire la sua ascesa nella corte di Roma. Le ultime nomine cardinalizie di Urbano VIII avevano scontentato Ferdinando II, che reclamava la porpora per il gesuita Péter Pázmány, vescovo di Esztergom, e per Trivulzio, imparentato per linea materna con l’imperatrice Eleonora Gonzaga. Nel Concistoro del 19 novembre 1629 entrambi furono promossi ed egli ebbe il titolo di cardinale diacono di S. Cesareo in Palatio.
Nello Stato di Milano la sua promozione spostava gli equilibri di potere, rimettendo in gioco il primato che i Borromeo si erano aggiudicati ai tempi di Pio IV. L’episcopato di s. Carlo aveva posto fine al predominio dei cardinali e vescovi della ‘casa Triulza’, ma i continui contrasti giurisdizionali non avevano consentito la piena confidenza tra il casato di Angera e la Corona. Il Collegio dei giureconsulti nel 1630 celebrò il conseguimento della porpora da parte del proprio affiliato. I gesuiti, nel gennaio del 1632, approntarono nel Collegio di Brera un ‘teatro’ effimero per illustrare le virtù e la grandezza che Trivulzio aveva ricevuto dagli avi e trasmetteva al figlio. Una bella incisione, su disegno di Isidoro Bianchi, lo raffigura in veste cardinalizia mentre dall’alto assiste al corteo trionfale del Magno, compartecipe di tanta gloria.
La nomina a legato della Marca (2 giugno 1631), non lo avrebbe tenuto lontano da Milano, dove egli si imponeva come il più autorevole interlocutore nelle controversie ecclesiastiche e giurisdizionali inaspritesi con la malattia e la morte (settembre 1631) del cardinale Federico Borromeo. Il suo intervento fu determinante nella risoluzione della lunga contesa tra i monaci e il capitolo della basilica di S. Ambrogio; in quella per la proprietà della chiesa di S. Alessandro tra il collegio dei canonici e i barnabiti accordò la sua protezione ai regolari. Durante la sede vacante la sua mediazione appianò lo scontro tra il vicario generale e il governatore che era culminato nelle scomuniche e nell’interdetto delle chiese.
L’autorità acquisita alimentava rivalità e inimicizie. A queste dinamiche è forse riconducibile la diceria circolante in tempo di peste, documentata da una scrittura coeva conservata nella Biblioteca Trivulziana e ripresa da Alessandro Manzoni nei Promessi sposi (cap. XXXII). Un personaggio demoniaco, in veste di gran signore («principe Mammone»), sarebbe giunto in città recando con sé un unguento per diffondere il morbo pestilenziale. Ospitato in un palazzo dei Trivulzio in Porta Romana, avrebbe consegnato loro un antidoto. Nel gennaio del 1635 si cercò di coinvolgerlo in un complotto ordito dai francesi per impadronirsi di Milano. È difficile valutare la reale consistenza dell’episodio, ma è certo che egli non si sentiva appagato dai riconoscimenti ricevuti dalla Corona. Ne era giunta notizia, nel 1633, anche al Senato veneto (Relazione del Signor Bertuccio Valier ambasciator..., 1913); nel maggio del 1635 egli sperava ancora di ottenere, con la mediazione dell’arcivescovo cardinale Cesare Monti, la Legazione di Ferrara.
La decisione del cardinale Richelieu di assalire con gli alleati Vittorio Amedeo di Savoia e Odoardo Farnese lo Stato di Milano gli consentì di rinsaldare il suo legame con la Corona cattolica. Nel novembre del 1635 reclutò un tercio a proprie spese, nominalmente affidato al figlio che nell’anno precedente aveva ricevuto il Toson d’oro. Partecipò quindi all’assedio di Piacenza (dicembre 1636) conclusosi con il ritorno all’obbedienza di Farnese. Pare che Urbano VIII intendesse avviare un processo contro di lui, reo di avere invaso feudi della Chiesa; si limitò invece a pubblicare una bolla generale per togliere la dignità cardinalizia ai porporati che impugnassero le armi a sostegno di altri sovrani.
Il governatore, Diego Dávila Mesía y Guzmán, marchese di Leganés, ricambiò il suo impegno con un seggio nel Consiglio segreto e la nomina a sovrintendente generale delle fortificazioni (24 settembre 1636); inoltre, la corte accolse la sua richiesta di una carica di viceré, da concedersi quando se ne presentasse l’occasione (Simancas, Archivo general, Secretarías provinciales, lib. 1169, c. 58). Avviò i sopraluoghi alle fortezze e ospitò nel suo palazzo milanese di Porta Tosa la giunta istituita per trovare rimedi al dissesto finanziario. Trivulzio stava assumendo una fisionomia militare e politica che lo distingueva dagli altri porporati lombardi. Le nuove esperienze ne influenzavano la cultura e gli interessi. Tra le sue carte rimane un fascicolo manoscritto di sua mano, composto negli anni Quaranta, che riporta Sentenze e detti eruditi politici e civili. È un repertorio di frasi aforistiche sul tema della ragion di Stato, tutt’altro che originale, interessante tuttavia per l’attenzione rivolta all’ambito militare e ai suoi risvolti sociali e psicologici (Milano, Archivio Fondazione Trivulzio, Araldica, b. 30).
La fitta corrispondenza con il marchese di Leganés nella campagna del 1638 mostra la competenza acquisita da Trivulzio, che aveva il compito, con il grado di gobernador de armas, di raccogliere milizie urbane e forensi da inviare a difesa dell’Oltrepò. Rimasto a Milano, di fatto sostituiva il governatore, dispensandogli i suoi consigli. L’incarico gli fu rinnovato nel 1639, con stipendio di 500 scudi mensili cui si aggiungevano una pensione di 3000 scudi annui (destinata ad accrescersi) e un’altra di 2000 per il figlio.
Nell’aprile del 1640 il marchese di Leganés, dopo una serie di insuccessi, subì la clamorosa sconfitta a Casale; nell’attesa dell’arrivo di Juan de Velasco de la Cueva y Pacheco, conte di Siruela, destinato dal duca di Olivares, a rimpiazzarlo, le rappresentanze dei corpi dello Stato si affidarono a Trivulzio per ottenere dal sovrano la riforma del settore militare e il sospirato alivio fiscale. Il conte di Siruela manifestò la sua contrarietà per il potere acquisito dal cardinale, ma si trovò in difficoltà per i contrasti con gli alti ufficiali. Trivulzio ottenne invece il permesso di recarsi a corte, dove fu accolto da Filippo IV con espressioni di alta considerazione. Nell’affidargli il governo del Regno di Aragona (novembre 1642) gli fece dono dello splendido Libro de Horas, capolavoro di miniatura fiamminga appartenuto a Juana Enríquez, madre di Ferdinando il Cattolico, oggi conservato nella Biblioteca del Palacio Real di Madrid (il frontespizio aggiunto per l’occasione reca la dedica in latino).
In Catalogna alla sollevazione aveva fatto seguito la proclamazione della repubblica sotto la protezione del re di Francia. La richiesta di uomini e risorse finanziarie metteva a dura prova il Regno aragonese, dove il viceré Francesco Maria Carafa, duca di Nocera, era stato destituito con l’accusa di connivenze filofrancesi. Trivulzio dovette far fronte alle tensioni costituzionali causate dall’incremento delle richieste contributive, inaspritesi dopo la caduta di Perpignan (dicembre 1642). Quando fu sollevato dal suo incarico, sul finire del 1643, la statura di uomo di governo della monarchia gli venne riconosciuta con la promessa del grandato di Spagna esteso anche ai suoi discendenti. Dal sovrano ebbe anche rendite sui benefici ecclesiastici e una pensione di 4000 ducati, destinata a incrementarsi.
Ben consapevole del prestigio acquisito, fece il suo ingresso a Roma vestito alla spagnola (6 agosto 1644) per partecipare al conclave seguito alla morte di Urbano VIII. Il matrimonio di Ercole con Orsina Visconti Sforza, figlia della marchesa di Caravaggio Maria Aldobrandini (1639) assicurò importanti alleanze; iniziò una durevole amicizia con Olimpia Aldobrandini, principessa di Rossano, destinata a sposare in seconde nozze Camillo Pamphili, nipote di Innocenzo X. Nel palazzo degli Aldobrandini di piazza Colonna Trivulzio avrebbe trovato dimora nei suoi soggiorni romani.
A Milano ebbe conferma degli stipendi di generale dell’esercito e di sovraintendente alle fortificazioni, mentre la carica di gobernador de armas passò al figlio, con la raccomandazione che non si esponesse a rischi «siendo unico de su casa, y sin sucesión» (Archivio di Stato di Milano, Trivulzio, Arch. Milanese, 249, 15 ottobre 1646). Nel 1647, anno delle sollevazioni antispagnole e della bancarotta della Corona, il principe Ercole si mise in luce facendo leve di soldati e fortificando, sempre a sue spese, Lodi e Pizzighettone.
Sul finire dell’anno Trivulzio fu destinato al governo della Sicilia come presidente del Regno e capitano generale. Per ordine del sovrano fece sosta a Napoli, dove fu coinvolto nelle vicende della rivoluzione napoletana con un ruolo non secondario, secondo la cronaca del suo segretario Agostino Nicolai. Dopo aver esortato il viceré, Rodrigo Ponce de Léon y Álvarez de Toledo, duca d’Arcos, a una maggiore risolutezza nella fase iniziale del tumulto, lo avrebbe indotto a non precludersi la possibilità di un accomodamento. Un’altra testimonianza conferma che fu ispiratore della strategia spagnola: temporeggiare, e intanto fortificare e munire di provviste il palazzo e Castel Nuovo rendendoli inespugnabili, per poter poi stroncare la rivolta (Tutini - Verde, 1997, pp. 140, 218).
Nel frattempo Pedro Fajardo de Zúñiga y Requesens, marchese de los Vélez morì a Palermo il 3 novembre 1647. Durante il suo mandato in Sicilia, fino al dicembre del 1648, Trivulzio affrontò le insorgenze popolari che aggravavano un quadro già critico per i conflitti tra le fazioni nobiliari, l’ostinata difesa di privilegi e la rivalità tra la capitale e Messina. Filippo IV concesse a quest’ultima, premiandone la fedeltà, la escala franca per il suo porto (1648) ed egli dovette ricorrere a ogni cautela per applicare le disposizioni reali senza provocare la reazione dei palermitani. Di fronte alle sollevazioni cercò di prendere tempo e trattare. D’altra parte, in una lettera al re (6 aprile 1648), attribuì alla decisione di reprimere duramente il tumulto di Randazzo la responsabilità della rivolta dell’agosto del 1647. Nel caso di Girgenti fece ricorso alla mediazione di religiosi per ottenere la promessa di obbedienza, ma di fronte a una nuova ribellione decretò diciassette sentenze capitali. Al fine di sgomberare la grande piazza del Palazzo Reale di Palermo fece abbattere tre chiese e costruire, a difesa della residenza dei viceré, due bastioni muniti di artiglieria; su entrambi fu apposto lo scudo marmoreo con il suo blasone. Non mancarono elogi ispirati al topos del principe energico e prudente («camminava di notte sconosciuto, per udire come gli abitanti pensassero della sua maniera di governare...», Di Blasi, 1847, pp. 172).
Dopo aver accolto a Palermo don Giovanni d’Austria (a fine settembre del 1648), Trivulzio ebbe la nomina a viceré di Sardegna. In qualità di protettore dell’Ordine gerosolimitano si recò in visita a Malta, prima di approdare a Cagliari. L’isola era insidiata da incursioni dei francesi e dei corsari barbareschi, ma la carenza di risorse impediva di potenziare le difese costiere e le piazzeforti. Le richieste di denaro e cereali per sostenere la Unión de armas avevano generato tensioni negli stamenti del Parlamento, sollecitato a deliberare i sussidi; inoltre, la concessione di asientos per le galere, fonte di importanti entrate, dava luogo a brogli ai danni del Fisco regio. Tutto concorreva a inasprire i contrasti tra i ceti privilegiati e la Corona, che affidò al letrado aragonese Pedro Martínez Rubio l’incarico di svolgere una visita general. Sostenendone l’azione Trivulzio entrò in conflitto aperto con una parte dell’aristocrazia: fece mettere agli arresti il capo della consorteria dei Castelvì, Bernardo Mattia Cervellon, ma questi, che aveva militato in Fiandra e ricoperto nell’isola il governo interinale, ottenne dal sovrano la libertà. Più efficace fu l’azione di Trivulzio contro i falsificatori di monete, che si nascondevano nelle chiese campestri di Gallura con la complicità del clero. Lasciò la Sardegna nel 1651, affidandone a Martínez Rubio il governo interinale, fino all’arrivo di Beltrán Vélez de Guevara.
La rilevante vendita dei feudi camerali effettuata a Milano per reperire le risorse necessarie alla difesa dello Stato aveva offerto a lui e al figlio ottime opportunità di incrementare il patrimonio fondiario. Dopo l’acquisto di Gorgonzola e dei beni devoluti nel 1645 per morte del conte Giacomo Teodoro Trivulzio il cardinale profittò delle alienazioni effettuate nel 1647-48 per assicurarsi altre terre a Maleo e nel Lodigiano. In seguito avrebbe esteso le sue proprietà nella Gera d’Adda (1653). L’encomiastica trivulziana aveva preso slancio durante il suo soggiorno in Sicilia.
Pio Muzio, benedettino nel monastero di S. Simpliciano, dedicò a Ercole un’estesa Historia Triultia; Giovanni Pietro de’ Crescenzi Romani concludeva il suo Anfiteatro romano (Milano s.d.), con una genealogia millenaria del casato che risaliva a Faramondo, primo re dei Franchi Salii, e alla leggendaria provenienza dalla città di Troia. L’astronomo Francesco Blasi offriva a Trivulzio, presumibilmente nel 1651-52, un prezioso manoscritto sul suo oroscopo, con tavole accuratissime che ne interpretavano la vita trascorsa e quella a venire (Archivio di Stato di Milano, Galletti, ms. 7). Marco Antonio Baratteri gli presentò, nel 1650, una carta dei territori di Melzo e Lodi; suo figlio Giovan Battista, anch’egli ingegnere e cartografo, ne approntò un’altra del Lodigiano.
Il mecenatismo di Trivulzio si manifestava soprattutto a Melzo, nobilitata con interventi artistici e architettonici: la residenza del casato, di origine medievale, fu trasformata in un sontuoso palazzo; il convento dei cappuccini dedicato alla Madonna della Neve fu arricchito con opere d’arte, tra le quali un affresco attribuito a Giovan Battista Crespi, detto il Cerano; fu abbellita la chiesa di S. Andrea e si avviò la costruzione di una nuova basilica. A Codogno già nel 1626 Trivulzio aveva affidato a Barattieri la costruzione della chiesa di S. Maria delle Grazie, annessa al convento dei francescani riformati.
In seguito al richiamo a corte di Rodrigo Diaz de Vivar Gómez de Sandoval y Mendoza, duca dell’Infantado, Trivulzio tenne l’ufficio di ambasciatore del re cattolico presso la S. Sede negli anni 1653 e 1654. Qualità confacenti al ruolo gli erano riconosciute anche da parte francese: l’ambasciatore Henry d’Estampes de Valençay lo giudicò «valente nelle materie politiche», «disinvolto et manieroso et indifesso nel negotiare» (aggiungendo: «gli manca la pietà», Istruzione..., 1652, c. 259r); il cardinale di Retz scrisse che egli era forse il soggetto più capace nel Sacro Collegio. Alla gestione degli affari correnti si aggiungevano questioni spinose. Il viceré di Napoli Iñigo Vélez de Guevara, conte di Oñate, gli imputò il fallimento dei suoi ripetuti tentativi per ottenere da Innocenzo X la rimozione dell’arcivescovo, cardinale Ascanio Filomarino. La nutrita corrispondenza con il Consejo de Estado durante l’incarico (Simancas, Archivo general, Estado, leg. 3024-3026) evidenzia la preoccupazione costante riguardo alle trame dei Barberini. Al termine dell’incarico, Trivulzio nel febbraio del 1654 accoglieva il duca di Terranova, nuovo ambasciatore; agli inizi di marzo, insieme stabilivano con Gian Lorenzo Bernini l’invio all’Escorial del suo Cristo crocifisso e la relativa retribuzione.
L’esperienza diplomatica a Roma aveva confermato la sua fedeltà agli Asburgo, allarmati per l’adesione degli altri cardinali lombardi (Luigi Omodei, Giberto Borromeo e Benedetto Odescalchi) alla fazione ‘indipendente’ chiamata squadrone volante. Tornò a Milano fregiandosi di nuovi riconoscimenti: Ferdinando III, nel confermare il possesso di Mesocco e Mesolcina (2 gennaio 1654) aveva concesso a lui e al figlio il titolo di Illustrissimo, erigendo il loro feudo di Retegno a baronia del Sacro Romano Impero, con diritto di battere moneta.
Appena rientrato, Trivulzio fu coinvolto in un episodio dai contorni poco chiari: avvisò il governatore Luis de Benavides Carrillo, marchese di Caracena di aver ricevuto la visita inaspettata del nobile milanese Antonio Birago, venuto a parlargli di un piano ispirato dal cardinale Mazzarino, in accordo con gli alleati italiani, per cacciare gli spagnoli. Al cardinale, l’unico grande in grado di raccogliere l’eredità visconteo-sforzesca, offrivano il titolo di duca, al principe suo erede la mano della figlia di Francesco I d’Este. Il Consejo de Estado ridimensionò il complotto e ribadì che Trivulzio era al di sopra di ogni sospetto (Simancas, Archivo general, Estado, leg. 3373, consulta del 23 agosto 1656).
Il marchese di Caracena intanto aveva suscitato scontento a corte per la sua avventata invasione del Modenese (marzo 1655) e per i continui contrasti con l’arcivescovo Alfonso Litta; fu destinato al comando dell’esercito nelle Fiandre e il governo interinale, in attesa dell’arrivo di Alfonso Pérez de Vivero y Menchaca, conte di Fuensaldaña da Bruxelles, fu assegnato a Trivulzio (2 dicembre). Egli prese possesso della carica il 1° di aprile 1656 in una congiuntura drammatica: erano entrati in guerra Francesco I d’Este e Oliver Cromwell; i francesi erano alle porte di Milano; le rappresentanze dello Stato lamentavano l’‘abisso di miserie’ causato dai carichi fiscali e dagli alloggiamenti.
L’incarico ad interim comportava una retribuzione pari alla metà di quella spettante a un ‘governatore proprietario’, ma il cardinale pretese di ricevere «il soldo per intiero, come lo haveva tenuto in Sicilia et altre parti» (Archivio di Milano, Uffici regi, parte antica, cart. 63, lettera del Magistrato ordinario a Filippo IV del 9 maggio 1656); Filippo IV, con un decreto del 4 maggio accolse l’istanza. La nomina di un governatore ‘naturale’ rianimava le speranze dei lombardi, ma le disperate richieste di Trivulzio non potevano ottenere aiuti sostanziali dal vertice della monarchia; era lo stesso valido, don Luis de Haro, professandosi suo verdadero servidor, a inviargli le notizie delle difficoltà su tutti i fronti, in Europa e Oltremare. Le ultime speranze erano rivolte all’Impero: si cercava di convincere Ferdinando III a rompere la pace di Münster, ma solo il 15 luglio 1656 egli si decise a imporre un ultimatum al duca di Modena. Questi non desistette dall’assedio di Valenza, che avrebbe espugnato il 13 settembre.
Mentre portava soccorso a quella piazzaforte Trivulzio morì a Pavia il 3 agosto. Fu sepolto nella chiesa milanese di S. Stefano in Brolio, nella cappella di giuspatronato della famiglia.
Le opere che lo ritraggono tramandano una fisionomia austera e volitiva: il busto bronzeo, forse di Dionigi Bussola, databile ai primi anni Cinquanta (Milano, collezione privata) e l’acquaforte (1656) di Giacomo Cotta, su disegno di Francesco Payno (Milano, Civica raccolta Bertarelli). Un ritratto giovanile a figura intera già alla Kleinberger Anderson Gallery di New York è attribuito a Luigi Miradori detto il Genovesino (Gregori, 1954, pp. 25 s.). La nutrita corrispondenza con il figlio rivela l’impegno di Trivulzio nella committenza, che includeva diversi artisti riconducibili alla scuola del Cerano e all’Accademia Ambrosiana (Giovanni Battista e Giovanni Francesco Lampugnani, Gerolamo Chignoli, Panfilo Nuvolone, Giovanni Andrea Bianchi detto il Vespino, Claudio Ferit). Costante risulta il ricorso a Fabio Mangone, ingegnere e architetto attivo nei maggiori cantieri milanesi. L’epistolario rivela, anche in questo ambito, il profilo di un uomo pragmatico, attento soprattutto alla rappresentazione delle glorie di famiglia e del proprio potere (Squizzato, 2013).
Il principe Ercole si rivolse a Filippo IV rivendicando mercedi per l’estremo sacrificio del padre e per i propri servicios in difesa di Milano. Alla rete di parentele si erano aggiunte quelle procurate dei matrimoni delle due figlie: Ottavia con Tolomeo Gallio, duca di Alvito; Caterina con Bernardino Cavazzi della Somaglia. Nel 1659 aveva ottenuto l’infeudazione delle valli retiche di Reno e Stossavia. Pareva destinato a un avvenire radioso, ma si era già messo in cattiva luce insistendo nella pretesa di avere, per il suo ufficio di gobernador de las armas, preminenze e soldo pari a quelli dei generali; la corte non volle concedergli un grado che, unito al Toson d’oro e al grandato di Spagna in suo possesso, lo avrebbe innalzato sopra tutti i comandanti spagnoli. Fu il nuovo equilibrio dei poteri determinatosi nello Stato di Milano a creare le condizioni della sua rovina. Il predominio dell’alleanza costruita da Bartolomeo Arese (presidente del Senato nel 1660) con i Visconti e i Borromeo si manifestava nel Consejo de Italia, nel Collegio cardinalizio, nelle magistrature milanesi e nelle alte cariche militari. Matteo Rosales, conte di Vailate, accusò il principe di fellonia per non aver respinto il nemico nel passaggio dell’Adda del 1658. Invano Ercole pretese che l’accusatore fosse punito (Madrid lo avrebbe assolto nel 1663). Radici più lontane aveva l’inimicizia del principe con il marchese Vercellino Maria Visconti, nata da una contesa per alcuni beni entrati nella dote di Orsina Sforza; la concorrenza per le cariche militari riaccese i rancori fino a una clamorosa sfida a duello, impedita dall’intervento degli armati del capitano di giustizia. Il principe rivendicò l’immunità dalla giustizia del governatore, Francesco Caetani duca di Sermoneta, ma questi tenne una linea ferma, approvata dal Consejo de Estado (Simancas, Archivo general, Estado, leg. 3378, luglio 1661). L’erede del grande cardinale fu messo agli arresti; non si era dimostrato all’altezza del prestigio del suo casato e fu proprio il suo potere a procurargli una punizione esemplare. Nell’agosto del 1664 giunse a Milano la notizia della sua morte, nel castello di Lodi; il segretario della Cancelleria, Carlo Francesco Gorani, commentò che del suo «infausto destino» sarebbe rimasta memoria «in perpetuo disinganno a chi pensa di fabricar altro sul fondamento dei meriti degl’Avi» (Madrid, Biblioteca nacional, Gorani, Memorie, I, c. 124).
Non risollevò il prestigio del casato il figlio di Ercole, Antonio Teodoro, nato dal suo matrimonio con Orsina Sforza: fu accusato di aver assoldato dei sicari per uccidere Antonio Rodríguez de Salamanca, giudice delle Monete. Nonostante le reiterate proteste dell’Ordine del Tosone (1669-71), il Consejo de Estado dichiarò che non si ammetteva esenzione per delitti così gravi. Non ebbe eredi dalla sua unione con Maria Josefa Vélez de Guevara figlia del conte di Oñate. Alla sua morte (1678), il patrimonio fu destinato ad Antonio Teodoro Gaetano Gallio, figlio di Ottavia Trivulzio e del duca d’Alvito, con l’obbligo di assumere anche il cognome del casato materno.
Fonti e Bibl.: Le fonti più consistenti si trovano nei seguenti depositi documentari: Archivio di Stato di Milano, Trivulzio - Archivio milanese; Milano, Archivio della Fondazione Trivulzio, Araldica; Milano, Archivio del Pio Albergo Trivulzio; Archivio storico civico - Biblioteca Trivulziana (cfr. G. Porro, Trivulziana, Catalogo dei Cod. manoscritti, Torino 1884, ad ind.); Simancas, Archivo General, Estado e Secretarías provinciales; Madrid, Archivo histórico nacional, Estado. Per gli incarichi di governo in Sicilia, Sardegna e Aragona, le fonti sono indicate negli studi segnalati in bibliografia. Le biografie si rifanno all’orazione funebre di A. Porro, Il massimo Trivulzio, Lodi 1657; segnala alcuni suoi scritti F. Argelati, Bibliotheca scriptorum Mediolanensium, II, Milano 1745, coll. 1530-1532. Milano, Biblioteca Ambrosiana, Mss., R.84 sup.: P. Muzio, Historia Triultia; Biblioteca apostolica Vaticana, Vat. lat., 8354: Istruzione per gli ambasciatori che assisteranno nella corte di Roma... (Henry d’Estampes de Valençay) (1652), cc. 241r-264r; Madrid, Biblioteca nacional, Mss. 2671: C.F. Gorani, Memorie, I, cc. 123-124; Cagliari, Biblioteca comunale, Mss.: G. Aleo, Historia cronologica y verdadera de todos los sucesos [...] en la Isla y Reyno de Serdeña del ano 1637 al ano de 1672, passim; Roma, Biblioteca Casanatense, Mss., 1831-1833: T. Ameyden, Diario della città, e corte di Roma..., passim.
Auree Spiche raccolte da Academici Novelli, in morte dell’Ill.mo Conte Teodoro Trivultio, Lodi 1608; G.P. Crescenzi Romani, Anfiteatro romano, Milano s.d., ad ind.; A. Nicolai, Historia [...] dell’ultime rivolutioni della città e Regno di Napoli, Amsterdam 1660, passim; G. Brusoni, Della historia d’Italia libri XLVI [...] dall’anno 1625 fino al 1679, Torino 1680, passim; G. Palermo, Guida istruttiva [...] della città di Palermo, III, Palermo 1816, ad ind.; P. Litta, Trivulzio di Milano, in Famiglie celebri d’Italia, VII, Torino 1820, tavv. I-IV; G.E. Di Blasi, Storia del Regno di Sicilia, III, Palermo 1847, pp. 171-181; Relazione del Signor Bertuccio Valier ambasciator [...] al Ser.mo Cardinal Infante, 1633, in Relazioni degli ambasciatori veneti..., a cura di A. Segarizzi, II, Bari 1913, p. 93; A. Giulini, Per la storia della peste manzoniana, in Archivio storico lombardo, L (1923), pp. 503-505; L. von Pastor, Storia dei papi, XIII, Roma 1931, pp. 407, 714; M. Gregori, Alcuni aspetti del Genovesino, in Paragone Arte, LIX (1954), pp. 7-29; J. Mateu Ibars, Los Virreyes de Cerdeña. Fuentes para su estudio, II, (1642-1720), Padova 1968, pp. 70-74; E. Solano Camón, Poder monárquico y estado pactista (1626-1652). Los aragoneses ante la Unión de Armas, Zaragoza 1987, ad ind.; G. Signorotto, Il marchese di Caracena al governo di Milano (1648-1656), in Cheiron, 1992, vol. 17-18, pp. 135-181; R. Canosa, Milano nel Seicento. Grandezza e miseria nell’Italia spagnola, Milano 1993, ad ind.; M. Rizzo, I cespiti di un maggiorente lombardo del Seicento: Ercole Teodoro Trivulzio e la milizia forese, in Archivio storico lombardo, CXX (1994), pp. 463-477; Chr. Weber, Legati e governatori dello Stato pontificio (1550-1809), Roma 1994, p. 738; G. Signorotto, Milano spagnola. Guerra, istituzioni, uomini di governo (1635-1660), Milano 1996, ad ind.; C. Tutini - M. Verde, Racconto della sollevatione di Napoli accaduta nell’anno 1647, a cura di P. Messina, Roma 1997, ad ind.; S. Villa, Melzo durante la signoria dei Trivulzio, in Storia di Melzo, II, Melzo 2002, pp. 139-173; M. Marubbi, Il cardinale Teodoro Trivulzio e la scena urbana a Cologno, in Arte lombarda, CXLI (2004), pp. 26-30; A. Spiriti, La colonna infame fra iconologia, lotta politica e codificazione letteraria: spunti di riflessione, in Annali manzoniani, n.s., VI (2005), pp. 55-79; Cardinal de Retz, Œuvres complètes, III-V, Paris 2007, ad ind.; D. Palermo, Sicilia 1647. Voci, esempi, modelli di rivolta, Palermo 2009, ad ind.; F. Manconi, Cerdeña. Un reino de la Corona de Aragón bajo los Austria, València 2010, ad ind.; Die Diarien und Tagzettel des Kardinals Ernst Adalbert von Harrach, a cura di K. Keller - A. Catalano, I-VI, Wien 2010, ad indices; E. Roveda, Uomini, terre e acque. Studi sull’agricoltura della ‘Bassa lodigiana’ tra XV e XVII secolo, Milano 2012, ad ind.; A. Squizzato, I Trivulzio e le arti. Vicende seicentesche, Milano 2013, ad ind.; G. Signorotto, L’apprendistato politico di Teodoro Trivulzio, principe e cardinale, in Libros de la Corte, I ( 2014), pp. 337-359; C. Trivulzio, Poesie, a cura di G. Alonzo, Bologna 2014, ad ind.; J.J. Lozano Navarro, Intereses familiares y servicio a la Monarquía: el cardenal Teodoro Trivulzio, embajador en Roma, in Familias, élites y redes de poder cosmopolitas de la Monarquía hispánica en la edad moderna, a cura di F. Sánchez-Montes González - J.J. Lozano Navarro - A. Jiménez Estrella, Granada 2016, pp. 195-218; A. Malcolm, Royal favouritism and the governing elite of the Spanish monarchy 1640-1665, Oxford 2017, pp. 34, 122.