Trissino, Gian Giorgio
Gian Giorgio Trissino, nato a Vicenza nel 1478 e morto a Roma nel 1550, è uno dei letterati di maggior rilievo della prima metà del Cinquecento (➔ Umanesimo e Rinascimento, lingua dell’) e il più importante esponente, nell’ambito della ➔ questione della lingua, della corrente cosiddetta italianista, che si ricollegava alla teoria cortigiana (➔ cortigiana, lingua), opposta alla linea tosco-fiorentina.
Di famiglia nobile, Trissino studiò il greco a Milano con Demetrio Calcondila. Sia la sua produzione letteraria, sia la sua riflessione teorica sul volgare, tra loro strettamente connesse e coerenti, rivelano un indirizzo classicistico ellenizzante, teso ad anteporre il modello greco a quello latino (Lieber 2000). Al filellenismo letterario corrispose, sul piano politico, la sua posizione favorevole all’Impero piuttosto che alla Repubblica di Venezia, che lo costrinse per qualche tempo all’esilio. Soggiornò a Ferrara, a Firenze e a Roma presso la corte papale, svolgendo anche varie missioni diplomatiche per Leone X, Clemente VII e Paolo III.
Tra le opere poetiche di Trissino vanno ricordate la Sophonisba (scritta nel 1512-1515 e pubblicata nel 1524; cfr. Cremante 1988: vol. 2°, 1-162), la prima tragedia ‘classica’ (Ferroni 1980), ispirata ai principi aristotelici esposti poi dallo stesso autore nella Pωetica (le cui prime quattro Divisioni furono pubblicate nel 1529; la quinta e la sesta, postume, nel 1562; cfr. Weinberg 1970: vol. 1°, 21-158; vol. 2°, 5-90); le Rime (1529), che presentano significative sperimentazioni sul piano metrico (Quondam 1980); l’Italia liberata da’ Gotthi (1547-1548), ampio poema in endecasillabi sciolti di ispirazione omerica, che tratta della guerra tra Bizantini e Ostrogoti (535-539) sulla base della narrazione dello storico Procopio di Cesarea (Lentini 1950; Gigante 2003; Musacchio 2003; Vitale 2010); la commedia I simillimi (1548), tratta dai Menaechmi di Plauto (per la bibliografia completa delle edizioni delle opere e degli studi su Trissino, cfr. Corrieri 2010).
Le idee linguistiche di Trissino sono espresse soprattutto nel dialogo Il Castellano (1529), ambientato a Roma nel 1521, in cui le posizioni dell’autore, espresse da Giovanni Rucellai, comandante della fortezza papale di Castel Sant’Angelo (da cui il titolo dell’opera) e appoggiate da Jacopo Sannazaro, si contrappongono a quelle del fiorentino Filippo Strozzi (Marazzini 1999: 51-55). Altrettanto importante (anche per l’eco che suscitò presso i contemporanei) è la sua traduzione, apparsa nello stesso anno (e senza che egli figurasse come traduttore), del De vulgari eloquentia di ➔ Dante, opera che lo stesso Trissino aveva riscoperto (nel codice Trivulziano 1088) e fatto conoscere a Firenze e a Roma (➔ storia della linguistica italiana). Si legano più direttamente al radicale tentativo di riforma ortografica proposto dall’autore (➔ alfabeto; ➔ ortografia) e a questioni di carattere grammaticale l’Epistola de le lettere nuωvamente aggiunte a la lingua italiana, la cui pubblicazione «segna, convenzionalmente, l’inizio della questione della lingua» (Castelvecchi 1986: XXV), i Dubbi grammaticali e la Grammatichetta (entrambi editi nel 1529, dopo la seconda edizione dell’Epistola).
Trissino propose alcune innovazioni ortografiche, da lui coerentemente applicate, se pure con alcuni ‘aggiustamenti di tiro’ e qualche oscillazione, nella stampa di tutte le sue opere e giustificate teoricamente nell’Epistola. Tali innovazioni (Migliorini 1950; Maraschio 1993: 214-216; Marazzini 1999: 57-59), significative anche perché dimostrano una considerazione del volgare come lingua non «del tutto svincolata dal circuito della comunicazione orale» (Pozzi 1989: 157), consistono anzitutto nell’introduzione delle lettere greche ε e ω per indicare le ➔ vocali medie aperte, distinte così dalle chiuse; successivamente (a partire dal Castellano e dai Dubbi grammaticali), per «amor di grecità» l’autore invertì «la assegnazione di ω / o, riservando la lettera greca al suono chiuso e la latina a quello aperto […]. Questo cambiamento, oltre a spezzare la simmetria del sistema, lo rendeva […] meno economico» (Castelvecchi 1986: XXII), data la maggior frequenza in italiano delle o chiuse.
Le reazioni alla pubblicazione nel 1524 dell’Epistola da parte di letterati toscani o filotoscani come Firenzuola, Tolomei, Martelli e Liburnio (tutte le opere sono edite in Richardson 1984) si concentrarono soprattutto su questi due segni, anche per le implicazioni che la loro adozione aveva nell’accoglimento del modello tosco-fiorentino (che Trissino non sempre aveva rispettato, stampando, per es., sωgno e sεnza) ed ebbero buon gioco nel dimostrarne la difficile applicabilità. Non va però dimenticato che Trissino propose anche la distinzione tra z sorda e sonora (quest’ultima da lui resa con ζ all’inizio e con ç all’interno di parola), tra i vocale e j semiconsonante, tra u e v. In seguito alle osservazioni di Tolomei, usò il segno ʃ per distinguere la s sonora e adottò le grafie ki (kiave, ma anche burki «barche da carico»), lj (volja) e, se pure con oscillazioni, ʃc (laʃcia). Trissino non rinunciò peraltro a lettere da lui definite «oziose», come x, y, th, ph, h etimologica o pseudoetimologica, del resto ben diffuse nel Rinascimento (Migliorini 1957), nella Grammatichetta oppose inoltre «zi, tenue, a czi, intensa» (Castelvecchi 1986: 195) e nel poema alternò ti, zi e z (delitie e delizie, sustanzia e sustanza; cfr. Vitale 2010: 68).
Oltre alle proposte ortografiche, gli interventi di Trissino nella questione della lingua si legano al problema, apparentemente solo nominalistico, in realtà denso di implicazioni teoriche (Giovanardi 1998: 75-108), della scelta del glottonimo per indicare il volgare.
Trissino parla di lingua italiana già a proposito della Sophonisba, dove però l’aggettivo non si contrappone a fiorentina o a toscana, ma piuttosto a latina e a greca (Castelvecchi 1986: XIV), e nella sua traduzione del De vulgari eloquentia rende con volgare italiano il vulgare latium dantesco (vulgare curiale è invece tradotto con lingua cortigiana). Se nell’Epistola Trissino distingue «la pronuntia toscana, ε la cortigiana, le quali sεnza dubbio sono le più belle d’Italia», nel Castellano elabora il concetto «di una lingua italiana come codice generale della comunicazione, antica e moderna, scritta e parlata» (Castelvecchi 1986: XLI).
Basandosi sulla differenza aristotelica tra genere e specie, ma anche sul De vulgari eloquentia, Trissino propone una classificazione linguistica in sette livelli, alla sommità della quale pone la lingua italiana, che include le lingue regionali (tra cui la toscana), le cittadine (la fiorentina), le circondariali, le rionali, le familiari, fino ai singoli idioletti. La convergenza verso il codice italiano si attua, secondo l’autore, sia «per progressiva rimozione di pronunzie e parole di ciascun livello, che si può applicare grado per grado», sia anche «per progressiva mescidazione delle lingue ad esso sottostanti» (Castelvecchi 1986: XLIII).
Gli studi hanno sottolineato soprattutto quest’ultimo aspetto, rilevandone la distanza dal principio di selezione dantesco; certo Trissino non risolve del tutto l’aporia, se non «attraverso il recupero di tutta la tradizione letteraria antica in quanto tradizione linguisticamente italiana» (ibid.: XLVI); in tal modo arriva a delineare «uno spazio linguisticamente non municipale per la poesia italiana» (ibid.: XLV), saldando in un sol blocco «i siciliani, la lirica toscana del Duecento, i grandi poeti del Trecento, gli autori moderni non vernacolari» (ibid.: XLVII). Per Trissino, dunque, l’italianità è «un dato immanente, già costituito e operante nella tradizione antica e moderna» (ibid.: XLVIII), mentre la fiorentinità è rifiutata (col supporto della condanna dantesca) nei suoi aspetti più municipali (esemplificati da voci come testé, costinci, cotesto, allotta, suto).
La concezione trissiniana comportava un eclettismo nelle scelte linguistiche concrete difficilmente ricevibile in un momento di normazione grammaticale (➔ norma linguistica). In effetti, la Grammatichetta, che si caratterizza intenzionalmente, rispetto alle Regole di Fortunio e al III libro delle Prose di Bembo, come un modello di grammatica del volgare priva di exempla d’autore, risulta normativamente debole perché accoglie più forme (per es., nella seconda persona del presente congiuntivo: ami e ame; scrivi, scrive e scriva; apri, apre e apra), accordando solo in certi casi (come nel condizionale in -ìa invece che in -èi) la preferenza alle forme ‘italiane’ piuttosto che alle toscane. La peculiarità della Grammatichetta, che è stata di recente valutata positivamente sotto vari aspetti (come punto di riferimento normativo della teoria cortigiana; Giovanardi 1998: 111-137; per la corretta individuazione delle varie classi nominali: D’Achille 2001), si rileva anche nel fatto che registra, senza censure (unico caso nel XVI secolo), i pronomi lui e lei in funzione di soggetto (➔ personali, pronomi; ➔ soggetto).
Piena coerenza con le idee linguistiche mostra la prassi scrittoria di Trissino, che adotta elementi propri del fiorentino letterario trecentesco (il ➔ dittongo in truovo, le forme anafonetiche, la prevalenza di -er- protonico su -ar-, la desinenza in -a della prima persona singolare dell’imperfetto indicativo, ecc.; cfr. Trovato 1994: 108), ma che, nell’Italia liberata da’ Gotthi,
in ossequio all’esempio omerico, che concreta una miscidanza linguistica ellenizzante, in conformità con la sua teorizzazione dell’italiano “comune” e in coerenza con il dettato aristotelico […], inserisce, sull’impianto espressivo di fondo di carattere letterario, modi retoricamente “forestiεri” i quali, sempre secondo Aristotele, si addicono alla “poesia heorica” (Vitale 2010: 212)
Si hanno così ➔ dialettismi e ➔ cultismi latineggianti e grecizzanti, spesso alternati a forme proprie della tradizione letteraria di base tosco-fiorentina. Sul piano fonetico si incontrano latinismi (ditte, bulla, injuria, ripa, retine «redini», venenω) e forme di matrice dialettale (desnove «diciannove», deti «dita», spωnghe e spunga «spugne» e «spugna», piffari «pifferi», Teʃinω accanto a Ticinω, pωpulazω, ducadi «ducati», stadω e statω, giacciω «ghiaccio», calzi «calci», Bressa ««Brescia»), ipercorrettismi (sciεde «siede», abbaljar «abbaiare», piaccia «piazza»). Frequenti gli scempiamenti consonantici (rica, riche e richeza, pagiω «paggio», capεllω «cappello, elmo») e le indebite geminazioni (bucca «buca», ruggiada, callare «calare», cωllanna).
Nella morfologia si hanno numerosi settentrionalismi nei pronomi (harestù, i per li oggetto plurale di terza persona, il possessivo soi) e nel sistema verbale (dove si registrano, per es., forme come tenir «tenere», pωssete «potete», vuo accanto a vo’ e voljo, le desinenze della prima persona plurale del presente indicativo in -emo e della terza plurale in -eno, messe «mise», andete «andò», la desinenza della terza persona plurale dei perfetti in -oro e quella della prima persona singolare del congiuntivo imperfetto in -e, ecc.).
Nel lessico, accanto a voci dialettali (anadrotti «anatroccoli», bωrre «tronchi d’albero», cappe «biche», di sbrissω «di striscio»), Vitale (2010) segnala latinismi rari, alcuni dei quali (ωssεssa «assediata», nepharii «scellerati») hanno riscontri nella Hypnerotomachia di Francesco Colonna (➔ pedantesca, lingua), nonché tecnicismi militari (ginetta «giannetta, lancia corta», spalazi «parte dell’armatura che protegge le spalle») e architettonici (suggestω «palco, tribuna», ζophωrω «fregio»), ricordando, per questi ultimi, che Trissino fu maestro del Palladio.
Le idee linguistiche e letterarie di Trissino furono fortemente avversate dai contemporanei, ma trovarono anche sostenitori sia al Nord (Trissino compare come personaggio, esprimendo idee coerenti con i suoi scritti, nel Dialogo della volgar lingua del bellunese Pierio Valeriano), sia nella stessa Firenze, nella cerchia di Giovanni Rucellai (Pozzi 1989), non a caso portavoce delle idee dell’autore nel Castellano. Anche il suo poema, secondo ➔ Torquato Tasso, fu ben presto «mentovato da pochi, letto da pochissimi» (Vitale 2010: 214).
Certamente la particolare veste ortografica non favorì la diffusione delle opere di Trissino, il cui ambizioso progetto linguistico-letterario risultò senz’altro perdente rispetto alla linea tosco-fiorentina rappresentata da ➔ Pietro Bembo, ➔ Benedetto Varchi e ➔ Lionardo Salviati. Va detto però che Il Castellano, ristampato più volte secondo l’ortografia tradizionale, continuò a fornire materia di discussione al dibattito linguistico almeno fino a ➔ Alessandro Manzoni e che alcune idee antitoscane della linea cortigiana-italianista in cui Trissino si inserisce si ritrovano in ➔ Vincenzo Monti e poi ancora in ➔ Graziadio Isaia Ascoli (Giovanardi 1998: 241-243). Quanto all’Italia liberata da’ Gotthi, fu apprezzata nel Settecento da Gian Vincenzo Gravina ed ebbe varie edizioni nel corso del secolo e poi nell’Ottocento.
Infine, se si pensa al fatto che la poesia epica adottò – già con la traduzione dell’Eneide di Annibal Caro (1563-1566) e più tardi con Ippolito Pindemonte, Vincenzo Monti e Ugo Foscolo – l’endecasillabo sciolto, che il glottonimo italiano ebbe alla fine la meglio su fiorentino e toscano e che l’ortografia, nel corso del XVII secolo, accolse la distinzione tra ‹i› e ‹j› e soprattutto (e stabilmente) quella tra ‹u› e ‹v› (Migliorini 1960: 465-466), bisogna concludere che l’ambizione di Trissino di «essere il legislatore della lingua e della letteratura italiane» (Pozzi 1989: 156; cfr. anche Dionisotti 1980) non andò, nel tempo, del tutto disattesa.
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