Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
Pochi artisti sono riusciti a incarnare compiutamente lo spirito di tutto un secolo come Bernini ha fatto con il Seicento: nell’immaginario collettivo egli è sinonimo di barocco. E forse nessun altro ha segnato il volto di una grande città tanto a fondo quanto Bernini quello di Roma.
La difficile eredità di Michelangelo aveva lungamente condizionato i successivi sviluppi della scultura romana che, all’inizio del Seicento, si manteneva ancora in larga misura fedele alla cultura tardomanierista, senza raccogliere le fondamentali novità elaborate in pittura da personalità come Caravaggio, Annibale Carracci e Rubens. Entro tale panorama un ruolo molto importante viene giocato dal padre di Gian Lorenzo, Pietro Bernini, scultore che ha una parte decisiva nel favorire e orientare la prodigiosa precocità del figlio: questi, da parte sua, manifesta immediatamente un forte interesse nei confronti della scultura antica, e in special modo di quella ellenistica, come testimoniano anche alcuni restauri di marmi antichi (Ermafrodito Borghese, Ares Ludovisi), compiuti durante la sua giovinezza.
Lo scultore non ha ancora compiuto vent’anni quando il cardinale Scipione Borghese, nipote di papa Paolo V, comincia a commissionargli alcuni grandi gruppi in marmo per la sua villa al Pincio. Se generalmente agli scultori dell’epoca è affidato il compito di realizzare statue da giardino o fontane monumentali, Scipione ordina a Bernini opere pensate per essere esposte nelle sale della galleria, a confronto diretto con le celebrate statue antiche della sua collezione e con i dipinti dei maggiori pittori moderni. Nel primo gruppo, l’Enea e Anchise fuggono da Troia , si sente ancora l’influenza di Pietro, che forse imposta la composizione, lasciando poi al figlio l’esecuzione, ma già nel secondo, il Plutone rapisce Proserpina, l’azione irruente e il trattamento morbido delle carni sono già pienamente “barocchi”. L’opera più celebre della serie è l’ultima, l’Apollo e Dafne, che illustra quel passo delle Metamorfosi di Ovidio nel quale la ninfa sta per essere mutata in alloro. L’Apollo del Belvedere è il modello per quello berniniano ma il gruppo Borghese, dove è espresso in modo ineguagliato il culmine di un’azione in corso di svolgimento, mostra una tensione dinamica ignota al mondo antico. I tre gruppi, oggi collocati al centro delle rispettive sale della Galleria Borghese, sono in realtà concepiti da Bernini per essere posti contro una parete, ed avere quindi un unico punto di vista privilegiato: si tratta quasi di rilievi scultorei a tutto tondo, pensati proprio per rivaleggiare con la pittura.
Agli occhi dei contemporanei apparve subito miracoloso il virtuosismo tecnico del Bernini nel differenziare le diverse superfici e l’apparente facilità con cui il marmo si presta a simulare la cedevole morbidezza dell’epidermide, le foglie sottili e i capelli mossi dal vento. La scultura, relegata in secondo piano agli inizi del Seicento, allorché i primi attori della scena artistica erano soprattutto i pittori, grazie a questi marmi diviene la vera protagonista del barocco romano.
“È gran fortuna, o cavaliere, di veder papa il cardinal Maffeo Barberino, ma assai maggiore è la nostra, che il cavalier Bernino viva nel nostro pontificato” (Baldinucci, 1682). Con tali parole, nel 1623, Urbano VIII, appena eletto al soglio pontificio, indicava eloquentemente quali sarebbero stati i propri orientamenti culturali. Il successo di Bernini è travolgente non solo nel campo della scultura ma anche in quello dell’architettura, della scenografia.
Nel 1624 è nominato architetto di San Pietro e intraprende la realizzazione del grandioso ciborio, il cosiddetto baldacchino, destinato a sovrastare la sepoltura di san Pietro. Si tratta di una monumentale struttura in bronzo parzialmente dorata, costituita da quattro colonne tortili che, sormontate da figure di angeli, vengono chiuse in alto da quattro volute alla cui progettazione prende parte Francesco Borromini. La forma evoca quella di un apparato effimero realizzato però con materiali destinati all’eternità.
I lavori si protraggono per quasi dieci anni concludendosi nel 1633 e la vastità dell’impresa comporta l’impiego di un numero notevole di collaboratori. Hanno l’opportunità d’emergere in tal modo le eccezionali doti di organizzatore di Bernini, che, nel frattempo, impianta una grande bottega dove, nel corso di oltre mezzo secolo, avrebbero lavorato tutti i maggiori scultori del Seicento romano.
Di qui in avanti l’artista è impegnato sempre più spesso in imprese monumentali, realizza cioè sculture che si devono integrare entro grandi spazi architettonici e, in molti casi, prevedono una visione a distanza. Il momento dell’ideazione prende così il sopravvento nei confronti di quello più specificamente esecutivo, affidato in larga parte agli aiuti. Nondimeno Bernini mantiene un controllo capillare su ogni fase dei lavori, intervenendo talvolta in prima persona a scolpire parti in apparenza secondarie, in realtà decisive nell’economia generale di una determinata impresa.
Contemporaneamente ai lavori al Baldacchino avvia la decorazione dei quattro giganteschi piloni che sorreggono la cupola di Michelangelo nella basilica di San Pietro, progettando, nella porzione inferiore di ciascuno, quattro grandi nicchie ove trovano posto le statue di San Longino, della Veronica, di Sant’Andrea, e di Sant’Elena. Riserva a se stesso soltanto l’esecuzione della prima, affidando le altre rispettivamente a Francesco Mochi, a François Duquesnoy e a Andrea Bolgi.
Longino, il legionario romano convertitosi dinanzi alla Croce, è rappresentato a braccia aperte, nel momento cruciale, allorché, levando gli occhi al cielo, esclama: “Quest’uomo è veramente il figlio di Dio”. La veemente tensione drammatica di questa gigantesca figura suscita nello spettatore un coinvolgimento emotivo così intenso e immediato da non avere precedenti nell’arte religiosa d’Occidente. Come sant’Andrea, anch’egli rivolge lo sguardo verso l’alto, verso il coronamento del grandioso baldacchino, dove avrebbe dovuto trovarsi una Cristo risorto, poi sostituito da una sfera per ragioni di sicurezza statica; al contrario sant’Elena e Veronica rivolgono lo sguardo verso il basso, verso cioè la mensa dell’altare posta sotto lo stesso baldacchino, dove è celebrato il mistero dell’Eucarestia. Le quattro statue dialogano così con il perno intorno al quale ruota ora tutto l’arredo della basilica, drammatizzando lo spazio della crociera nel quale è lo spettatore stesso a trovarsi coinvolto.
Anche la tecnica si adatta a tali mutate esigenze espressive. Le sottigliezze esecutive dell’Apollo e Dafne cedono il posto nel San Longino a una diversa lavorazione del marmo, più sintetica, meno rifinita, che lascia bene in vista i segni della gradina, conferendo un aspetto vibrante e chiaroscurato alle superfici destinate a essere viste da lontano.
Nel 1633 Bernini, dopo quasi dieci anni di lavoro nelle vesti di direttore del cantiere del baldacchino e della crociera di San Pietro, torna a misurarsi con lo scalpello in un’opera pensata per essere vista da vicino, e torna a farlo per il suo primo grande mecenate, Scipione Borghese, che gli commissiona il proprio ritratto (Roma, Galleria Borghese). L’artista, che a Roma nel corso degli anni Venti aveva licenziato numerosi busti di cardinali e principi, realizza uno dei suoi capolavori in quel genere, inaugurando una nuova e rivoluzionaria soluzione: il ritrattato è raffigurato con la bocca socchiusa, e quasi di tre quarti, a suggerire la transitorietà di un momento, un’azione in corso, quasi egli stesse parlando a qualcuno e si stesse muovendo. Le biografie dell’artista riportano infatti come in quel genere egli tenesse “un costume dal comune assai diverso” poiché “nel ritrarre alcuno non voleva ch’egli stesse fermo, ma ch’e’si movesse, e ch’e’parlasse, perché in tal modo, diceva egli, ch’e’vedeva tutto il suo bello, e lo contraffaceva com’egli era” (Baldinucci, 1682). Pur senza braccia, quindi, il busto ha una vitalità del tutto nuova, che Bernini riesce persino ad aumentare nel ritratto di Costanza Bonarelli (1636-38, Firenze, Bargello), di pochi anni successivo, amante infedele dello scultore, che ebbe l’onore di essere ritratta da Gian Lorenzo in un momento in cui molti potenti d’Europa avrebbero voluto un busto al grande artista senza poterlo ottenere, tante erano le commissioni da cui egli era oberato. Concepito come opera di destinazione privata, il ritratto di Costanza è un capolavoro quasi unico nella storia della scultura del Seicento europeo, che stupisce ancora oggi per l’immediatezza e la modernità. La donna è catturata nella realtà di un istante, come testimonia il volgersi improvviso del volto, lo schiudersi della bocca, l’ansia interlocutoria dello sguardo, come ad attendere una risposta che i ritratti di Bernini, abitatori di uno spazio che è il nostro, sembrano invariabilmente esigere. Nonostante l’artista, nella sua piena e tarda maturità, non acconsentisse più facilmente ad eseguire ritratti, sono i pontefici stessi a spingerlo, a volte per ragioni di opportunità politica, a piegarsi a quelle richieste: nascono così i busti, eseguiti sulla scorta di dipinti inviati allo scultore, del cardinale di Richelieu (1640-41, Parigi, Louvre) e di Carlo I d’Inghilterra (1637, distrutto nel 1698 nell’incendio del palazzo di Whitehall). Quello del più grande sovrano del tempo, Luigi XIV di Francia (Versailles, Musée du Château), Bernini lo avrebbe scolpito nel corso del suo soggiorno a Parigi del 1665, quando lascia Roma per l’unica volta nel corso della sua lunga carriera, acconsentendo al volere di Alessandro VII, che nulla può rifiutare al Re Sole in quel difficile momento.
Nel 1644 la salita al soglio pontificio di Innocenzo X Pamphilj, decretando la fortuna di Borromini, sembra segnare una battuta d’arresto nel percorso trionfale dell’artista che aveva ormai monopolizzato le più importanti imprese artistiche della capitale. Ma nel 1648, allorché si andava progettando una grande fontana per piazza Navona, grazie a uno stratagemma il modello elaborato da Bernini viene mostrato al pontefice e quest’ultimo, riconoscendo la superiorità dell’invenzione berniniana, dichiara che “a chi non vuol porre in opera le cose sue, bisogna non vederle” (Baldinucci, 1682).
Nella fontana dei Quattro Fiumi un obelisco antico poggia su di un plinto roccioso; con una soluzione compositiva tanto ardita quanto spettacolare il plinto è svuotato alla base, a suggerire una ingannevole precarietà della struttura, chiusa sui quattro angoli dalla raffigurazione allegorica dei quattro fiumi (Danubio, Nilo, Gange, Rio de la Plata) che alludono alle varie parti del mondo. Come già il baldacchino di San Pietro, anche la fontana dei Quattro Fiumi è una geniale fusione di architettura e scultura, nella quale peraltro la realizzazione delle divinità fluviali è lasciata completamente agli allievi del maestro.
Negli stessi anni, la Cappella Cornaro in Santa Maria della Vittoria (1644-1652) rappresenta la testimonianza più memorabile di come Bernini sia stato “il primo, che abbia tentato di unire l’architettura colla scultura e pittura in tal modo, che di tutte si facesse un bel composto” (Baldinucci, 1682). Nella Cappella Bernini scolpisce completamente da solo l’incredibile gruppo della Transverberazione di santa Teresa, mirabolante esercizio di virtuosismo tecnico. Negli anni in cui, ad opera del suo grande rivale, lo scultore bolognese Alessandro Algardi, si impone la fortuna di un genere nuovo della scultura monumentale, quello della pala marmorea, Bernini rifiuta di concepire l’immagine della santa in colloquio mistico con l’angelo come un rilievo, preferendo scolpirla a tutto tondo. Il confronto con la pittura, quindi, viene sempre affrontato da Bernini con le armi più tipiche dello scultore, senza mai arrivare a scimmiottare l’arte rivale realizzando una scultura bidimensionale. Gian Lorenzo è anche pittore, ma solo per diletto: di lui ci rimangono soprattutto ritratti, in particolare autoritratti, eseguiti al di fuori dei meccanismi che regolano il rapporto artista-committente. Nella Cappella Cornaro, quindi, le pitture della volta sono affidate a un allievo. Nel complesso della cappella confluiscono anche le esperienze in campo scenografico di Bernini: i membri della famiglia Cornaro, effigiati in busti di marmo che sporgono da piccoli palchi posti sulle pareti laterali, assistono infatti alla scena come a un avvenimento teatrale, reale e illusorio ad un tempo.
Bernini rinnova e reinventa tutti i generi della scultura: il gruppo mitologico, il busto-ritratto, la statua religiosa, la fontana e, naturalmente, anche il monumento funebre. Nel corso della sua carriera egli disegna e in parte realizza numerosi complessi funerari, ma i due più importanti sono senz’altro quelli posti, ancora una volta, in San Pietro. Si tratta dei monumenti funebri dei due pontefici ai quali è maggiormente legata la sua fortuna, Urbano VIII prima, Alessandro VII poi. Nella prima realizzazione Bernini gioca soprattutto sul contrasto tra le parti in bronzo, la figura del pontefice e il sarcofago, e quelle in marmo, le figure allegoriche laterali; nella seconda egli scardina lo schema triangolare, che proprio il monumento a Urbano VIII aveva imposto e che sarebbe poi stato ripreso infinite volte, fino almeno ad Antonio Canova, in favore di un disegno ancora più mosso, che trae profitto dalla difficile collocazione del complesso sopra una porta. Portate le figure allegoriche da due a quattro, ed eliminato il sarcofago, il monumento ha il suo elemento unificatore, e maggiormente caratterizzante, nel clamoroso motivo del panneggio rosso, realizzato in diaspro rosso di Sicilia, una nota squisitamente pittorica.
Negli anni della maturità Bernini ha l’occasione di realizzare tre chiese a pianta centrale, la più importante delle quali è senza dubbio Sant’Andrea al Quirinale. Posta a poca distanza da San Carlo alle Quattro Fontane, il primo capolavoro di Borromini, Sant’Andrea permette di misurare bene la distanza che divide Bernini architetto da uno dei suoi maggiori rivali sulla scena artistica della Roma del Seicento. Se Borromini mostra un’inesausta fantasia e inquietudine nel modulare, attraverso movimenti concavi e convessi, la pianta ovale di partenza, Bernini si rivela, al suo confronto, un architetto quasi classicista. L’interno di Sant’Andrea è caratterizzato prima di tutto dalla sua decorazione plastica e pittorica, concepita in stretto rapporto con l’architettura, e orchestrata secondo una sola idea unificatrice, quella di trasformare la chiesa nella scena del martirio e dell’ascesa in cielo del santo, realmente in atto sotto i nostri occhi, che si compie nel passaggio dalla pala d’altare alla scultura in stucco sopra il timpano dell’altare. Agli interni spogli e drammatici delle chiese di Borromini e Pietro da Cortona, Bernini oppone un tripudio di luci e colori ottenuto con l’unione delle tre arti del disegno.
Nella sua più importante realizzazione architettonica e urbanistica, la piazza di San Pietro, Bernini semplifica e affina ancora di più i suoi strumenti espressivi, materializzando l’idea semplicissima e grandiosa dell’abbraccio della Chiesa cattolica nei due lunghi bracci del colonnato, nei quali egli adotta il più sobrio degli ordini architettonici, il dorico, coronato da un’ininterrotta trabeazione. Ma ancora una volta è l’aggettivazione scultorea, con l’infinita sfilata dei santi in travertino disegnati da Bernini e realizzati dai suoi allievi, a connotare e animare tutta l’invenzione.
Spesso, a partire da Stendhal, si è insistito sulla ambigua qualità sentimentale della raffigurazione di santa Teresa nella Cappella Cornaro. In realtà Bernini segue fedelmente le parole della santa che ricordava come, in tale occasione, “il dolore fosse così intenso che io gridavo forte; ma contemporaneamente sentivo una tale dolcezza che mi auguravo che il dolore durasse in eterno. Era un dolore fisico ma non corporeo, benché toccasse in una certa misura anche il corpo. Era la dolcissima carezza dell’anima ad opera di Dio”.
La profonda sincerità della devozione che animava lo scultore è d’altra parte più volte testimoniata dai suoi contemporanei e trova modo di manifestarsi in termini grandiosi e perfino visionari, negli anni che vanno dal 1656 al 1678, allorché, in Vaticano, egli progetta e costruisce la cattedra e l’altare del Sacramento. Con la prima, un’opera in cui architettura, pittura e scultura non sono solo unite, ma fuse in un insieme difficile persino a descriversi, trova compimento la ridefinizione dell’interno di San Pietro, che nel suo aspetto attuale si deve molto di più a Bernini che non a tutti gli architetti che, nel corso del Cinquecento, si erano alternati nella direzione del cantiere architettonico: la basilica rinascimentale si trasforma, per sempre, in quella barocca che conosciamo ancora oggi. Lo sguardo del visitatore, appena varcata la soglia, è subito catturato, attraverso l’architettura possente ma leggera del baldacchino, dalla “gran macchina” della cattedra in fondo alla tribuna. Il trionfo della gloria di angeli dorati che circonda la finestra è espressione diretta dell’esplosione di gioia della religiosità seicentesca, al pari degli angeli dell’altare del Sacramento, le cui vesti esprimono in un’unica fiammata l’ardore di quel sentimento.