LUCINI, Gian Pietro
Nacque il 30 sett. 1867 a Milano, nella casa in cui aveva abitato C. Correnti, da Ferdinando Augusto e da Luigia Crespi, originaria di Busto Arsizio.
La casa del padre, ex garibaldino e cassiere della Cassa di risparmio di Milano, era frequentata da alcuni esponenti della Scapigliatura, soprattutto attivi sul versante democratico-radicale. Di qui ebbero inizio i rapporti, in alcuni casi molto intensi, del L. con numerosi scrittori, da C. Dossi, cui dedicò il volume L'ora topica di Carlo Dossi. Saggio di critica integrale (Varese 1911; riprod. in facsimile, Milano 2003) a F. Cameroni, il più strenuo difensore e propugnatore del naturalismo zoliano in Italia. Il bisogno di una intensa partecipazione alla vita culturale (moltissimi gli intellettuali con cui ebbe fitta corrispondenza) fu motivato anche dalla grave malattia, la tubercolosi ossea, che lo colpì nel 1876 all'età di soli nove anni e che per tutta la vita ne ostacolò la libertà di azione e di movimenti.
Nonostante queste difficoltà il 15 dic. 1892 il L. si laureò in legge con una tesi in filosofia del diritto (Considerazioni generali sull'azione dello stato in rapporto ai diritti dei privati), anche se decise, come si apprende in alcune pagine autobiografiche, di dedicarsi completamente all'arte. In una vita sostanzialmente priva di avvenimenti esterni (si possono ricordare due viaggi a Nizza e la partecipazione nella casa editrice Galli, dalla quale si ritirò nel 1898 con gravi perdite economiche), alternò ai soggiorni invernali a Varazze (dove pubblicò nel 1907, in due edizioni diverse, un Elogio di Varazze) quelli estivi nella villa di Breglia, sul lago di Como, dove visse dal 1892 con Giuditta Cattaneo, che sposò con rito civile il 2 maggio 1895.
Soprattutto come rivalsa nei confronti di un destino mai passivamente subìto il L. si impegnò in una fitta e accanita attività giornalistico-letteraria, animata da una volontà polemica di rottura e di opposizione. Collaborò con diversi quotidiani e riviste, fra cui Cronaca d'arte, La Domenica letteraria, La Giovane Italia, La Sfinge, Palcoscenico, Il Tesoro, Il Menestrello, Il Secolo XX, Iride, Anthologie-Revue, L'Educazione politica, Emporium, La Gazzetta letteraria, La Folla di P. Valera, la marinettiana Poesia, Lacerba, La Voce. Solo all'inizio degli anni Settanta del Novecento gli interventi di critico militante del L. sono stati raccolti in volume, per cui si vedano Libri e cose scritte, a cura di G. Viazzi (Napoli 1971: che riunisce le recensioni uscite in La Giovane Italia) e Scritti critici, a cura di L. Martinelli (Bari 1971).
Nel 1888 il L. pubblicò, in appendice alla Gazzetta agricola, il racconto Spirito ribelle, che aveva sullo sfondo, negli anni della crisi agraria, uno sciopero contadino trasformatosi in rivolta. L'interesse per i problemi sociali, affrontati nell'ottica di una condanna della repressione padronale e poliziesca, si traduceva in una narrazione condotta secondo i dettami del naturalismo zoliano, almeno per quel che riguarda la presenza di un protagonista "medio" e di uno stile dimesso. Ben diversa risultò la stesura successiva (Milano 1895; poi, in appendice a La ragione, Roma 1910), a partire dal titolo, Gian Pietro da Core, e dal sottotitolo, che proponeva l'opera come una Storia della evoluzione della Idea.
Con un significativo capovolgimento, l'evoluzionismo positivistico si era trasferito sul piano di un ideale che assumeva connotazioni e valenze simboliche, trasformando il protagonista, che ora dava il titolo al romanzo, in una sorta di predicatore o di profeta, staccato nettamente dalla massa contadina; anche il linguaggio, conseguentemente, diventava immaginifico e declamatorio, risentendo dei nuovi modi che stava imponendo la prosa dannunziana.
Nel frattempo il L. aveva approfondito e aggiornato la sua idea di letteratura, accostandosi alle poetiche del simbolismo francese, nate sulla scorta delle baudelairiane Correspondances, ma interpretandole e servendosene con una indubbia originalità, che fa di lui il più accreditato corifeo di una poco nota via italiana al simbolismo (intendendo per tale la consapevole esibizione e rivendicazione di una poetica, non solo un'adesione istintiva e marginale, come nel caso di G. Pascoli e G. D'Annunzio). Su questa linea si erano collocati i versi della raccolta Il libro delle figurazioni ideali (Milano 1894), seguito da Il libro delle immagini terrene (ibid. 1898), in cui le soluzioni simboliche assumevano particolare connotazione e tessitura.
I fondamenti della poetica luciniana sono esposti nei Prolegomena del primo Libro, e in altri scritti come Pro symbolo e l'Epistola apologetica, premessa alla raccolta I modi del compagno di strada di quel periodo R. Quaglino, che a sua volta aveva inserito alcune sue pagine programmatiche nel Libro delle figurazioni ideali. Insieme con la Licenza, pubblicata nella Prima ora dell'Academia (Milano 1902, ma datata 1895), con L'Allegoria, prefazione a Le ballate d'amore e di dolore di L. Donati, con l'intervento Del poeta, dell'arte e della vita, uscito il 30 maggio e il 15 giugno 1898 nel Secolo XX, e con la risposta all'inchiesta internazionale sul verso libero promossa nel 1909 da F.T. Marinetti, sono stati raccolti da G. Viazzi nel volume Per una poetica del simbolismo (Napoli 1971).
Si delineava parallelamente la componente satirica della ricerca del L. che, risalendo ai grandi modelli di G. Parini e C. Porta, poteva agevolmente essere ricondotta all'interno di una oramai ben definita "linea lombarda", nutrita di concretezza tematica e di partecipazione etico-civile. Lo scopo era quello di cogliere le contraddizioni che si annidavano nella falsa coscienza della società, demistificandone le ipocrisie e i pregiudizi. Nascevano così gli Episodi dei cosiddetti Drami delle maschere, pubblicati nel 1898 a spese dell'autore (Il monologo di Florindo, Il monologo di Rosaura, I monologhi di Pierrot, L'intermezzo dell'Arlecchinata), in cui la polemica e la denuncia assumevano la forma della confessione teatrale versificata.
Anonimi e clandestini uscirono anche, in cinquanta esemplari, con l'indicazione di opera "Edita nel buio, dal paese della miseria, all'insegna della speranza, pei tipi della fame. Anno Vindictae Domini MDCCCXCVIII" due pamphlets in versi: La nenia al Bimbo, che condannava la repressione dei Fasci siciliani, e Il sermone al Delfino, che, prendendo spunto dai moti milanesi del 1898, repressi nel sangue da F. Bava Beccaris, sviluppava un violento discorso antimonarchico, poi ripreso da La nenia di Carmen monarchia corifea di café-chantant, preceduta da un'Avvertenza "cantata da un Çi-devant e da un Esegetico alla luce di tre candele, ad inganno della miseria, per una rossa speranza, sulle chitarre dello strazio civile, Anno Vindictae Domini MCM" (anch'essa in tiratura clandestina di cinquanta copie).
Proponendosi come surrogato dell'azione e testimonianza di un impegno militante, la letteratura assumeva una chiara valenza politica, ispirata ai principî di un radicalismo democratico di impronta repubblicana e socialisteggiante; al tempo stesso, sul piano delle soluzioni espressive, rivelava le componenti, per così dire stirneriane, di un'anarchia aristocratica costantemente tesa a verificare l'incidenza della scrittura sul piano della prassi ideologico-culturale. L'apparente paradosso di certe scelte letterarie nasceva dalla difficile ricerca di una poetica cui era sottesa una sottile e complessa dialettica, che portava il L., da un lato, a schierarsi con i movimenti d'avanguardia, ma, al tempo stesso, a dissentirne quando questi gli sembravano negare quei valori di libertà che rappresentavano la tensione continua delle sue prese di posizione.
Alla "libertà" era collegato l'ideale estetico di una "bellezza" che trovava la sua ragion d'essere nella pratica di una scrittura insofferente e ribelle, fortemente ancorata all'impegno di una denuncia storico-politica, impugnata contro il repertorio acritico dei luoghi comuni, della conservazione ideologica e culturale. Di qui le oscillazioni fra il sostegno alle avanguardie e il recupero degli aspetti ritenuti ancora validi della tradizione.
Alla luce di questi criteri si sviluppò anche l'imponente lavoro critico del L., che conserva costantemente un carattere di partecipazione militante. Nel fondamentale volume Ragion poetica e programma del verso libero (Milano 1908) il L. non solo teorizzava, per la nuova poesia, l'uso del verso libero, da lui utilizzato già nelle precedenti composizioni, ma ripercorreva le recenti vicende della storia letteraria alla luce delle sottili distinzioni cui affidava il suo progetto di una "critica integrale", in cui il "carattere" dello scrittore veniva commisurato al "carattere" in rapida evoluzione dei tempi. Ne era esempio concreto L'ora topica di Carlo Dossi. Saggio di critica integrale, in cui l'opera, la biografia, la realtà socio-culturale erano coinvolte in una piena e partecipata adesione, che riguardava sia lo sperimentalismo della scrittura, in sintonia con le stesse ambizioni luciniane, sia la capacità di cogliere nei "ritratti umani" le manie e i tic di un'intera società.
Oltre a Dossi, di cui il L. fu grande amico, fino ad assisterlo sul letto di morte, a essere coinvolta era l'esperienza intera della scapigliatura, vista nella sua volontà di provocazione e di rottura nei confronti dell'atmosfera asfittica e stagnante respirata nei primi decenni postunitari, in cui già si avvertiva il riflusso e il fallimento degli ideali risorgimentali.
Una diffusa vulgata critica (che risente tuttavia di un'evidente approssimazione manualistica) ha collocato l'esperienza del L. tra scapigliatura e futurismo. Sin dal 1905 egli collaborò alla rivista di Marinetti Poesia: qui, nel 1906, il L. rispose all'inchiesta internazionale sul verso libero, già da lui usato e poi teorizzato in Ragion poetica e programma del verso libero, che uscì per le Edizioni futuriste di Poesia (Milano 1908). In quella stessa sede pubblicò, nel 1909, le Revolverate, precedute da una Prefazione futurista di F.T. Marinetti, che, oltre a insistere su questo titolo, semanticamente vicino agli obiettivi della sua battaglia (il L. avrebbe preferito intitolarle Canzoni amare), volle annettere il L. al suo gruppo, pur riconoscendone le profonde diversità ("il Futurismo, che ama i riverberi delle fornaci, lo reclama. Le nostre affinità sono grandissime. S'egli le nega ha torto: noi abbiamo ragione").
Le Revolverate, di fatto, non rinunciavano all'aggancio con la tradizione, che era quella indicata nell'Ora topica di Carlo Dossi, con particolare riferimento ai motivi pariniani e portiani più sarcastici e demistificanti, ma ne accentuavano la carica sferzante e aggressiva, riprendendo spunti già introdotti in opere precedenti per applicarli a un costume sociale fustigato nelle sue presunzioni boriose e crudeli. Feroce era il procedimento di contraffazione parodica, sul piano di una satira impietosa, che si accaniva su una sfilata di "tipi" chiamati a esemplificare, fossero essi vittime o carnefici, il marciume di un'intera società: una sfilata di "ritratti umani" che diventavano "maschere" deformi e grottesche. Se la Canzone del giovane eroe demoliva le meschine mitologie dell'imperialismo bellico e coloniale, era evidente - su una stessa linea ferocemente parodica - l'aggancio a Parini nella Canzone del giovane signore, mentre la Canzone della cortigianetta denunciava le ipocrite convenzioni dell'amore mercenario.
Secondo E. Sanguineti (il maggior interprete del L. e di fatto il promotore della sua riscoperta), con quest'opera il L., "il grande alfiere e il praticante principe, da noi, del verso libero", si deve considerare "il primo dei moderni"; con lui si può "risentire il gusto, tra l'altro, di che cosa è poesia civile, di che cosa è poesia impegnata, di che cosa è poesia satirica" (in Poesia del Novecento, p. XXXIX). Altri poemetti, rimasti inediti e pubblicati postumi dallo stesso Sanguineti (Revolverate e Nuove Revolverate, Torino 1975), presentano analoghe caratteristiche sul piano tematico e su quello strutturale, con l'utilizzo di un verso libero che rifiuta la facile cantabilità per adottare i toni aspri e sferzanti della satira e della denuncia.
L'esplicito dissenso nei confronti del futurismo, che portò il L. a lamentarsi dell'uso fatto del suo nome (apparso per esempio, nel 1909 sul Figaro fra le firme del manifesto di fondazione del movimento), fu espresso nell'articolo Come ho sorpassato il futurismo (in La Voce, 10 apr. 1913).
Le ragioni della rottura andavano ricercate non solo in una diversa concezione del verso libero, che per i futuristi avrebbe dovuto accompagnarsi al rifiuto di ogni legame logico-sintattico, ma anche in un profondo dissenso ideologico, se solo si pensa alla "guerra sola igiene del mondo" e all'interventismo di Marinetti e sodali, mentre il L. scriveva l'inedito Antimilitarismo. Ma le radici profonde della divisione erano da intendersi nel diverso concetto di "distruzione", che per il L. non doveva riguardare l'intero patrimonio delle istituzioni culturali, ma solo i suoi aspetti più retrivi e superati, salvaguardandone gli spunti progressisti e innovatori, che ancora potevano servire di lezione e di stimolo.
Non la "tradizione" andava rifiutata, ma la "consuetudine", che di fatto coincideva con la banalizzazione dell'arte e il suo carattere reazionario, nel passato come nel presente. Così, in Giosuè Carducci (Varese 1912), il L. riproponeva l'attualità del poeta maremmano, isolandone le componenti che gli sembravano ancora vitali: l'immaginario e la metrica delle Odi barbare, che già vanno nella direzione del verso libero, e la polemica ribelle dei Giambi ed epodi.
Nel medesimo anno uscirono ad Ancona Le nottole ed i vasi, che, proposto nella finzione come la traduzione di un romanzo greco, rappresentava una sorta di ripiegamento nei miti della classicità, quasi disincantata denuncia dell'impossibilità di intervenire ancora sulle trasformazioni del proprio tempo.
La "rassegna a volo d'aquila" dei Filosofi ultimi (Roma 1913) si proponeva come Contributo ad una "Storia della filosofia contemporanea". Ancora nel 1913, ad Ancona, vedeva la luce un testo teatrale, Il tempio della gloria. Tre ore sceniche della Russia contemporanea con prefazioni ed appendici, scritto in collaborazione con Innocenzo Cappa nel 1905, ma allora non pubblicato per lo scoppio dei tumulti in Russia: l'accaduto, infatti, strettamente collegato all'argomento del testo, avrebbe potuto cedere facilmente all'accusa di una calcolata strumentalizzazione (l'edizione fu poi accompagnata dallo studio su Massimo Gorki e la rivoluzione russa). L'opera, che ruotava intorno alle figure dell'idealista povero e del politico arrivista e corrotto, non fu mai rappresentata, ma confermava una propensione teatrale, reperibile anche in opere di altro genere, come esigenza di un coinvolgimento più immediato e diretto del pubblico. All'ultimo periodo appartengono anche le prefazioni all'opera d'esordio, Duccio da Bontà, di un altro "lombardo", C. Linati (Ancona 1913), e alla raccolta di Poemetti e Liriche di E. Ibsen (Lanciano 1914).
Soprattutto va ricordata l'Antidannunziana. D'Annunzio al vaglio della critica (Milano 1914), in cui il L., come già aveva fatto per il futurismo, chiudeva i conti con uno scrittore che pure aveva influito notevolmente sulla sua opera, soprattutto nella fase iniziale, con l'esclusione di Spirito ribelle. Le accuse rivolte a D'Annunzio erano quelle secondo cui "il conformismo e il superlativo si fondevano nella retorica: cioè nella mancanza di personalità e di sincerità nell'opera d'arte e nella vita". L'iperbole immaginifica, risolvendosi in esclusivo culto della forma, cercava invano di nascondere il vuoto di significati morali, sicché "l'opera sua è una collezione di frammenti senza conclusione, perché il suo cervello è incapace di creare delle verità e dei concetti nuovi". D'Annunzio, e a maggior ragione i dannunziani, rappresentavano quindi l'esatto contrario dell'idea di letteratura sostenuta e praticata dal L.; una seconda parte dell'opera, rimasta inedita, uscì poi a cura di Sanguineti: D'Annunzio al vaglio dell'Humorismo (Genova 1989).
Il L. morì a Breglia il 13 luglio 1914.
Fonti e Bibl.: I manoscritti del L., venuti in possesso di T. Grandi, sono stati da lui donati alla Biblioteca comunale di Como. Molte carte sono andate perdute, ma numerose opere restano ancora inedite (un elenco è nella monografia di R. Baldassari, G.P. L., Firenze 1974, p. 107). M. Puccini, Introduzione, in G.P. Lucini, Scritti scelti, Lanciano 1916; A.U. Tarabori, G.P. L., Milano 1922; C. Cordié, "Gian Pietro da Core" e la società italiana della fine dell'Ottocento, Catania 1965; E. Sanguineti, Introduzione, in Poesia del Novecento, Torino 1969, pp. XXXVII-XL; F. Portinari, Introduzione, in Narratori settentrionali dell'Ottocento, Torino 1970, pp. 68-75; L. e il futurismo, in Il Verri, 1970, n. 33-34 (numero monografico); G. Viazzi, Introduzione, in G.P. Lucini, Le Antitesi e le Perversità, Parma 1970; M. Bruscia, Introduzione, in G.P. Lucini, Ragion poetica e programma del verso libero, Urbino 1971; G. Luti, Introduzione, in G.P. Lucini, Prose e Canzoni amare, a cura di E. Ghidetti, Firenze 1971; L. Martinelli, Introduzione, in G.P. Lucini, Scritti critici, cit.; G. Viazzi, Introduzione, in G.P. Lucini, Libri e Cose scritte, Napoli 1971; Id., Introduzione, in G.P. Lucini, Per una poetica del simbolismo, Napoli 1971; Id., Studi e documenti per il L., Napoli 1972; D. Valli, in Anarchia e misticismo nei poeti del primo Novecento, Lecce 1973, pp. 7-142; E. Sanguineti, Introduzione, in G.P. Lucini, Revolverate e Nuove Revolverate, Torino 1975; G. Barberi Squarotti, in Dall'anima al sottosuolo, Ravenna 1982, pp. 153-170; R. Jacobbi, in L'avventura del Novecento, Milano 1986, pp. 277-296; E. Sanguineti, Introduzione, in G.P. Lucini, D'Annunzio al vaglio dell'Humorismo, Genova 1989; D. Cofano, Il crocevia occulto. L., Nazariantz e la cultura del primo Novecento, Fasano 1990; P. Giovannetti, Metrica del verso libero italiano, Milano 1994, pp. 39-42, 205-223 e passim; A. Bertoni, Dai simbolisti al Novecento. Le origini del verso libero italiano, Bologna 1995, ad indicem.