Gian Rinaldo Carli
Nel panorama della storia del pensiero economico del Settecento, la figura di Gian Rinaldo Carli si impose quale figura di transizione fra la tradizione erudita e muratoriana che aveva contrassegnato la prima metà del secolo e le istanze illuministiche maturate nell’Italia settentrionale, particolarmente nella cultura milanese animata dai protagonisti della rivista «Il Caffè». Dotato di una non comune sensibilità per le novità e le mode culturali del suo tempo, egli riuscì a rendersi interprete, anche sul piano della riflessione economica, dei dilemmi e delle tensioni che accompagnarono l’azione di governo e l’impegno riformatore dei funzionari italiani al servizio di casa Asburgo.
Di antica famiglia comitale, Gian Rinaldo Carli (o più correttamente, come egli stesso si firmava, Gianrinaldo Carli) nacque a Capodistria (allora nell’Istria veneta) l’11 aprile 1720. Dopo aver studiato per alcuni anni nel seminario laico della sua città natale, venne educato privatamente a Flambro, in Friuli, presso l’abate e filosofo Giuseppe Bini. Studiò poi giurisprudenza a Padova dal 1739 al 1742, come iscritto alla facoltà ‘leggista’, dedicandosi ben presto a studi di erudizione e di antiquaria che lo spinsero, sin dai primi anni Cinquanta, su posizioni giurisdizionaliste e gianseniste funzionali alle politiche assolutiste della Repubblica di Venezia.
Simili idee emergono sin dalle sue prime ricerche storiche, di impostazione prevalentemente erudita e dedicate soprattutto allo studio della storia e dell’archeologia romana dell’Istria. Spirito irrequieto e spesso polemico, Carli seppe in seguito indirizzare i suoi interessi storici verso tematiche di attualità legate al dibattito sulle monete, da cui derivò la sua monumentale opera Delle monete e dell’instituzione delle zecche d’Italia (1751, poi in 3 voll. e 4 tt., 1754-1760), che lo impose all’attenzione della Repubblica delle lettere.
Furono questi argomenti a metterlo in contatto con Pompeo Neri, l’economista toscano presidente della Giunta del censimento di Milano, e con i protagonisti del dibattito europeo sull’origine e le funzioni delle monete, facendo spostare gradualmente la sua attenzione dalle problematiche strettamente storiche a quelle economiche e politiche. Grazie a queste ricerche riuscì a imporsi anche all’attenzione degli ambienti colti milanesi, stringendo amicizia con Pietro Verri. A questa prima fase della sua attività letteraria si riferiscono pure alcuni testi di carattere giuridico risalenti all’epoca del primo soggiorno milanese (1753-1756).
In quegli anni entrò anche in contatto con la corte di Parma, attraverso Paolo Maria Paciaudi, e con quanti si interessavano del problema della morale in relazione al dibattito sul sensismo e sul rapporto tra piacere e dolore, come Jacopo Stellini, docente di filosofia morale a Padova, e Pierre-Louis Moreau de Maupertuis. Nel panorama della cultura italiana del Settecento, Carli aveva quindi un’origine e un percorso biografico e intellettuale profondamente diversi da quelli dei suoi colleghi; proveniva, infatti, non da una grande città, ma dalla provincia di una Repubblica in lento e inesorabile decadimento.
La svolta nella sua vita sarebbe coincisa però con la chiamata al servizio dell’amministrazione asburgica in Lombardia, nel 1765, grazie alla notorietà che egli aveva raggiunto con i suoi studi sulle questioni monetarie. Wenzel Anton, principe di Kaunitz-Rietberg (cancelliere di Stato, cioè ministro degli Esteri, dell’impero d’Austria dal 1753) e Carlo Gottardo conte di Firmian (governatore della Lombardia dal 1759) lo vollero a capo della nuova amministrazione delle finanze, dove egli divenne presidente del Supremo consiglio di economia. Carli arrivò dunque a Milano dopo aver cercato inutilmente un impiego a Parma e dopo aver rinunciato a un incarico a Torino come ministro di Stato per le finanze, zecca e commercio. Fu a Milano che rafforzò la sua amicizia con Pietro Verri e con il più giovane Cesare Beccaria (entrambi poi suoi sottoposti nel governo milanese) e le sue collaborazioni al «Caffé»; a questo stesso periodo risalgono le rivalità e i primi scontri con Verri che avrebbero portato a clamorose fratture dentro l’amministrazione lombarda e nel gruppo dei riformatori lombardi. Carli mantenne l’incarico fino al 1771, quando il Supremo consiglio venne sostituito dal Nuovo magistrato camerale, di cui egli fu presidente fino al suo pensionamento, avvenuto nel 1780.
Ritiratosi a vita privata, tornò a dedicarsi agli studi storici, impegnandosi in un’estesa edizione delle proprie Opere e assumendo, con l’approssimarsi della Rivoluzione francese, posizioni politiche sempre più conservatrici e reazionarie. Si spense a Cusano, presso Milano, il 22 febbraio 1795.
Sin da giovanissimo Carli si cimentò nella città natale con le ricerche e gli studi di archeologia romana, pubblicando brevi saggi destinati a una circolazione limitata prevalentemente all’ambiente veneto. Successivamente, avvicinatosi alla cultura e agli ambienti filomuratoriani, anche grazie agli studi universitari, ebbe modo di sviluppare un interesse per il Medioevo, partecipando alla fine degli anni Quaranta alla polemica (forse non estranea a questioni massoniche) fra Scipione Maffei e Ludovico Antonio Muratori sulle origini culturali della magia e della stregoneria.
Frutto di questo eclettismo, che sintetizzava interessi eruditi e curiosità per i dibattiti su temi di attualità, è l’opera intitolata Delle monete e dell’instituzione delle zecche d’Italia, pubblicata nel 1751 e poi, in 3 volumi e 4 tomi, tra il 1754 e il 1760. In essa Carli concentrava l’attenzione esclusivamente sul problema dell’origine storica delle monete e della stabilità monetaria, trascurando del tutto l’approfondimento dei problemi commerciali ed economici, e del rapporto tra universalità del commercio e limiti all’intervento sovrano nella politica riformatrice. L’autore appariva quindi ancora legato ai suoi interessi storici ed eruditi, e gli mancava una visione più articolata della storia economica. È significativo però il fatto che proprio questo aspetto erudito e la discussione sui disordini monetari all’interno della penisola italiana gli procurassero immediatamente numerosi commenti e, di conseguenza, un’ampia notorietà. Poco a poco, così, proprio mentre si diffondeva in Italia l’interesse per analoghi temi grazie a intellettuali come Neri, Carlantonio Broggia e Ferdinando Galiani, anche il nome di Carli cominciava a diventare famoso.
Favoriti forse da questa fama, ebbero maggiore successo editoriale gli Elementi di morale o siano saggi di morale cristiana e civile, pubblicati da Carli nel 1755 e destinati a nove edizioni italiane succedutesi fino al 1789, a una traduzione spagnola e al tentativo di una inglese. Con questa piccola opera gli interessi di Carli cominciarono lentamente a spostarsi dai temi di carattere storico-economico a quelli di carattere politico. Benché apparentemente l’autore si muovesse sulla scia dell’Essai de la philosophie morale di Maupertuis (1749) e del dibattito sul sensismo animato da Étienne Bonnot de Condillac, gli argomenti al centro della sua riflessione erano altri. Il problema della morale consisteva per lui nella relazione tra individuo e società, nel modo attraverso il quale la virtù del singolo individuo doveva mettersi in relazione con i doveri imposti dalla sua collocazione nella famiglia e nella società. Ciò gli consentiva di evidenziare una chiave interpretativa che era evidentemente organicistica e di matrice aristotelica, ma forte appariva pure il debito rispetto alla tradizione giusnaturalistica.
La coeva amicizia con Neri è fondamentale per comprendere in che modo Carli si trasformò, alla metà degli anni Sessanta del 18° sec., da studioso di storia e delle teorie economiche in uomo di governo, sensibile alla pratica amministrativa e alle esigenze delle autorità austriache. Neri, come accennato, era stato il presidente della Giunta del censimento a Milano, cioè dell’istituzione incaricata del riordinamento e della razionalizzazione della proprietà fondiaria e delle rendite finanziarie. In Carli egli vide il proprio successore, non soltanto come funzionario pubblico, ma anche come economista: Neri aveva infatti pubblicato le sue Osservazioni sul prezzo legale delle monete nel 1751, cioè poco prima della citata opera di Carli Delle monete; Neri, ancora, aveva scritto nel 1748 un discorso Sopra lo stato della nobiltà di Toscana e Carli aveva pubblicato nel 1757 un Saggio politico ed economico sopra la Toscana. Entrambi avevano esaltato, sulle tracce di Montesquieu, il ruolo della nobiltà come forza equilibratrice fra la società e il sovrano, collegando questa riflessione a programmi di riforma economica e fiscale.
Con il trasferimento a Milano, avvenuto nel 1765, Carli entrò stabilmente a far parte del gruppo dei collaboratori del «Caffè», che si riuniva nella cosiddetta Accademia dei Pugni. Furono anni di intensi dibattiti e confronti fra intellettuali, che si misuravano non solo sul terreno culturale, ma anche su quello della pratica amministrativa e delle responsabilità di governo.
La sua notorietà in quegli anni si deve all’articolo Della patria degli italiani, apparso anonimo nel nr. 2 (1765) del «Caffè» e per qualche tempo attribuito a P. Verri. Vi emerge un’interpretazione dell’amor di patria basata sull’esaltazione della storia e della geografia di ciascun Paese capaci di ricomporre il quadro delle varietà nazionali dinanzi allo spirito razionalmente cosmopolita degli illuministi milanesi. Il problema che Carli si poneva non era ancora strettamente politico, ma piuttosto riguardava la necessità di conciliare l’universalità del commercio e della monetazione con la frammentazione economica e doganale della penisola italiana. Come armonizzare quindi le leggi generali e universali del commercio e della natura con la varietà delle norme particolari esistenti in ogni piccola patria, cioè in ogni Stato italiano? Il commercio – rifletteva Carli – doveva obbedire a regole generali, ma un’attività economica svolta in un luogo preciso, per es. a Milano, rimaneva soggetta alle leggi particolari di quel Paese. Si tratta di argomentazioni poi riprese da Carli nelle sue posteriori polemiche con P. Verri e, in particolare, nella critica alle verriane Meditazioni sull’economia politica, stampate per la prima volta nel 1771, e non va dimenticato che proprio a Carli venne dedicata anche l’edizione definitiva delle celebri Lezioni di commercio di Antonio Genovesi, apparsa nel 1768.
Per comprendere appieno il pensiero economico e politico di Carli bisogna quindi contestualizzarlo all’interno del mondo politico milanese e di quello italiano della seconda metà degli anni Sessanta del Settecento, quando cominciava a manifestarsi una contrapposizione evidente tra due linee politiche nell’amministrazione asburgica della Lombardia, soprattutto nell’ambito economico: da una parte quella del governatore Firmian, cui si riferiva Carli, di tipo dirigistico e mercantilista, orientata verso un intervento deciso dello Stato in campo economico e ostile a compromessi con la vecchia oligarchia e con la nobiltà viennese. E dall’altra parte la linea del cancelliere di Stato Kaunitz-Rietberg, cui si riferiva P. Verri, favorevole a una politica economica di tipo liberista e a una collaborazione con le élites nobiliari, anche per compensarle della perdita degli antichi privilegi sociali ed economici.
È probabile che le opinioni cominciassero a diversificarsi subito dopo la pubblicazione di Dei delitti e delle pene (1764) di Beccaria, quando cioè coloro che si erano confrontati solo intellettualmente all’interno dell’Accademia dei Pugni si ritrovarono a lavorare quotidianamente assieme nell’amministrazione asburgica, con a capo Carli. Alcuni dissensi si manifestarono esplicitamente già nel 1768, quando Carli, in quanto presidente del Supremo consiglio di economia, venne incaricato di stendere il progetto per l’insegnamento delle scienze camerali, destinato a Beccaria.
Un altro segnale giunse poco dopo, con la riedizione delle Meditazioni sulla economia politica di Verri, che vennero ripubblicate nel 1771 «con annotazioni» aggiunte da Carli. Non si trattava di semplici commenti ma di vere e proprie critiche, con cui Carli manifestava importanti ragioni di dissenso, sul piano economico e soprattutto sul piano politico, rispetto all’amico milanese. La sua critica si rivolgeva in particolare verso due aspetti delle Meditazioni: verso l’idea che le leggi civili dovessero superare il contenuto delle leggi naturali, per evitare di ricadere nello stato di natura; e verso l’idea che forza motrice dell’evoluzione della società naturale in società civile fosse unicamente il bisogno. Per Carli, invece, il potere legislativo del sovrano non doveva interferire nelle leggi della natura, e la disuguaglianza naturale non era da considerare di per se stessa un fenomeno negativo. Le leggi civili dovevano dunque assecondare quelle naturali e svolgere una funzione semplicemente garantista delle libertà naturali e delle proprietà economiche.
Tracce di interessi giuridici e politici si possono rinvenire poi nel suo Nuovo metodo per le scuole pubbliche d’Italia (1774), scritto sull’onda dell’abolizione del monopolio sull’educazione scolastica goduto dalla Compagnia di Gesù. Carli vi esaltava lo studio del diritto naturale come formativo sia nell’istruzione secondaria sia in quella universitaria, in quanto funzionale alla critica dell’assetto vigente e al riordino del sistema legislativo. Secondo Carli la società civile, che veniva modellata su quella familiare e patriarcale, doveva essere governata da un principe capace di provvedere alla pubblica felicità, al benessere della popolazione, a un’istruzione uguale per tutti e, inoltre, alla protezione della proprietà privata. L’insegnamento dell’economia civile diventava invece lo strumento per guidare l’azione riformatrice del principe e per prevenire gli effetti del dispotismo, individuando nelle leggi naturali i limiti all’esercizio del suo potere.
Le argomentazioni sin qui analizzate riemergono con maggiore evidenza in L’uomo libero, o sia ragionamento sulla libertà naturale e civile dell’uomo (1778), destinato a numerose riedizioni, nel quale Carli utilizzava la cultura giusnaturalistica, con particolare sensibilità per quella austriaca, in funzione della polemica contro il contrattualismo di Jean-Jacques Rousseau. Tratteggiava un quadro storico e politico sullo stato di natura e sulla formazione della società civile funzionale a costruire una teoria della sovranità di derivazione naturale, compatibile con il consolidamento dell’assolutismo riformatore e con un’idea della giustizia basata sull’applicazione del diritto naturale adattato alle caratteristiche dei singoli Stati. In questa maniera si distanziava ancora una volta tanto da Rousseau, quanto da Montesquieu e da Gian Vincenzo Gravina, accusati di aver arbitrariamente generalizzato le leggi del contratto naturale.
Notevole spazio veniva dedicato anche alla riflessione sulla proprietà, collegata alla libertà individuale e considerata il fondamento della disuguaglianza fra gli uomini. La proprietà naturale era, secondo lui, unica e indivisa, soggetta all’amministrazione del capofamiglia e, alla sua morte, amministrata comunemente da tutte le famiglie di nuova formazione. Il patto naturale serviva a conservare questa funzione solidaristica, mentre la proprietà privata nasceva con l’introduzione del patto sociale, attraverso il quale venivano sciolti i legami naturali fra gli uomini e veniva fissato il diritto di esercitare il dominio solo entro i confini delle rispettiva proprietà, con l’obbligo di non violare la proprietà altrui.
Con queste riflessioni, Carli non soltanto prendeva le distanze da quanti in Italia, come Pietro Verri, avevano analizzato le cause puramente economiche dell’origine del diritto di proprietà, ma mostrava anche la differenza tra la sua impostazione e il modello comunistico della proprietà affermato da Gabriel Bonnot de Mably. Si trattava in effetti di uno schema ripreso dalle interpretazioni proposte sia da Jean de Barbeyrac sia da Christian Wolff, laddove l’origine della proprietà privata era stata individuata nello scioglimento della comunità originaria e in una semplice volontà di occupazione non riconducibile a un patto espresso o tacito. La teoria della sovranità e della società descritta da Carli nel suo sviluppo storico diventava così una chiara giustificazione dell’assolutismo illuminato: il sovrano trovava i limiti all’esercizio del suo potere nel diritto naturale e nel principio di conservazione della società, mentre invece un governo repubblicano e un governo dispotico, non conformi al diritto di natura e privi di questi limiti, avrebbero sortito effetti contrari alle leggi della natura.
Anche l’opera successiva, intitolata Delle lettere americane e pubblicata per la prima volta nel 1780 e in seconda edizione l’anno successivo, era solo in parte una ricerca originale, e appariva come una nuova sintesi delle sue riflessioni contro l’egualitarismo di Rousseau. Questa volta però, in maniera del tutto singolare, Carli attingeva all’ampia letteratura sulle Americhe, ai miti e alle notizie che circolavano sulla condizione delle civiltà indigene e sugli antichi imperi dell’America centrale, per cercare di trovare in quelle realtà esempi del modello di società che aveva cercato di ricostruire in L’uomo libero.
Pubblicate a cura di Isidoro Bianchi, diventato nel frattempo uno dei protagonisti della cultura massonica dell’Italia settentrionale, e dedicate a Benjamin Franklin, le Lettere americane mantenevano lo stesso livello di ambiguità presente negli scritti precedenti. Dedicavano, infatti, attenzione a modelli sociali non ugualitari, ma utilizzavano alcune strategie discorsive tipiche della letteratura massonica, anche italiana: per es., l’interesse per le filosofie della storia, la simbologia e la mitologia antica, l’utilizzo delle cosmogonie. Carli attaccava Jean-Sylvain Bailly, George-Louis Leclerc conte di Buffon, e Cornelis de Pauw, intervenendo nella polemica sul mito di Atlantide, ma difendendo invece il mito del sapere venuto dall’Oriente e l’adesione a una filosofia della storia segnata dalle catastrofi.
In questo vi era un’abile sintesi fra i suoi antichi interessi storici ed eruditi e i temi maggiormente alla moda, che circolavano ormai ampiamente e che si potevano ritrovare, per es., in un’altra opera coeva importante per la cultura italiana del 18° sec., cioè i Saggi politici (1783-85) del napoletano Francesco Mario Pagano. Tuttavia, mentre Pagano e altri studiosi di quei temi erano sicuramente massoni, Carli non lo era affatto, e la coincidenza delle sue posizioni con quelle di una parte della massoneria italiana mostrava ancora una volta quanto sottile poteva diventare la linea di demarcazione fra le varie anime della cultura italiana del tardo Settecento, unite nel riconoscere l’influenza di Rousseau teorico del sentimentalismo e del mondo delle passioni, ma separate nella lettura di Rousseau teorico della politica. Il successo delle Lettere americane fu tuttavia notevole in tutta Europa, ed esse vennero tradotte e circolarono in lingua francese, inglese, spagnola e tedesca.
Le opere successive di Carli, negli anni posteriori alla Rivoluzione francese, documentano da un lato il suo ripiegamento verso gli interessi eruditi e antichistici, e dall’altro un conservatorismo sempre più accentuato. Uno dei suoi ultimi scritti, pubblicato nel 1792 con il titolo Della diseguaglianza fisica, morale e civile tra gli uomini e tradotto già nel 1793 in lingua tedesca per volontà dell’imperatore Francesco II d’Asburgo, riprendeva largamente i temi presenti in L’uomo libero, ripuliti però di tutti i margini di ambiguità denunciati dieci anni prima. Gli avversari ormai diventavano chiari, e non erano più i fantasmi di Thomas Hobbes e di Rousseau, ma i giacobini francesi; persino la critica al repubblicanesimo diventava più efficace, nel momento in cui l’autore esprimeva una netta condanna della Francia rivoluzionaria e delle ‘massime incendiarie’ di Rousseau.
Come si può vedere, è soprattutto il contesto storico del tardo Settecento italiano, in continua trasformazione, che consente di capire l’origine, i contenuti e le ragioni della fortuna e della sfortuna di questo intellettuale nell’Europa dei lumi. La fama di Carli rimase legata da un lato alla capacità di questo autore di sintetizzare argomentazioni largamente diffuse attraverso le sue conoscenze erudite e i suoi interessi economici, dall’altro a un processo di interpretazione e talora di distorsione dei suoi scritti causato da differenti letture e favorito, in parte, dalle ambiguità stesse dei testi. Un processo di distorsione cui contribuì Carli stesso, che nella vecchiaia divenne artefice in prima persona di un gigantesco tentativo di autorevisionismo attraverso un’edizione celebrativa delle proprie Opere in diciannove volumi, iniziata nel 1784 e conclusa nel 1787: in essa la versione originale dei suoi scritti di venti o trent’anni prima veniva spesso emendata, corretta e modificata, sino a stravolgerne in qualche caso il senso originario, con tutte le evidenti conseguenze interpretative in cui sono incorsi (e talora ancora incorrono) i suoi lettori.
Carli appare dunque un tipico esponente della generazione di intellettuali che visse le profonde trasformazioni della vita politica italiana nella seconda metà del 18° secolo. Gli eventi politici di quel periodo, dalla guerra dei Sette anni alla Rivoluzione americana e a quella francese, costringevano gli uomini di lettere a prese di posizione sempre più nette, a risolvere le ambiguità del passato e a fare i conti, in un modo o nell’altro, con la propria formazione culturale e con la realtà sociale della penisola italiana. Molti di loro compirono questo percorso tra numerose contraddizioni, e in parte le risolsero. Carli non fu da meno, rimanendo talvolta anche vittima delle mode letterarie e di forme nuove di consumo culturale che accrebbero la sua notorietà talvolta anche al di là dei meriti effettivi delle opere e del loro autore.
Delle monete e dell’instituzione delle zecche d’Italia, dell’antico e presente sistema d’esse e del loro intrinseco valore, e rapporto con la presente moneta, L’Aia (ma Venezia) 1751, poi, in 3 voll. e 4 tt., L’Aia (ma Mantova, Pisa e Lucca) 1754-1760.
Elementi di morale o siano saggi di morale cristiana e civile, principalmente proposti alla nobile gioventù, Lugano 1755.
Nuovo metodo per le scuole pubbliche d’Italia, Lione (ma Lucca) 1774.
L’uomo libero, o sia ragionamento sulla libertà naturale e civile dell’uomo, Lione (ma Firenze) 1778, Milano 1779, 1780, Venezia 1780, 1781.
Delle lettere americane, 2 voll., Cosmopoli (ma Firenze) 1780, Cremona 17812.
Delle opere, 19 voll., Milano 1784-1787.
Delle antichità italiche, 5 voll., Milano 1788-1791, 4 voll., 1791-17952.
Della diseguaglianza fisica, morale e civile tra gli uomini, Padova 1792, 17932.
E. Apih, Rinnovamento e illuminismo nel ’700 italiano: la formazione culturale di Gian Rinaldo Carli, Trieste 1973.
E. Apih, Carli Gian Rinaldo, in Dizionario biografico degli Italiani, Istituto della Enciclopedia Italiana, 20° vol., Roma 1977, ad vocem.
A. Trampus, L’Illuminismo e la ‘nuova politica’ nel tardo Settecento italiano: “L’uomo libero” di Gianrinaldo Carli, «Rivista storica italiana», 1994, 1, pp. 42-114.
«Quaderni giuliani di storia», 2004, 1, nr. monografico: Gianrinaldo Carli nella cultura europea del suo tempo, a cura di A. Trampus.
M.R. Di Simone, Percorsi del diritto fra Austria e Italia (secoli XVII-XX), Milano 2006, pp. 134-55.
A. Trampus, Gianrinaldo Carli at the centre of the Milanese Enlinghtenment, «History of European ideas», 2006, 4, pp. 456-76.
P. Verri, Edizione nazionale delle opere di Pietro Verri, 2° vol., Scritti di economia, finanza e amministrazione, a cura di G. Bognetti, A. Moioli, P.L. Porta, G. Tonelli, Roma 2007.
W. Rother, Gian Rinaldo Carli, in Grundriss der Geschichte der Philosophie, hrsg. J. Rohbeck, W. Rother, parte 4a, Die Philosophie des 18. Jahrhunderts, 3° vol., Italien, Basel 2011, pp. 261-67.