GRAVINA, Gian Vincenzo
Nacque il 16 febbraio 1664 a Rogiano (Cosenza) da Gennaro e Anna Lombardi, e, compiuti gli studî primamente a Scalea, presso il suo "cartesianissimo" cugino Gregorio Calopreso, indi (dal 1681) a Napoli, si trasferì nel 1689 stabilmente a Roma quale agente del card. Francesco Pignatelli, allora arcivescovo di Taranto, poi di Napoli. Nel 1691, le dispute, segnatamente francesi, intorno al cosiddetto "peccato filosofico" (se, cioè, l'ignoranza della legge morale scusi il peccato, secondo affermavano e negavano rispettivamente gesuiti e giansenisti) lo indussero a combattere la morale gesuitica e la casistica, pubblicando a Napoli, con la falsa data di Colonia e con lo pseudonimo di Priscus Censorinus Photisticus, il dialogo Hydra mistica, sive de corrupta morali doctrina. In appendice all'Endimione del Guidi (v.), diede, nel 1692, con lo pseudonimo di Bione Crateo, un celebratissimo Discorso, primo nucleo della Ragion poetica e già propugnatore dell'affrancamento della poesia dalla tirannide delle "regole" e dei "generi letterarî". Da che, esacerbata da certe sue rudezze, una fiera guerra da letteratucoli e uomini di chiesa, culminata nelle deliziose satire latine scrittegli contro, con lo pseudonimo di Quinto Settano, da Lodovico Sergardi. Se non che il successo, grande ma meramente letterario, di quelle, accrebbe anziché scemare la sua rapida e solida reputazione di studioso. Già nel 1690 pars magna dell'Arcadia, ne scrisse, in elegantissimo latino e sul modello delle XII tavole, le leggi, incise nel marmo e illustrate, nella loro proclamazione (12 maggio 1696), da una sua Oratio. Dal 1694 al 1698 compose dissertazioni e opuscoli, taluni raccolti nel 1696, altri pubblicati poi: un Discorso delle antiche favole, tradotto in francese da J. Regnault e rifuso nella Ragion poetica; un dialogo De lingua latina; un trattatello De conversione doctrinarum, in difesa del cartesianismo; altri due De contemptu mortis e De luctu minuendo; uno Specimen prisci romani iuris, rifuso nel II libro delle Origines; una Oratio pro romanis legibus, dedicata a Pietro il Grande di Russia. Nel 1699 ebbe nella Sapienza la cattedra di diritto civile, cangiata nel 1703 nell'altra di diritto canonico: della qual sua attività d'insegnante restano talune prolusioni, l'abbozzo Receptioris iuris specimen, gli In iuris receptioris institutiones libri III (pubblicati postumi nel 1744), e gli In pontificii iuris institutiones libri III (pubblicati postumi nel 1742). Occasionati altresì dall'insegnamento furono i celebratissimi Originum iuris civilis libri III, dei quali il primo fu pubblicato da solo a Napoli nel 1701; tutti tre a Lipsia nel 1708, e, in edizione definitiva, curata dall'autore e più volte ristampata, a Napoli nel 1713; e, insieme col De romano imperio e col titolo complessivo De l'esprit des lois romaines, in una trad. francese di J.-B. Requier, a Parigi nel 1766. Nel 1706 diede alla luce a Roma gli Acta consistorialia creationis S.R.E. cardinalium institutae a Clemente XI. Nel 1708 pubblicò in due libri la divulgatissima e lodatissima Ragion poetica, tradotta in francese dal Requier (1754). Nel 1710, avendo sentito improvvisare nella bottega di un orafo a Piazza San Silvestro il dodicenne Pietro Trapassi, lo adottò per figlio, gli diede un'educazione letteraria restata memorabile e ne fece Pietro Metastasio (v.). Nel 1711, per dissidî col Crescimbeni e con l'Arcadia, formò, con altri trenta soci dissidenti, la nuova accademia dei Quirini, che però, dopo la sua morte, si rifuse con la vecchia Arcadia, la quale nel 1719 reintegrò il nome di lui nel suo libro d'oro. In difesa della nuova Accademia, e col titolo Della divisione d'Arcadia, pubblicò, nel 1712, un'epistola a Scipione Maffei, al quale, lo stesso anno, dedicò l'opuscolo De disciplina poetarum, tradotto poi in italiano dal Passeri. Nel 1712 ancora, dopo una corsa a Scalea, ove lasciò il Metastasio presso il Calopreso, si fermò a Napoli, ove nel settembre pubblicò cinque tragedie (Palamede, Andromeda, Appio Claudio, Papiniano, Servio Tullio), parzialmente tradotte da lui medesimo in latino e che, pur nella loro frigidità, ebbero lodi da Giambattista Vico e segnarono la via forse alla Merope del Maffei, certamente al Giulio Cesare di Antonio Conti. Di quel tempo circa sono un Iambus ad Paullum Mattiam Doriam e tre ecloghe italiane, pubblicate postume nel 1756, e forse anche il trattato Del governo civile di Roma, pubblicato postumo nel 1828. Nel 1713 mise fuori a Napoli, quasi quarto libro delle Origines, il De romano imperio, in cui, sulla scorta di Dante di cui postillò la Commedia, sognò un'utopistica restaurazione dell'impero universale. La morte del Calopreso (2 maggio 1714), che lo lasciò suo erede, lo richiamò in Calabria, ove, mandato il Metastasio a Napoli a studiare giurisprudenza, si trattenne un paio d'anni, tutto dedito ad affari, ma non senza pubblicare a Napoli un trattatello Della tragedia, e scrivere il Regolamento di studi per nobil donna, pubblicato postumo nel 1741 e una dissertazione De censura romanorum, restata inedita. Tornato a Roma col Metastasio nel 1716, si disponeva, accettato l'invito di Vittorio Amedeo II di Savoia, ad andar professore con pingue stipendio nell'università di Torino, allorché il 6 gennaio 1718 morì tra le braccia del Metastasio, a cui lasciò i suoi beni romani e la sua ricca biblioteca.
I limiti del suo ingegno si possono quasi toccare con mano, comparando la sua attività scientifica con quella, affine e quasi simultanea, del coetaneo, corregionale, amico e ammiratore Vico. Quanto il G. supera il Vico per acutezza, potenza assimilatrice, precisione, efficacia didascalica, valentia letteraria, erudizione e dottrina, altrettanto, anzi molto più, gli è disotto per sistematicità filosofica, profondità e originalità. Naturale, pertanto, che, anziché precorrere, come il Vico, il sec. XIX, giungesse tutt'al più, e nemmeno sempre, al punto estremo consentito a uno studioso formatosi in quel grande rinnovamento di cultura che caratterizza il tardo Seicento napoletano. E naturale altresì che, al contrario di ciò che è accaduto per quelle del Vico, le sue opere, così fortunate nel Settecento da ispirare un Locke, un Montesquieu e un Rousseau, e ancora ai principî dell'Ottocento ritenute da un Foscolo e da un Cuoco quanto si fosse scritto di meglio in fatto di poetica, di giurisprudenza e di scienza politica, finissero a poco a poco, e malgrado qualche inane tentativo di rivalutazione, col non essere lette più. Certo, nella Ragion poetica e negli scritti affini, egli, oltreché propugnare un indirizzo letterario sano e amante di verità e naturalezza, distruggere parecchi pregiudizî e, in tempi anti omeristici e antidantistici, rendere omaggio al genio di Omero e di Dante, si propose, ch'è molto più, di razionalizzare quelle generalizzazioni empiriche e irrazionali ch'erano le regole della vecchia poetica, di ridurle "a un'idea eterna di natura", di trovare, per la poesia non solo antica ma anche moderna e di tutte le nazioni e perfino, sebbene con accentuazione molto minore, per altre forme d'arte, "principî di pura e semplice ragione", e, con tutto ciò, di costruire un'estetica modernamente intesa. Ma, appunto a causa del suo ingegno poco originale, l'esecuzione non fu pari al proposito; e la poetica graviniana - col suo concetto centrale del "verisimile", mediante il quale "si diletta e istruisce il popolo"; col suo considerare la poesia quale "maga ma salutare", quale "delirio che sgombra le pazzie", quale "figlia e rampollo delle scienze"; col suo definire il mito "invenzione regolata dalle scienze" e lavoro di chi aveva per lungo tempo bevuto il latte puro delle scienze naturali e divine", e via enumerando - non esce mai dalla cerchia delle idee del Rinascimento e, anziché precorrere l'estetica vichiana, a cui per converso è sempre antitetica, riesce perfino più arretrata della poetica del Muratori. Analogamente, le Origines e le altre opere giuridico-politiche rivelano, senza dubbio, una conoscenza così affinata dei sentimenti, dei pensieri e della lingua dei giureconsulti romani da dar talora l'illusione d'essere state scritte da un Papiniano o da un Ulpiano; dal punto di vista didascalico, sono un vero modello (tante volte imitato dipoi) di storiografia e bibliografia giuridica; nelle parti storiche i fatti sono percepiti con precisione di contorni pari all'eccellente coordinazione, e il racconto procede rapido, filato, concatenato, senza una lacuna o una ridondanza; né per ultimo, s'ammira tanto la chiarezza d'idee dell'autore quanto nelle parti più propriamente dottrinali e politiche (p. es. nella teoria dell'autorità, d'ispirazione, al tempo stesso, hobbesiana e lockiana). Ma codesti squisiti pregi letterarî non tolgono che anche nelle discipline giuridiche e politiche il G. fosse, più che altro, un assimilatore, un chiarificatore e un divulgatore, privo d'una grande idea propria da far trionfare, e tale quindi che, pur avendo saputo rendere breve, semplice, evidente ciò che nei suoi predecessori, particolarmente francesi, olandesi e napoletani (p. es. Domenico Aulisio), era mastodontico, farraginoso, indigesto, non curò, generalmente parlando, né di raccogliere materiali diversi da quelli ch'erano già nell'archeologia e storiografia giuridiche del tempo, né di rinnovarli intrinsecamente con interpretazioni nuove, né, filosofandoli da un nuovo punto di vista, di recare alla filosofia del diritto un contributo personale.
Ediz. e manoscritti: 210 lettere autografe al card. Pignatelli, con qualche altro ms., si conservano nella Nazionale di Napoli (cfr. G. Persico-Cavalcanti, in Giorn. stor. d. lett. it., suppl. I, 1898, pp. 118-144; F. Moffa, I mss. di G. V. G., Pozzuoli 1900; M. Sterzi, G. V. G. agente in Roma di Mr. Pignatelli, in Arch. soc. rom. di st. pat., XLVIlI (1925), pp. 201-391). Fra le raccolte totali delle opere tener presente quella, in voll. 3, a cura di G. A. Sergio (Napoli 1756-58), tra quelle parziali, le Prose, a cura di P. Emiliani-Giudici (Firenze 1857).
Bibl.: G. B. Vico, Autobiogr., carteggio, ecc., ed. B. Croce e F. Nicolini, Bari 1929, indice dei nomi; S. Maffei, in Giorn. d. lett. d'Italia, XXXI (1719), pp. 318-32; G. Cito, G. V. G., nel vol. I delle Notizie istoriche d. Arcadi morti, Roma 1720; G. A. Sergio, nel vol. III della sua cit. ediz. delle Opere; G. G. A. Serrao, De vita et scriptis J. V. G., Roma 1758; G. B. Passeri, Biografia di G. V. G., Venezia 1769; A. Fabroni, Vitae Italor., X, Pisa 1783; L. Giustiniani, Scrittori legali del Regno di Napoli, II, Napoli 1787, pp. 124-34 (ricco di ragguagli bibliogr.); P. Emiliani-Giudici, introd. alle Prose, cit.; R. Cassetti, La vita e le opere di G. V. G., Cosenza 1879; F. Moffa, G. V. G., in Studi di letter. it., diretti da E. Pèrcopo, VII (1907), pp. 165-349. - Sul G. filosofo e critico letterario: B. Croce, Estetica, 6ª ed., Bari 1928; id., Problemi di estetica, Bari 1911, pp. 360-70 (da cui si può desumere la precedente letteratura dell'argomento); A. Pepe, l'estetica del G. e del Calopreso, in Rinnovamento, Cosenza, gennaio 1923; B. Croce, Storia dell'età barocca, Bari 1929; id., Nuovi saggi sulla letter. italiana del Seicento, Bari 1931, pp. 341-46. - Sul G. giureconsulto e scrittore politico: S. Maffei, in Giorn. d. lett. d'Italia, VI, ristamp. in app. alla cit. ediz. delle Prose del G.; Montesquieu, Esprit des lois, passim; G. A. Sergio, Di G. V. G. giureconsulto, Napoli 1758; G. B. Requier, pref. alla sua trad. delle Origines (indicazioni delle derivaz. del Montesquieu dal G.); V. Cuoco, Gli scrittori polit. italiani (1804); Rapporto al Murat sulla P. I. (1809), in Scritti vari, ed. N. Cortese e F. Nicolini, Bari 1924, I, p. 128; II, p. 44; G. Manna, Della giurispr. e del foro nap., ecc., Napoli 1839, pp. 147-49. - Sul G. pedagogista: R. Micacchi, Le idee pedag. di G. V. G., Roma 1904.