IMPERIALE (Imperiali), Gian Vincenzo
Nacque a Sampierdarena nella primavera del 1582 da genitori appartenenti a due delle famiglie più importanti della Repubblica di Genova: il padre Gian Giacomo, potente uomo d'affari, più volte senatore, fu eletto doge nel 1617; la madre era Bianca Spinola, sorella di Orazio, futuro arcivescovo di Genova.
Sebbene non si abbiano notizie dettagliate sulla sua formazione, l'I., destinato dal padre alla guida di una frenetica attività commerciale e finanziaria, dovette accumulare in modo sollecito una conoscenza approfondita dei classici latini e greci, oltre che della tradizione volgare, probabilmente alla scuola di privati precettori ("doctissimi viri" non meglio identificati in Sauli Carrega, p. 139). Di questi primi studi e delle composizioni d'esordio, in verso e in prosa, faceva tesoro in quaderni e volumetti andati perduti, forse distrutti dal giudizio più raffinato degli anni successivi. Fu un apprendistato condiviso con altri giovani nel palazzo di Campetto, dimora della famiglia, ove presero a riunirsi i membri dell'Accademia dei Mutoli: del consesso l'I., oltre che affiliato con il nome di Desioso, fu con ogni probabilità fondatore e promotore principale (Besomi, 1969, p. 189). Nei primi anni del secolo, dunque appena ventenne, era inoltre già iscritto nel selezionato gruppo degli Addormentati, accanto a figure di rilievo non solo locale come G. Chiabrera, A. Cebà, A. Grillo, con i quali entrò in contatto grazie anche alla mediazione svolta dal pittore Bernardo Castello, a lui legato sin dal principio del 1601. Offrendo il potente appoggio della sua solidità economica, oltre che il lustro della casata, l'I. sottopose a questi autori le sue prime fatiche poetiche, e chiese in cambio il riconoscimento pubblico di una frequenza epistolare, l'onore di uno scambio di sonetti (cfr. Grillo, pp. 908 s.).
A testimonianza poi di un intreccio tra poesia e arte figurativa che è sigla dell'intero percorso intellettuale dell'I., a fornire l'occasione per l'esordio editoriale fu proprio l'amicizia con un artista come il Castello: questi approntava una nuova edizione della Gerusalemme liberata accompagnata dalle sue incisioni (a ripetere l'esperienza di successo del 1590), e invitò l'I. a sostituire G. Chiabrera nella composizione degli argomenti da collocare in apertura di ogni canto (l'edizione sarebbe uscita nel febbraio 1604: La Gierusalemme di Torquato Tasso, con gli argomenti del sig. Gio. Vincenzo Imperiale, figurata da Bernardo Castello, Genova, G. Pavoni). Già all'anno precedente risalgono le testimonianze di scambi di lettere e sonetti tra l'I. e G.B. Marino: se le missive sono andate perdute, rimangono le espressioni di gradimento e ammirazione (con formule invero che odorano di encomio generico e di ossequio) che il Marino indirizzò a B. Castello riguardo alle rime dell'I. (Marino, 1960, pp. 32-38). Il contatto si strutturò al solito sulla base di un reciproco scambio di cortesie: da una parte il sonetto mariniano dedicato all'I. In un tempo, Vincenzo, e ami e canti (che sarebbe poi stato ammesso nella terza parte della Lira) e dall'altra i "venti palmi di velluto insieme al raso" che l'I. regalava al poeta napoletano (Marino, 1960, pp. 41-43).
Nel 1604, in novembre, tramite oculati accordi presi dal padre, l'I. sposò la ben dotata Caterina Grimaldi: dall'unione, celebrata tra gli altri proprio dal Marino con l'epitalamio Urania, nell'ottobre 1606 sarebbe nato il primo figlio, Francesco Maria. In quei mesi andava anche stringendosi il legame con Chiabrera, riconosciuto caposcuola delle generazioni postassiane, legame sollecitato da un lato dall'ambizioso attivismo dell'I. e d'altra parte dalle difficoltà economiche del poeta savonese, che nel settembre 1606 ricevette un prestito dall'I. dopo avergli dedicato la Parte terza delle Poesie edite da G. Pavoni. Circondatosi dunque con oculatezza di appoggi e patrocini letterari, l'I. giunse infine nel 1607 a pubblicare, sempre presso il Pavoni, l'opera cui a lungo aveva lavorato negli anni precedenti: lo Stato rustico, poema diviso in sedici parti e inteso a celebrare l'ozio campestre e un ideale di aurea mediocritas.
Assai esile la fabula dell'opera (di cui ancora manca un'edizione moderna): la narrazione di un viaggio del pastore Clizio in compagnia della musa Euterpe da Genova al monte Elicona, che è un allontanamento dallo stato civile e una progressiva immersione in scenari naturali distesamente descritti, è appena mossa dai reiterati incontri della coppia con varie figure di pastori e dalle relative parentesi di racconti elegiaci. Più delle connessioni di ordine allegorico (come quella tra stato rustico e condizione umana nella parte V), o dei riferimenti ad ambienti e personaggi prossimi all'I. (nella parte X il ricordo dell'Accademia dei Mutoli, nella XIV una rassegna dei moderni poeti) nello Stato rustico rilevano gli equilibri interni e le soluzioni stilistiche. Le lunghe digressioni sulle parti del corpo umano (V), sui cavalli (XI), sulle meraviglie di una grotta (XII), e nel complesso la celebrazione della meravigliosa perfezione della natura dominano l'intero poema e forniscono le coordinate dell'operazione dell'I., avvicinabile a quella linea di catalogo enciclopedico che era stata dei poemi esameronici di fine Cinquecento, dalla Sepmaine di G. Du Bartas al Mondo creato di T. Tasso. Come ha notato Pozzi (1996, pp. 191-204), nello Stato rustico è già in luce quella crisi della narratività, e il conseguente dominio dell'istanza descrittiva, che caratterizzerà l'Adone. Anche sul piano stilistico il poema anticipa le soluzioni della nuova poesia mariniana alla ricerca della meraviglia: "se il poeta vuol'esser curioso appresso de gli altri, debbe egli prima in se medesimo esser curioso, et tanto studioso del capriccio quanto della prontezza nello spiegarlo" (Stato rustico, Venezia 1613, **3r). Accanto a un'insistita ricerca sul piano fonico, al ricorso all'amplificazione e alla metafora continuata ("le licenze del parlare ardito", **2v), ricorrente è la pratica dei versi rapportati applicata su lunghe sezioni del dettato poetico, con una sperimentazione indirizzata più sulla posizione che non sui lemmi, più sulla dispositio che non sull'elocutio. Non è un caso che gli schieramenti letterari si divisero nettamente sul valore dello Stato rustico: da un lato la sollecita adesione di un C. Achillini ("l'invenzione per molte varietà è molto curiosa e dilettevole": Marino, 1912, pp. 118 s.), d'altra parte le critiche di un T. Stigliani.
Un paio d'anni più tardi, nel settembre 1609, l'I. lasciò Genova, dirigendosi prima verso Milano, poi a Mantova (ospite di Angelo Grillo), quindi a Ferrara ove rese visita allo zio Orazio Spinola, nel frattempo divenuto cardinale. In questa occasione, come in tutti gli altri viaggi degli anni successivi, incaricò un suo aiutante di redigere un accurato resoconto di spostamenti, incontri, avvenimenti in taccuini che rivestono notevole valore documentario (furono pubblicati da Barrili nella sua edizione dei Viaggi dell'Imperiale). Nell'ottobre dell0 stesso anno passò a Bologna, Assisi, arrivò a Roma e giunse fino a Napoli; era tuttavia già a Genova all'inizio di dicembre.
In contemporanea con l'uscita della seconda edizione, a Genova presso il Pavoni, dello Stato rustico, ampliata e modificata (la prefazione reca la data del 1° ag. 1611), e mentre si andavano addensando gli omaggi e i riconoscimenti entro gli ambienti letterari (tra gli altri le Rime di A. Cebà, edite a Roma nel 1611, pp. 440-444, 710-713), l'I. intraprese gradatamente l'attività politica: fu infatti eletto alla carica biennale di colonnello della Repubblica a difesa della Val Polcevera. Qualche mese dopo si allontanò da Genova per un nuovo viaggio nell'Italia settentrionale, toccando Pavia, Piacenza e ancora Ferrara, a trovare lo Spinola; l'I. colse così l'occasione per diffondere tra poeti e letterati la nuova edizione del suo poema, stringendo in quelle settimane un'importante amicizia con C. Achillini. Passò a Venezia, ove conobbe Palma il Giovane, e quindi a Padova, Vicenza e Milano per tornare a Genova alla fine di maggio 1612. Pochi mesi dopo, all'inizio del 1613, usciva a Venezia la terza edizione dello Stato rustico accompagnata da una ricca antologia di componimenti poetici in onore dell'I. da parte dei principali letterati italiani dell'epoca, una sorta di legittimazione ufficiale.
Contemporaneamente, l'I. diede alle stampe un poemetto dal titolo Gl'indovini pastori (Genova 1613) dedicato al marchese di Carrara e futuro principe di Massa Carlo I Cibo Malaspina, a celebrare la nascita del suo secondo figlio Alderano.
La veste formale dell'opera, che prevedeva settanta stanze di versi sciolti, tranne gli ultimi due di ogni stanza, un settenario e un endecasillabo, rimati tra loro, rappresentava una rivisitazione del genere bucolico quattrocentesco condotta attraverso uno strenuo ricorso a un'invenzione fondata sui nessi metaforici (Besomi, 1975, pp. 89-95). Gl'indovini pastori era però opera dall'ambizione minore, esercizio fondato su una maniera consolidatasi e chiuso entro un alveo di ozio accademico; giudizio che può estendersi a La beata Teresa, stampata a Genova, per il Pavoni, nel 1615 e dedicata alla sorella Paula; l'opera sarebbe apparsa in seconda edizione a Venezia, per E. Deuchino, nel 1622 (con il titolo di La santa Teresa), accompagnata da un discorso di Guido Casoni denso di ammirazione per i "nuovi modi" e l'ingegno con cui l'I. aveva legato le "sposizioni" delle imprese su cui era scandita la biografia alla stesura di raffinati componimenti in versi.
Da qui in avanti a lungo la penna dell'I. tacque né mai furono pubblicati i Cento discorsi politici e il Canzoniere, che venivano annunciati come di prossima pubblicazione da P. Petracci nella dedica a Ferdinando Gonzaga della terza edizione dello Stato rustico (c. *5v); assai più avanti, con l'I. ancora in vita, circolavano notizie di libri "non ancora usciti" e, oltre ai discorsi di argomento politico, si menzionavano come vicini alla stampa tre libri di "Poesie latine e toscane giovanili e amorose" (Ghilini, pp. 111 s.), di cui però non è rimasta traccia.
A sé stante invece, seppure segnato inconfondibilmente dai tratti stilistici propri dell'I., il volume organizzato in occasione della morte dello Spinola: i Funerali, editi senza indicazione d'autore e note tipografiche (ma Genova 1616) intendevano commemorare il cardinale scomparso con una lunghissima descrizione della "pompa solenne di quei sontuosi apparati" (p. 16), cui si legava un lungo ragionare a partire dalle imprese, secondo un procedere insieme metaforico e moraleggiante, intessuto a lungo sull'opposizione morte-vita, che doveva riuscire gradito alla vena spiccatamente analogica dell'Imperiale.
Di là da questa celebrazione sontuosa di un lutto privato, l'I. andava totalmente immergendosi nell'attività politica e nella gestione economica: nell'aprile 1616 fu infatti nominato ambasciatore a Mantova e prese a supportare il padre (eletto doge nell'aprile dell'anno successivo) nel governo di una situazione tanto esterna quanto interna densa di pericoli, anche per l'attivismo espansionistico di Carlo Emanuele I di Savoia, preoccupazione costante della Repubblica. Sul versante privato, nel gennaio 1618 morì di parto la moglie Caterina, lasciando l'I. genuinamente addolorato a vegliare sui sette figli, tutti in tenera età. Nel luglio 1618 fu nominato per un biennio prefetto generale delle galee della Repubblica: per alcune missioni si mosse prima verso la Spagna, quindi verso la costa siciliana (di questi spostamenti rimane resoconto ancora nei Viaggi), impegnandosi anche in una difficile opposizione ai pirati che infestavano l'alto Mediterraneo. Nel gennaio 1621 giunse invece la carica di commissario per la città di Albenga, con il compito di organizzare milizie e viveri in vista di uno scontro ritenuto imminente con i Franco-Piemontesi.
Nell'agosto dello stesso 1621, dopo tre anni di vedovato, l'I. sposò Brigida Spinola, anch'essa vedova (di un Doria, Giacomo Massimiliano), in un'unione cui non erano estranei reciproci interessi: l'ottica era infatti quella della difesa patrimoniale, tanto più dopo la morte (nel febbraio 1622) del padre Gian Giacomo, che aveva lasciato l'I. alla testa di una considerevole fortuna.
Sempre nel 1622, in aprile, partì per un nuovo viaggio e attraverso Pavia e Ferrara giunse a Venezia, poi a Bologna, consolidando amicizie letterarie (in queste settimane visitò la raccolta di U. Aldrovandi, rimanendone ammirato). L'anno successivo, in aprile, trascorse tre settimane a Milano, ancora a contatto con pittori e letterati. Giunse però da Parigi, proprio allora, la sua più grande consacrazione: stampando l'Adone sotto gli auspici di Luigi XIII, Marino tributava al termine del canto I (ottave 136 s.) un elogio senza ombre al Clizio dello Stato rustico, indicando nel poema dell'I. un modello di rilievo e un precedente caro: in mezzo all'esasperato agonismo mariniano verso i poeti coevi, si trattava di un riconoscimento inatteso che attesta un rapporto forse più intenso e protratto di quanto oggi non documentino le testimonianze pervenute (va ricordato che lo Stato rustico giocò un ruolo significativo anche nella composizione della Sampogna mariniana, a stampa nel 1620).
La vita dell'I. non fu mutata da questo riconoscimento di prestigio assoluto e continuò a scorrere tra mansioni amministrative e diplomatiche: nel marzo 1624 fu assegnato al capitanato della Polcevera e l'anno dopo entrò nel vivo dello scontro tra la Repubblica e Carlo Emanuele: ebbe infatti la missione di vigilare e riferire da Alessandria, accanto al governatore spagnolo di Milano, Gómez Suárez de Figueroa, sullo sviluppo degli scontri. Quando poi, in quegli stessi giorni del 1625, venne nominato alla carica di senatore, assunse la guida dei lavori di fortificazione della città (inaugurati con solennità alla fine del 1626).
Nel dicembre 1627, dimessa la veste di senatore, l'I. partì per Napoli, dimorandovi diversi mesi ed entrando in relazione con gli Oziosi, presieduti da G.B. Manso e raccolti intorno all'amministrazione dell'eredità della poesia mariniana; nel tornare a Genova, sostò anche a Roma, a rendere omaggio a Urbano VIII, principe invece di quella restaurazione di marca classicistica che si era opposta al poeta dell'Adone.
In patria, oramai quasi cinquantenne, era riconosciuto come figura di assoluto rilievo: di qui una serie di incarichi, onorificenze, mansioni a lui destinate nella vita pubblica di quegli anni. Ma i suoi interessi lo condussero di nuovo a Sud: nel 1631 acquistò un feudo a Sant'Angelo dei Lombardi, in Irpinia, e per sanare una serie di difficoltà legate a quelle terre, partì nel maggio 1632 alla volta di Napoli; la permanenza in Campania durò un anno esatto tra l'8 maggio 1632 e lo stesso giorno del 1633 e rappresentò l'occasione per riallacciare i rapporti con gli Oziosi. Il racconto dettagliato che si legge nei Giornali dell'I. offre non soltanto un'immagine vivida dell'ambiente napoletano, delle vacanze, degli incontri, cui si legano riflessioni intime e digressioni moraleggianti, ma fornisce anche una conferma di una tensione costante nella scrittura dell'I. all'ornatus, il suo ricorso alle figure di ripetizione, l'adozione anche nella prosa di un misura artificiosa intessuta su leggi di simmetria.
A Genova, intanto, invidie e rivalità presero a lavorare contro di lui: le sue posizioni ostili all'ingerenza spagnola nella vita della Repubblica furono occasione per una messa sotto accusa (gli si imputavano l'organizzazione di omicidi su commissione e in generale slealtà verso il governo: Martinoni, pp. 91 s.). Condannato a due anni di esilio, nel giugno del 1635 l'I. abbandonò Genova, dirigendosi prima a Parma e a Modena (ove ricevette larghi attestati di stima e sostegno da Farnese ed Este), quindi a Bologna. Appunto nella città felsinea trascorse gran parte dell'esilio (con puntate a Venezia, e relativa conoscenza di C. Monteverdi e G.F. Loredan) e ritornò alle composizioni letterarie: di questi mesi non solo la cura delle Opere spirituali della beata genovese Battista Vernazza (Bologna 1636), in tre tomi dedicati a Urbano VIII, ma soprattutto la composizione del Ritratto del Casalino (due edizioni bolognesi, v. Benacci, 1637), che, attraverso la celebrazione dell'ospitalità e dell'amicizia del suo ospite Galeazzo Paleotti, rappresentava anche un'autodifesa, un'amara denuncia di corruzioni e tradimenti patiti. Sempre nel senso di un'apologia, a rovesciare l'onta dell'esilio, vanno intesi Gl'encomii composti da Francesco Bogliano (a stampa a Bologna negli ultimi mesi del 1637), che tracciavano un'immagine composta e solenne dell'Imperiale.
Poco prima di rientrare a Genova, l'I. decise di apportare sostanziali modifiche al testamento (redatto per la prima volta nell'agosto 1630), spartendo in modo più equo i suoi beni tra il primogenito Francesco Maria, da cui lo dividevano sospetti e diffidenza, e il prediletto Gian Battista. Sulle sue ultime volontà l'I. sarebbe tornato più volte nel tempo, tentando in ogni modo di evitare scontri di interesse tra i figli (scontri che, violentissimi, si sarebbero puntualmente verificati dopo la sua morte: Martinoni, pp. 118-126).
Il ritorno a Genova avvenne nell'aprile 1638, ad aprire l'ultimo e più dimesso decennio di vita dell'Imperiale. Vittima di cattive condizioni di salute, concorse per due volte senza successo alle elezioni per la carica di doge (nel 1641-42), e dopo un viaggio in Lombardia nel 1643, si rinchiuse in un riserbo completo. Gli ultimi lampi che emergono dalle sue carte riguardano la catalogazione nel 1647 dei suoi quadri e della collezione libraria, con l'I. impegnato a descrivere le opere d'arte cumulate con amore lungo tutta una vita.
La morte lo colse a Genova il 21 giugno 1648.
Rime latine dell'I. sono in Carmina illustrium poetarum Italorum, V, Florentiae 1720, p. 417; Viaggi di Gian Vincenzo Imperiale, a cura di A.G. Barrili, in Atti della Società ligure di storia patria, XXIX (1898), pp. 33-278; De' Giornali di Gian Vincenzo Imperiale, a cura di A.G. Barrili, ibid., pp. 297-707.
L'interesse dell'I. per la pittura fu precoce, probabilmente stimolato dal contatto diretto con gli artisti che lavorarono nelle dimore di famiglia; già negli anni giovanili, grazie all'enorme disponibilità finanziaria, cominciò ad acquistare dipinti, che nel corso degli anni andarono a costituire un'imponente quadreria raccolta nel palazzo di Campetto e nelle ville di Sampierdarena e di Savona. Un primo episodio che testimonia il calibro degli interessi dell'I. riguarda la Morte di Adone e l'Ercole e Onfale, che ottenne da P.P. Rubens. Permane l'incertezza se egli sia stato committente o semplice acquirente delle due tele, eseguite tra il 1601 e il 1603, durante il soggiorno dell'artista in Italia, ma l'episodio precede il viaggio di Rubens a Genova, avvenuto nel 1606, durante il quale fioccarono da parte della nobiltà genovese richieste di farsi ritrarre dall'artista.
A Genova diversi pittori (B. Castello, Bernardo Strozzi, Sinibaldo Scorza, Domenico Fiasella detto il Sarzana) avevano i loro ateliers nelle vicinanze del palazzo di Campetto, sicché l'I. poté instaurare con loro una consuetudine di rapporti, seguendo da vicino la loro attività e intervenendo con un'oculata committenza. Lo studio del Castello, luogo d'incontro oltre che di artisti anche di letterati, funse da crocevia tra esperienze figurative e poetiche, nonché da filtro tra la cultura genovese e quella del resto d'Italia: l'edizione 1604 della Liberata, con gli argomenti dell'I. e le tavole del Castello, segnò l'ingresso nella cultura figurativa genovese del poema tassiano (il Castello dipinse scene della Gerusalemme nel palazzo di Campetto; il Fiasella raffigurò l'episodio di Rinaldo e Armida nella villa di Savona). Un intenso rapporto di amicizia legò l'I. con Giovan Battista Paggi, rientrato a Genova nel 1599 dopo un esilio ventennale e subito assai richiesto anche in virtù della cultura letteraria che gli veniva riconosciuta. Pittori della scuola del Paggi, Castellino Castello, lo Scorza, il Fiasella, sono ben rappresentati nella quadreria dell'I., mentre meno significativo è l'interesse per altri artisti genovesi, Luciano Borzone, Cesare Corte, Gioacchino Assereto, Giacomo Solaro, presenti con una sola opera.
L'attività politica e diplomatica dell'I. favorì l'intreccio di relazioni con artisti estranei all'ambiente ligure, collezionisti, appassionati, mercanti, che l'I. utilizzò per arricchire la collezione attraverso commesse contrattate direttamente con gli artisti, oppure con acquisti effettuati in loco o più spesso affidati ad abili intermediari che poi gli spedivano le opere a Genova. A Venezia nel 1621, e di nuovo dieci anni dopo, visitò Iacopo Palma il Giovane, e in una di queste occasioni è probabile abbia commissionato all'artista il S. Gerolamo e la Maddalena che sistemò nel palazzo di Campetto. Nel 1622 a Bologna conobbe Guido Reni, di cui nella collezione figura un S. Sebastiano. Ospite dell'I. fu Antonio van Dyck, allievo di Rubens, che soggiornò a Genova dal novembre 1621 al febbraio 1622, poi di nuovo nell'autunno del 1624 e tra il 1626 e il 1627, stringendo amicizia con gli artisti locali e ricevendo numerosi incarichi. Sono suoi con certezza due ritratti dell'I., mentre permane il dubbio su altri sette quadri, tra cui un terzo ritratto dell'I., oggi ai Musées Royaux di Bruxelles, assegnati nell'inventario della quadreria a un Fiamengo, la cui identificazione con il van Dyck non poggia su elementi certi.
La consistenza della quadreria dell'I. si ricostruisce con precisione grazie al minuzioso inventario da lui compilato alla fine degli anni Trenta con l'ausilio del Fiasella (Martinoni, pp. 231-242). L'inventario comprende oltre trecento quadri, con le misure e la stima, elencati seguendo la collocazione negli ambienti dei palazzi, che rispondeva per lo più a mere esigenze di utilizzo degli spazi, salvo il criterio di una separazione tra tele a carattere sacro e a carattere profano che viene solitamente rispettato. Tra gli artisti presenti, oltre a quelli già citati, occorrerà ricordare Luca Cambiaso (il più rappresentato, con 24 opere), i Carracci, Caravaggio (solo con una copia de L'incredulità di s. Tommaso), Tiziano (tra l'altro il celebre ritratto di B. Castiglione oggi a Dublino, National Gallery, e un Cristo in croce strappato a Chiabrera nel 1615 in risarcimento di un prestito), il Correggio, P. Bordon, D. Dossi, Giulio Romano, Raffaello, G.C. Procaccini, D. Fetti, il Pordenone, Giorgione, G. Vasari, D. Dossi, Paolo Veronese (Cena in casa di Simone, il pezzo più pregiato, ma non l'originale conservato oggi nella Galleria Sabauda di Torino), il Parmigianino, il Tintoretto.
Alla scomparsa dell'I., il figlio Francesco Maria tentò di evitare che la quadreria andasse smembrata, per procedere a una vendita integrale, ma il suo ingente valore ridusse il numero dei possibili acquirenti. Nel 1659 Carlo II Gonzaga-Nevers inviò a Genova i fratelli Salvatore e Giovan Benedetto Castiglione, il Grechetto, per avviare trattative. Queste si protrassero, tra mille intrallazzi e difficoltà fino al 1664, poi la morte del duca di Mantova l'anno dopo le interruppe del tutto. Nello stesso 1665, 59 quadri furono acquistati all'asta dal genovese Francesco Maria Balbi; due anni più tardi una quarantina lasciò Genova per la residenza di Cristina di Svezia a Roma. Alla scomparsa di Cristina, dopo alterne vicende, una trentina di dipinti prese la via della Francia, divenendo proprietà di Filippo d'Orléans, e dopo la sua morte, nel 1727, furono alienati dagli eredi. La parte più consistente della quadreria, rimasta a Genova, subì probabilmente una distruzione parziale sotto il bombardamento francese del 1684. Le ville di Sampierdarena e di Savona furono spogliate negli anni del loro contenuto e i dipinti andarono in mano di privati. Alla metà del Settecento il numero di quadri in possesso della famiglia era assai esiguo e la collezione si poteva considerare dispersa.
Fonti e Bibl.: Fonti e bibliografia sull'I. sono recensiti in R. Martinoni, G.V. I. politico, letterato, collezionista genovese del Seicento, Padova 1983. In particolare: I.N. Sauli Carrega, Epistolarum libri tres ad perillustrem Ioannem Vincentium Imperialem, Genuae 1603; G. Chiabrera, Delle poesie… parte prima [- terza], Genova 1605-06; A. Grillo, Lettere, Venezia 1612, pp. 908 s.; V. Malvezzi, Il ritratto del privato politico christiano…, Bologna 1639, pp. 197-226; G.B. Marino, Epistolario seguito da lettere di altri scrittori del Seicento, a cura di A. Borzelli - F. Nicolini, II, Bari 1912, pp. 118 s.; Id., Lettere, a cura di M. Guglielminetti, Torino 1960, pp. 32-43; Id., Adone, a cura di G. Pozzi, Milano 1988, ad ind.; Id., La Sampogna, a cura di V. De Maldé, Parma 1993, ad ind.; G. Chiabrera, Lettere, a cura di S. Morando, Firenze 2003, ad ind.; G. Ghilini, Theatro d'huomini letterati, Venezia 1647, pp. 111 s.; C. Colombo, Cultura e tradizione nell'Adone di G.B. Marino, Padova 1967, pp. 64-84; O. Besomi, Ricerche intorno alla Lira di G.B. Marino, Padova 1969, pp. 142-150; Id., Esplorazioni secentesche, Padova 1975, pp. 88-95, 99-112, 118-128; A. López Bernasocchi, Una nuova versione del Viaggio in Parnaso…, in Studi secenteschi, XXIII (1982), pp. 63-90; G. Sopranzi, Le tre redazioni dello "Stato rustico"…, in R. Reichlin - G. Sopranzi, Pastori barocchi fra Marino e I., Friburgo 1988, pp. 75-140; G. Ruffini, Sotto il segno del Pavone…, Milano 1994, ad ind.; S. Bulletta, V. Malvezzi e la storiografia…, Milano 1995, pp. 33 s.; G. Pozzi, Anamorfosi poetiche nelle maniere di Cinque-Seicento, in Id., Alternatim, Milano 1996, pp. 191-204; Su la Gierusalemme di Torquato Tasso, con scritti di Giovan Vincenzo Imperiale, G. Chiabrera, G. Marino e A. Grillo, a cura di S. Verdino, Genova 2002.
-