ROSSI, Gian Vittorio (Roscius). – Nacque a Roma nel 1570, primogenito di tre figli; il padre era giureconsulto e gentiluomo romano. Nel ginnasio dei gesuiti fu allievo di Francesco Benci, di Ottavio Tursellini, di Marc-Antoine Muret e di Girolamo Brunelli (nell’ebraico)
, di Muzio Vitelleschi e di Cristoforo Clavio. Dei primi studi parla nel dialogo Nicius. Durante la rappresentazione del dramma sacro di Bernardino Stefonio Sancta Sinforosa nel Collegio romano recitò la parte della santa per sostituire un compagno, mandando a memoria settecento versi in una notte. Dopo la morte precoce del padre, il fratello minore prese presto una brutta strada e la madre si mostrò incapace di gestire il patrimonio familiare. Rossi si gettò allora a capofitto negli studi e a diciannove anni si addottorò in diritto. Avviato a una brillante carriera forense, fece pratica civile con il giureconsulto Lepido Piccolomini, che però scomparve poco dopo. Decise quindi di consacrarsi interamente alle lettere latine, abbracciando toto corde lo stile ciceroniano.
Aderì con il nome di Aridus all’Accademia degli Umoristi, che frequentò fino al 1638 e dove ebbe amici carissimi, come Lelio Ubaldini, Gasparo Celi, Girolamo Aleandro jr, Jean-Jacques Bouchard, Gabriel Naudé.
L’Accademia è descritta, sotto travestimento, da Rossi nel III libro dell’Eudemia: fondata nel 1600, era frequentata dalle più alte personalità letterarie e politiche, oltre che da pittori, scienziati, musicisti, uomini di teatro; ebbe la protezione di Clemente VIII e di Alessandro VII. Osservatorio privilegiato della cultura romana contemporanea, in cui si muoveva un mondo denso di umori intellettuali inquieti e di fermenti libertini in ambiguo rapporto con il potere, costituì la punta più avanzata dello sperimentalismo di primo Seicento prima e della politica culturale dei Barberini poi. Davanti agli Umoristi nel 1612 Rossi recitò l’orazione funebre per Battista Guarini (stampata nelle Orationes XXII del 1649). Tra gli Umoristi rappresentò sempre una direzione antimarinistica e ciceroniana negli aspetti retorici e formali, e ne fu «forse, se si esclude il Naudé, il personaggio più interessante» (Rosa, 19822, p. 343). Secondo alcuni, insieme a Bouchard (interlocutore del dialogo De amicitia) e a Naudé, costituì una sorta di circolo libertino all’interno di questa Accademia. Con Naudé, che fu fra gli ispiratori delle Pinacothecae e finanziò la stampa parigina del 1642 dei Dialogi XVII, Rossi intrattenne un fitto epistolario (un regesto in Sarnelli, 2001, pp. 213 s.).
Nel 1609, per intervento di Scipione Cobellucci e a sua insaputa, venne ascritto come segretario al seguito del cardinale Giovanni Garsia Mellini che andava in Germania come nunzio apostolico: incamminatosi obtorto collo verso Caprarola, fu sopraffatto dalla febbre, cosicché il cardinale compassionevole lo rimandò a Roma. L’anno dopo, ormai quarantenne, entrò al servizio del cardinale Andrea Peretti, che servì per diciotto anni, fino alla morte del prelato nel 1628. Alle amarezze di questa servitù allude nel V libro dell’Eudemia e in più luoghi dell’epistolario.
Morto Peretti, si ritirò sul Gianicolo: spesso i frati di S. Onofrio (cui concesse in usufrutto un podere a Monte Mario, dove fece costruire a sue spese la chiesetta di S. Maria della Febbre) lo invitavano a tenere sacre conferenze e sermoni. Risale probabilmente a questo periodo di isolamento e di acre ripiegamento la raccolta di caricature, aneddoti e storielle satiriche che sarebbero confluite nell’Eudemia e nelle Pinacothecae.
Quasi tutte le sue opere furono stampate dopo il cinquantesimo anno di età e sotto il nome di Janus Nicius Erythraeus (eccetto le Orationes IX del 1603 e le Rime spirituali del 1629, dove si firma Roscius). Tutte le opere stampate negli anni Quaranta-Cinquanta recano inoltre il falso luogo di stampa di «Colonia apud Iodocum Kalcovium», ma sono in realtà pubblicate ad Amsterdam da Blaeu, perché Fabio Chigi, futuro papa Alessandro VII, cui Rossi fu legatissimo e al quale sono indirizzati i due volumi delle Epistolae ad Tyrrhenum, mentre si trovava a Colonia come nunzio apostolico riceveva le sue opere, le rivedeva e le passava a Bartoldo Nihus, che ad Amsterdam faceva da tramite, per le necessità legate alla censura e all’imprimatur, con lo stampatore Blaeu.
Durante la retraite sul Gianicolo Rossi scrisse l’Eudemia, un curioso romanzo satirico a chiave in latino, con parti in versi, dedicato a Girolamo Aleandro jr (già scomparso). Bouchard, forse, aveva una nota con la chiave dei personaggi. La dedicatoria contiene una strenua difesa dello stile ciceroniano. Pronta fin dal 1631, la prima edizione in otto libri uscì nel 1637 senza luogo di stampa; la seconda, in dieci libri, nel 1645: il nono è una palinodia di alcuni luoghi dei precedenti; il decimo è occupato dal Carnevale romano. Johann Christian Fischer ne farà un’edizione a Lipsia nel 1740.
L’opera, un vero e proprio pastiche in cui convivono generi e codici molto diversi – romanzo di viaggio, satira, facezia, novella, saggio, poesia (elegia, epigramma, egloga, epistola) –, si contrappone polemicamente al romanzo barocco e soprattutto all’asse dei romanzi a chiave Argenis-Eromena-Dianea. Cifre dell’opera sono la maldicenza, la satira, anche letteraria, della Roma barberiniana e la trasfigurazione di vicende autobiografiche. Due romani, in fuga dopo la scoperta della congiura di Seiano contro Tiberio, fanno naufragio su Eudemia. Qui vengono raccontate loro varie avventure e sono spettatori della corruzione e dei vizi dei dinasti che governano l’isola. Classicistico nella lingua e nello stile, il romanzo si rivela dissacrante nei contenuti: molto forti sono le venature scettiche, libertine ed empie e dilaga la misoginia. Tra i personaggi si riconoscono Fabio Chigi, l’erudito e antichista Leone Allacci, Campanella, il maestro del sacro palazzo Nicolò Riccardi, l’autore stesso diffratto in diversi personaggi, molti Umoristi e importanti membri del S. Collegio.
Vivace, ma per noi perduta, fu l’attività di drammaturgo sacro di Rossi. Del Tobia, stampato nel 1623, non si sa nulla (è citato nella Drammaturgia di Allacci). Una Maddalena piangente presso il sepolcro di Cristo, musicata da Virgilio Mazzocchi, fu rappresentata nel 1634 davanti ai cardinali Barberini, Aldobrandini, Ubaldini e all’ambasciatore di Polonia. Nel luglio del 1640 nella chiesa dei gesuiti, per il centenario dell’Ordine fu messo in scena l’Ignazio musicato da Loreto Vittori. La rappresentazione fu molto tumultuosa e fu necessario l’intervento degli svizzeri per riportare l’ordine. Dall’epistolario si evince che scrisse altri drammi: l’Esaù, il Giacobbe, Il presepio, Il figliuol prodigo, la Susanna.
L’opera per cui Rossi è più noto è costituita dalle Pinacothecae imaginum illustrium, doctrinae vel ingenii laude, virorum, qui, auctore superstite, diem suum obierunt, uscite in tre volumi con il solito falso luogo di stampa nel 1643, 1645 e 1648.
Grande è l’ambiguità che il titolo volutamente ingenera, giacché subito vengono in mente gli elogia di uomini illustri corredati dalle loro effigi, tanto apprezzati nel Rinascimento, o le raccolte di immagini di letterati, cardinali ecc., diffuse nel medio Seicento (Crasso, Ghilini, Tomasini, Gualdo Priorato, Lauri). L’Eritreo, invece, smentisce l’adagio per cui de mortuis nihil nisi bene e sullo sfondo della Roma papale ritrae letterati, prelati, medici (Girolamo Mercuriale), scienziati (Clavio, Galilei), giureconsulti, pittori, musicisti, uomini di teatro, accostando personaggi realmente illustri a figure strampalate, comiche, bizzarre e folli, muovendosi fra fisiognomica, teatro e novellistica e toccando i più vari registri stilistici, dall’encomio alla satira, anche velenosa, al comico, tutto completamente privo di immagini degli effigiati. Non mancano notazioni sulla morfologia fisica dei protagonisti e sulle circostanze della morte. È evidente la gara tra scrittura e pittura (le imagines sono definite «depictae nostra oratione»; Pinacotheca altera, Gregorio da Valenza, p. 9) intrapresa proprio in un momento di grandissima popolarità dei musei di uomini illustri. Palese è anche la polemica con le Apes Urbanae di Allacci, che sono una biblioteca di autori vivi, mentre le Pinacothecae sono una galleria di morti illustri o curiosi. Alcune icone sono strutturate a scatole cinesi, con elogi contenenti altri elogi, ciò che permette, a esempio, di lodare più volte Fabio Chigi, ancora vivo. L’autore non rinuncia a ritrarre personaggi scomodi come Galileo Galilei (il cui elogio somiglia a quello di Epicuro in Lucrezio) e Tommaso Campanella, inserito in un dittico di domenicani illustri e accoppiato, non senza malizia, a quel Nicolò Riccardi, padre Mostro, satireggiato anche nell’Eudemia. Né Rossi si mostra equanime nel giudicare i suoi effigiati: ora non si trattiene dal riferire qualche macchia riguardante la vita privata o l’ortodossia religiosa, ora si premura di cancellare o minimizzare sospetti di eresia o di cattivi costumi, come nel caso di Muret, i cui turbolenti trascorsi sono considerati degni «juventutis excusatione» (Pinacotheca, Marc-Antoine Muret, p. 13) e del quale è sottolineata la pia morte. Alcune sono vere e proprie novelle, molto comiche, come quella sul cinico campano Marc’Antonio De Prosperis. I letterati sono quasi tutti nel primo volume: fra i più famosi troviamo Preti, Marino, Achillini, Tassoni, Bruni, Guarini, Baldi, Grillo, Querenghi, Stefonio, Chiabrera, Bonarelli, Aldo Manuzio il Giovane, Rinuccini, Ciampoli, Cesarini, Tasso, Muret, Guidiccioni; nella Tertia Bracciolini, Testi, Barclay, Lipsio, Boccalini. Tra gli effigiati ci sono alcuni viventi, fra cui il famoso cantante Loreto Vittori. Solo sette le donne: Margherita Sarrocchi, Lorenza Strozzi, Marta Marchini, Matilda Bentivoglio, Maria Isabella Accoramboni Ubaldini (ancora viva), Lucrezia Gherardesca, Teresa contessa di Persia.
Opere spirituali sono gli Exempla virtutum et vitium del 1644, testo di gran successo, dedicato a Chigi: si tratta di 177 articoletti (l’insegnamento è: «declina a malo et fac bonum»; lettera del tipografo al lettore, p. 4r) spacciati per autentici, pieni di eventi soprannaturali e orrorosi e di impudenti fandonie; i Documenta sacra ex Evangeliis del 1645; gli Opuscula spiritualia tria del 1648 (tutti dedicati a Chigi) e le 41 Homiliae del 1649. Anche la maggior parte del secondo volume dei Dialogi (1649) è di argomento religioso.
Nell’ultimo anno di vita fu protagonista di un episodio tra il comico e il patetico: aveva comprato la carica onorifica di commissario dell’Acqua Marana, da cui ricavava una rendita annuale; quando questa senza ragione smise di essergli pagata, spinto dal bisogno, scrisse l’orazione S.P.Q.R. (è l’ultima delle Orationes XXII), che fu accolta con risa e scherno: il cardinal Capponi, a titolo di favore, ottenne comunque che due anni su tre gli fossero restituiti. Abbandonò allora il Gianicolo per ritirarsi a Monte Mario, dove morì il 13 novembre 1647, lasciando i monaci di S. Onofrio eredi delle sue sostanze; venne sepolto nella loro chiesa.
Questa l’epigrafe tombale: «Ioanni Victorio Roscio / Iani Nici Erythraei nomine / apud externos notissimo / huius domus et ecclesiae / munificentissimo fundatori».
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