GAVAZZENI, Gianandrea
Nacque il 25 luglio 1909 a Bergamo, nel palazzo appartenuto alla famiglia Tasso dove aveva soggiornato il poeta Torquato. I genitori, Giuseppe e Pierina Monzini, trasmisero al figlio l’interesse per la musica e la letteratura. La madre era appassionata di teatro e vorace lettrice; il padre avvocato, esponente del Partito Popolare, pianista dilettante dotatosi di un’aggiornata biblioteca privata, svolse attività di critico musicale e di organizzatore, promuovendo fra l’altro un paio di concerti di Arturo Toscanini al teatro Donizetti nel 1920. Militante antifascista, dovette lasciare Bergamo nel 1926 in seguito a rappresaglie squadriste. Si stabilì a Milano, dove Toscanini gli mise a disposizione il proprio appartamento. Il giovane Gavazzeni sarebbe divenuto amico intimo della famiglia Toscanini e avrebbe frequentato a lungo il maestro, raggiungendolo all’Isolino di S. Giovanni dalla villa di Baveno della suocera.
Nel 1913, all’età di quattro anni, assisté alle rappresentazioni del Falstaff di Giuseppe Verdi e di Isabeau di Pietro Mascagni a Bergamo. L’ascolto dell’opera mascagnana non solo preluse all’intensa frequentazione della musica del livornese, ma fu un’epifania, «una specie di trauma freudiano infantile» (Scena e retroscena, 1994, p. 21): la rivelazione della crudeltà e la scoperta della femminilità.
Iniziò lo studio del pianoforte a sette anni. Con il trasferimento a Roma nel 1921 a seguito del padre, eletto deputato, venne ammesso al Liceo musicale di Santa Cecilia nella classe di Giuseppe Cristiani. Fondamentale fu la frequentazione dell’Augusteo guidato da Bernardino Molinari, che lo mise in contatto con la musica più recente (Béla Bartók, Francis Poulenc, Arnold Schönberg, Aleksandr Skrjabin, Richard Strauss, Igor’ Stravinskij), così come l’attenzione riservata agli spettacoli operistici e al teatro di parola. Tramite il padre conobbe i principali esponenti cattolici e liberali, da Alcide De Gasperi a Giovanni Gronchi e don Luigi Sturzo. Erano gli anni dell’ascesa al potere di Mussolini, dell’assassinio Matteotti, dell’Aventino, della svolta autoritaria del 3 gennaio 1925, eventi vissuti davvicino, per via dell’attività politica del genitore. Rimase iscritto al conservatorio romano fino al 1925, quando Giuseppe fu costretto ad abbandonare il seggio in parlamento e la città.
La famiglia tornò in Lombardia, e il giovane musicista proseguì gli studi nel Conservatorio di Milano, diplomandosi in pianoforte nel 1929 con Renzo Lorenzoni. Pur essendo allievo di Arrigo Pedrollo, studiò composizione con l’allora direttore Ildebrando Pizzetti, per il quale manifestò poi sempre una viva devozione. Avrebbe diretto le prime della Figlia di Iorio al San Carlo di Napoli (1954) e di Assassinio nella cattedrale, Il calzare d’argento, Clitennestra alla Scala di Milano (1958, 1961 e 1965), e ancora Vanna Lupa, Dèbora e Jaéle, Fedra, Lo straniero, Cagliostro. Tale dedizione lo fece passare, con marca spregiativa, per direttore ‘pizzettiano’, ma Gavazzeni era intimamente convinto della posizione centrale che spettava al proprio maestro nel panorama italiano. Dopo il trasferimento a Milano frequentò assiduamente la Scala, dove in precedenza aveva assistito a eventi memorabili, come la Manon Lescaut del 1923 diretta da Toscanini. Nella seconda metà degli anni Venti e all’inizio dei Trenta fece le prime esperienze, prendendo parte alle stagioni operistiche bergamasche come responsabile della musica da fuori scena, maestro sostituto, cembalista nei recitativi.
Nel 1932 sposò Mariuccia Polli, dalla quale ebbe due figli, nati nel 1935 e nel 1939: Franco (italianista e filologo, studioso illustre di Torquato Tasso, Pietro Metastasio e Giacomo Leopardi, professore all’Università di Pavia, morto nel 2008) e Giuseppe (imprenditore). Esordì come direttore con l’EIAR (Ente Italiano per le Audizioni Radiofoniche) di Torino nel 1933, mentre sul fronte operistico si presentò nel 1940 a Bergamo in un trittico composto da Il mito di Caino di Franco Margola, La principessa prigioniera di Vincenzo Davico e Il furioso nell’isola di San Domingo, balletto dello stesso Gavazzeni. Da qui prese avvio la carriera direttoriale, che lo vide impegnato negli anni Quaranta a Trieste, Venezia, Parma, Genova. Al 1944 va ascritto il debutto alla Scala, trasferita al teatro Lirico, con Il campiello di Ermanno Wolf-Ferrari. Intorno al 25 aprile 1945 era in prova con Mavra di Stravinskij e La pulce d’oro di Giorgio Federico Ghedini: fu testimone della liberazione di Milano e dell’assalto all’Hotel Regina.
Gavazzeni mantenne un atteggiamento equilibrato rispetto al fascismo. Considerava oppositori coloro che pagarono con l’esilio, la prigione, la vita. Verso chi convisse col regime ebbe uno sguardo condiscendente, pur consapevole della necessità di evitare qualsiasi forma di propaganda. Egli stesso praticò un dissenso passivo: «mio padre mi ha detto: “Guarda, il fascismo non si sa quando finirà. Tu devi vivere e lavorare in questo clima. Prendi la tessera perché altrimenti ti vedrai magari passare avanti l’ultimo cretino” e infatti nel ’32 presi la tessera del partito. Non ho mai però, nemmeno una volta, messo piede in un gruppo rionale o in una manifestazione pubblica. […] Nel gruppo fascista a Milano dal quale dipendevo avevano messo sulla mia scheda “permanentemente indisponibile”» (Sachs, 1997, p. 212). Non mancò comunque di allacciare rapporti con esponenti della Resistenza quali Mario Boneschi e il compositore Riccardo Malipiero (di cui diresse la première di Minnie la candida a Parma nel 1942), né di difendere pubblicamente colleghi attaccati dal regime.
L’attività compositiva occupò sostanzialmente gli anni Trenta-Quaranta, inquadrandosi entro i generi tradizionali della musica strumentale: sonate, concerti, raccolte di pezzi pianistici e cameristici. Gli esiti più interessanti furono la Sonata da casa (per l’orchestra d’archi di Michelangelo Abbado, 1944) e i tre Concerti di Cinquandò (1941, 1942, 1949), il terzo dei quali fu l’estrema composizione di Gavazzeni. Sul versante teatrale completò l’opera Paolo e Virginia (1935), libretto di Mario Ghisalberti tratto dal romanzo di Bernardin de Saint-Pierre, e il citato balletto Il furioso nell’isola di San Domingo, composto fra il 1933 e il 1939, entrambi rappresentati al teatro Donizetti. L’abbandono della composizione fu ricondotto da Gavazzeni stesso all’epigonismo pizzettiano – Pizzetti «insisteva che io facessi il compositore, prendendo una bella cantonata! La mia musica non esiste: è una diluizione del pizzettismo con inflessioni pseudopopolaresche, lombarde» (Scena e retroscena, 1994, p. 161) – oppure a motivi di ordine linguistico. Si era impossessato del musicista un certo scetticismo nei confronti delle risorse che ancora offrivano i generi e la grammatica tradizionali, così come la sfiducia nelle esperienze avanguardiste in via di affermazione.
Gli anni Trenta segnarono la nascita di salde amicizie: con Fedele d’Amico e Massimo Mila, con Gian Francesco Malipiero e Alfredo Casella. Quest’ultimo avrebbe sostenuto Gavazzeni facendo eseguire al Festival di musica contemporanea di Venezia i Canti di operai lombardi nel 1937 e il Dialogo per tenore, baritono e orchestra nel 1941, e ancora i Quattro madrigali del Tasso (Tema variato) a Losanna nel 1940. Risaliva addirittura al periodo romano l’intenso legame con Goffredo Petrassi, il quale a Gavazzeni e alla moglie dedicò La morte dell’aria (1950): durante la sua sovrintendenza alla Fenice inserì in cartellone i Notturni dei bevitori bergamaschi, affidati a Franco Ferrara; a sua volta Gavazzeni diresse in più occasioni musiche dell’amico, fra cui il Magnificat. Nel biennio in cui fu direttore artistico della Scala programmò I Capricci di Callot di Malipiero e il Ritratto di Don Chisciotte di Petrassi, oltre a Job di Luigi Dallapiccola, altro musicista con cui ebbe rapporti stretti, mantenendo vivo un repertorio che, con suo disappunto, si sarebbe in seguito via via eclissato.
In linea con certi atteggiamenti delle figure a lui vicine mostrò interesse nei confronti del popolare, nel suo caso di ascendenza lombarda (ma intonò anche poesie toscane), e della cultura italiana del passato (le musiche su testi di Guido Guinizelli, di Agnolo Poliziano e soprattutto di Torquato Tasso, segno di un amore sancito dal luogo natale). Anche alcune scelte compositive rivolgevano lo sguardo all’indietro: l’assunzione del modello della polifonia pre-tonale, il ricorso a madrigalismi, le pratiche neo-modali, il riferimento a compositori quali Girolamo Frescobaldi (fu il caso della Bergamasca per pianoforte del 1942). Si tenne invece distante dalle esperienze d’avanguardia, avvertendone lontani i rappresentanti, anagraficamente e culturalmente. Strinse rapporti con il solo Sylvano Bussotti. Gavazzeni riteneva che la tradizione musicale alla quale sentiva di appartenere stesse ormai volgendo al termine, senza per questo lagnarsene, considerandolo piuttosto un inevitabile fenomeno storico.
Fin da giovanissimo mostrò doti letterarie non comuni. Adolescente scrisse un dramma e si dedicò alla narrativa. Dalla metà degli anni Venti le direttrici seguite furono la saggistica e la diaristica. Ne sortirono una trentina di libri e svariate centinaia di articoli. Un corpus palesemente asistematico, che assomma la critica militante, la memorialistica, la cronaca, l’autobiografia, la testimonianza, ancorato però all’esperienza diretta. Il Gavazzeni scrittore nasce infatti da un’esigenza personale: «Urgeva la necessità di scrivere, cui era stato impedito per motivi pratici di attività musicale l’esercizio narrativo o poetico. Ecco il punto chiave, presi a scrivere in argomenti musicali e continuai perché le velleità letterarie si erano imbucate come una talpa nella terra» (Trent’anni di musica, p. XI).Pagine immerse nella cultura a tutto tondo dell’autore, nelle quali la letteratura, le arti figurative, l’architettura sono poste in dialogo vicendevole o mescolate ad arricchire il discorso musicale. D’altra parte la cultura letteraria di Gavazzeni segnò il versante compositivo, con l’intonazione di testi di Rainer Maria Rilke, Percy Bysshe Shelley, Riccardo Bacchelli, Beniamino Dal Fabbro, Vincenzo Cardarelli. Una cultura tutt’altro che provinciale, lontana dall’accademismo, figlia di interessi intellettuali liberi, alimentati dalla lettura, dai viaggi, dalle relazioni tessute con scrittori e artisti (Elio Vittorini, Eugenio Montale, Carlo Emilio Gadda, Carlo Bo, Renato Guttuso) spesso entro circoli e ritrovi (ad esempio a Firenze: il caffè Le Giubbe Rosse e la rivista Solaria), destinata a sfociare in un’autonomia di pensiero scevra da pregiudizi.
Gli scritti specificano l’atteggiamento direttoriale. Recalcitrante verso la gestualità artificiosa ed esornativa, Gavazzeni riteneva che il gesto dovesse conformarsi all’opera e alle sue peculiarità. Alla ricerca di un estremo rigore, ricusò la virtuosistica esibizione orchestrale. Era suo convincimento che un direttore dovesse imparare da sé il mestiere, facendo tesoro dei propri errori e rifiutando i modelli (perciò non praticò mai l’insegnamento). Aveva una concezione artigianale della propria professione. Sentiva la necessità di appropriarsi del testo, ma una «appropriazione debita […]. E questo può accadere senza stravolgere il senso, la storia, il linguaggio, lo stile di un’opera» (Scena e retroscena, 1994, p. 192). Quando affrontò il repertorio sette-ottocentesco, tagliò, sostituì, modificò, nell’intento di offrire un prodotto compatibile con le abitudini d’ascolto e con il divenire storico. La cieca fedeltà al testo era per lui impraticabile per il semplice fatto che le condizioni tecniche, esecutive, sociali, culturali mutano, rendendo a loro volta mutevoli il risultato sonoro e l’interpretazione. Gli scritti spiegano altresì il suo rapporto con la discografia, della quale non fu un sostenitore. Le manipolazioni e la stringente ingerenza tecnologica rischiavano di cancellare la lettura interpretativa, privando il direttore di un reale controllo sul prodotto. Gavazzeni era poi convinto del fatto che la musica, inclusa quella strumentale, dovesse essere ‘vista’, e che la pratica musicale fosse un fatto eminentemente sociale, in cui la presenza del pubblico è essenziale. Infatti non si inserì mai appieno nel mercato discografico. Scarse le registrazioni ufficiali, numerose quelle ‘pirata’ riversate su disco. Non ne era dispiaciuto, convinto che le riprese ‘dal vivo’ potessero in parte restituire quella tensione e quella continuità esecutiva negate alle incisioni in studio. L’attività musicale e letteraria di Gavazzeni è dunque frutto della singolare convergenza tra l’uomo di mestiere, risoluto e pragmatico, e l’intellettuale.
Ricorrente nella poetica di Gavazzeni è il legame con il luogo d’origine, argomento di cui discuteva in un articolo del 1938 titolato Ragioni native del musicista e ripreso negli anni: «il ricordo e l’evocazione, così, rivelano l’appassionato accostamento che stringe i ‘luoghi’, e le cose e i fenomeni di cui sono ricolmi, alla vita morale del musicista»; «chiuso tra i motivi e le reazioni di una vita di sentimenti, dei luoghi e delle persone che vi sono stretti addosso, io volevo allora […] che anche le mie musiche strumentali potessero ridare, magari a me solo, almeno un timbro, un timbro solo, il suono perduto d’un accordo, il battito di un ritmo nascosto nel ritmo stesso delle pulsazioni fisiche quale richiamo di cose vissute e perse». Così scrisse in due raccolte, La casa perduta: saggio di prose lombarde (1988, p. 17) e La casa di Arlecchino (1957, p. 14), che fin dal titolo evocano il legame con le radici: domestiche e geografiche. Mai mero bozzettismo, bensì motivo d’ispirazione, necessità poetica, substrato intimo, determinato da luoghi, oggetti, momenti dell’infanzia che il musicista porta con sé e riversa nella composizione. Da qui un catalogo in cui appaiono il Concerto bergamasco per orchestra (1930), l’oratorio Canti per S. Alessandro (1934), i citati Dialogo (1934-1935), Canti di operai lombardi (1937) e Notturni di bevitori bergamaschi (1938), il Coro di contrabbandieri di grappa (1940), Il furioso nell’isola di San Domingo, sul soggetto dell’omonima opera del concittadino Gaetano Donizetti, i Concerti di Cinquandò, toponimo della campagna ove sorgeva la casa dei nonni materni.
Per quanto riguarda la professione dell’interprete, le ragioni native si riconoscono nella predilezione per la musica e la figura di Donizetti e nell’intenso rapporto con il teatro di Bergamo (insieme a Bindo Missiroli, Franco Abbiati e Sandro Angelini promosse il teatro delle Novità, che fra il 1937 e il 1973 propose più di settanta nuove opere). Gavazzeni non si considerava uno specialista donizettiano, i suoi interessi e il suo repertorio erano troppo vasti per una definizione tanto limitativa, tuttavia svolse un ruolo di rilievo nella Donizetti-Renaissance. Al conterraneo iniziò a dedicarsi in veste di scrittore con alcuni dei primi saggi, per arrivare ai volumi Donizetti: vita e musiche (1937) e Gaetano Donizetti (1938). Ne diresse i titoli più conosciuti, a partire da Lucia di Lammermoor all’Opera di Roma nel 1952 e nel 1953 con Maria Callas, poi ripetutamente con Renata Scotto (la ‘sua’ Lucia). Gavazzeni ripristinò l’aria di Raimondo e il duetto tenore-baritono, tagliati nelle consuetudini esecutive dell’epoca. L’ultima volta fu alla Fenice nel 1992.L’elisir d’amore accompagnò per trent’anni la sua carriera (dal 1950 a Napoli al 1980 al Regio di Torino). Gavazzeni manifestò un’idea tutta sua sulla natura paesaggistica ‘lombarda’ di quel capolavoro. Incrociò Don Pasquale solo due volte, a stretto giro, nel 1952 a Napoli e nel 1953 a Torino, pur avendone una visione lucidissima: «non opera comica ma dramma di profonda malinconia […] nasce dai caratteri e dall’ambiente della prima commedia borghese […]. Personaggio drammatico, Don Pasquale, non ridicolo, non grottesco, non buffonesco» (Il sipario rosso, pp. 111-113). Più assiduo il rapporto con La favorita: la prima volta nel 1949 a Trieste, poi alla RAI di Milano nel 1952, alla Scala nel 1962 (quando si alternavano Fiorenza Cossotto e Giulietta Simionato, e preservò le danze) e nel 1966, a Catania nel 1970.
Momento decisivo furono le celebrazioni donizettiane del 1948 a Bergamo, ove diresse lavori semisconosciuti: Il campanello (da poco riproposto al Maggio Musicale Fiorentino), Poliuto e la Messa di Requiem. Si occupò della formazione della compagine orchestrale, contribuì alla scelta di cantanti e registi, predispose i materiali per l’esecuzione di Betly (direttore Franco Capuana). Un bagaglio che avrebbe ripreso in seguito con il Poliuto di Genova nel 1950 (e quello tardo di Ravenna e Bergamo, 1992 e 1993), Il campanello di Torino (1949) e i numerosi Requiem. Evento capitale fu però l’Anna Bolena del 1957 alla Scala, con regìa di Luchino Visconti e un quartetto di fuoriclasse: Callas, Gianni Raimondi, Simionato, Nicola Rossi-Lemeni. Pur drasticamente tagliata, ottenne un successo che fece storia. Gavazzeni la ripropose a Milano nel 1958 e a Glyndebourne nel 1965, con Leyla Gencer. Seguirono Belisario e Maria di Rohan alla Fenice (1969 e 1974), Linda di Chamounix alla Scala (1972), La fille du régiment a Firenze (1985). Un percorso ripreso negli ultimi anni con tre opere mai prima affrontate: nel 1992 Lucrezia Borgia a Palermo e Roberto Devereux a Bologna; nel 1995 Caterina Cornaro a Bergamo.
L’esordio con l’orchestra della Scala risale al 12 novembre 1943, in un concerto che, affiancando pagine del bergamasco Pietro Antonio Locatelli e dell’amico Mario Pilati all’amata Sinfonia di César Franck, è sintomatico degli interessi del musicista. La prima opera nella sala del Piermarini fu Tosca di Giacomo Puccini nel 1948. Fra la metà degli anni Cinquanta e la metà dei Settanta fu regolarmente invitato, fissando le direttrici della sua pratica direttoriale imperniata sul repertorio italiano ottocentesco (Gioachino Rossini, Donizetti, Vincenzo Bellini, Verdi), sui russi (Aleksandr Dargomyžskij e Modest Musorgskij), su Puccini e la giovane scuola (Umberto Giordano, Mascagni, Francesco Cilea, Riccardo Zandonai), senza dimenticare i lavori più recenti (Giovanna d'Arco al rogo di Arthur Honegger, regìa di Roberto Rossellini, protagonista Ingrid Bergman, 1954, già presentata al San Carlo nel 1953; La fiamma di Ottorino Respighi, 1955; La donna è mobile di Riccardo Malipiero e L’albergo dei poveri di Flavio Testi, entrambe in prima rappresentazione, 1957 e 1966; le opere di Pizzetti).
Gavazzeni aprì nove stagioni scaligere, a cominciare dal Ballo in maschera verdiano del 1957, con Callas, Giuseppe Di Stefano, Simionato, Ettore Bastianini. Su di lui puntarono Victor de Sabata, allora sovrintendente artistico, e in seguito Francesco Siciliani. Fra il 1961 e il 1966 tutte le inaugurazioni furono affidate alla sua bacchetta: La battaglia di Legnano verdiana in occasione del centenario dell’Unità d’Italia, Il trovatore di Verdi, Cavalleria rusticana insieme all’Amico Fritz di Mascagni, Turandot di Puccini, La forza del destino e poi Nabucco di Verdi. I rapporti erano talmente intensi che Gavazzeni arrivò a dirigere cinque o sei allestimenti a stagione. Diresse ancora il 7 dicembre 1970 (I vespri siciliani di Verdi) e 1972 (Un ballo in maschera), quando Paolo Grassi sostituì Antonio Ghiringhelli come sovrintendente. Fu protagonista di storiche tournées del teatro milanese: al Festival di Edimburgo con Il turco in Italia rossiniano nel 1957, a Bruxelles per l’Expo con Tosca nel 1958; fu due volte a Mosca, nel 1964 (Turandot e Il trovatore) e nel 1989 (Adriana Lecouvreur di Cilea), e due volte in Canada per le Esposizioni universali di Montréal (Nabucco e Il trovatore, 1967) e Vancouver (I lombardi alla prima crociata di Verdi, 1986).
Fu direttore artistico della Scala dal 1966 al 1968. In questi anni programmò lavori degli amici Gian Francesco Malipiero, Petrassi e Dallapiccola, puntò su Donizetti (l’inaugurazione del 1967 con Lucia di Lammermoor affidata a Claudio Abbado), organizzò le manifestazioni per i centenari di Claudio Monteverdi e di Rossini. Nell’autunno 1968 vennero contestati i vertici del teatro: il sovrintendente Ghiringhelli, il segretario Luigi Oldani e figure vicine a Gavazzeni quali il maestro del coro Roberto Benaglio e il direttore di produzione (ruolo voluto da Gavazzeni) Bindo Missiroli. Il dissenso raggiunse il culmine il 7 dicembre, quando si dava il Don Carlo di Verdi e il pubblico fu fatto oggetto di lanci di uova fuori dal teatro (fu uno dei simboli del Sessantotto italiano). Gavazzeni non era più direttore artistico dal 1° settembre, essendogli subentrato Luciano Chailly, ma era parte di quelle «teste bianche» che rappresentavano l’istituzione. Ricordando quella stagione Gavazzeni difese l’èra Ghiringhelli, durante la quale era stato proposto ciò che «di più valido e significativo» vi era «in fatto di esecuzione e di spettacolo» (La bacchetta spezzata, 1987, p. 219): presa di posizione che sintetizza l’immagine di un protagonista di quella fase storica tutt’altro che reazionario – termine in bocca ai detrattori e uscito dalla penna dei sodali, fra i quali Mila –, votato invece a lavorare con dedizione per ridisegnare il panorama operistico italiano.
I rapporti con la Scala ripresero intensi dal Trittico pucciniano del 1983 allo Stiffelio verdiano del 1995. Storica la prima recita dei Lombardi alla prima crociata del 1984, in cui concesse il bis del coro O Signore, dal tetto natio, scostandosi dalla consuetudine di evitare ripetizioni. Fra opera e balletto le apparizioni di Gavazzeni alla Scala sfiorano le 700 recite.
L’attività direttoriale di Gavazzeni fu essenzialmente italiana. Tenne saldi rapporti con La Fenice, l’Opera di Roma, il San Carlo, il Maggio Musicale Fiorentino, il Massimo di Palermo, essendo del pari attivo in teatri di centri minori, ma con allestimenti di primo piano, quali Catania e Livorno, per la fede mascagnana. Inaugurò inoltre il primo Rossini Opera Festival a Pesaro nel 1980 con La gazza ladra. Sporadica la presenza all’estero, benché segnata da alcune fra le più importanti istituzioni, in particolare il Liceu di Barcellona (1948, 1952), la Monnaie di Bruxelles (1951, 1952), l’Opera di Chicago (1957, 1959, 1960), la Wiener Staatsoper (1958, 1976, 1977), il Grand Théâtre di Ginevra (1970, 1971, 1982, 1984), il Colón di Buenos Aires (1971), il Metropolitan di New York (Il trovatore con Luciano Pavarotti, Scotto, Shirley Verrett, 1976), l’Opera House di San Francisco (1977). Nel 1961 diresse Simon Boccanegra al Festival di Salisburgo.
Pur non considerandosi un direttore votato ai recuperi, si concentrò su titoli dimenticati, non solo donizettiani. Oltre alla Battaglia verdiana del 1961, propose Jérusalem alla Fenice e I masnadieri al Maggio Musicale nel 1963. Già nel 1950 aveva riportato in auge Il turco in Italia, all’Eliseo di Roma, con Maria Callas, nell’ambito della stagione organizzata dall’associazione Amfiparnaso, voluta da artisti e intellettuali quali Luchino Visconti, Vitaliano Brancati, Mario Soldati, Petrassi, Guido M. Gatti, Guttuso. L’opera riprese a circolare, e Gavazzeni la diresse a Palermo (1954), alla Scala (1955, 1958) e in trasferta a Edimburgo. Sempre alla Scala propose Giulio Cesare di Georg Friedrich Händel (1956; già a Roma nel 1955), Gli Ugonotti di Giacomo Meyerbeer (1962, con Joan Sutherland, Simionato, Franco Corelli, Nicolaj Ghiaurov) e Alceste di Christoph Gluck (1972), mentre a Trieste nel 1975 fu la volta della Falena di Antonio Smareglia. In questo contesto si segnala l’interesse per Luigi Cherubini (Le due giornate al San Carlo nel 1951, Anacréon alla Scala nel 1983, varie messe) e per Gaspare Spontini (Olimpie e La vestale a Perugia nel 1979 e nel 1982).
L’ultima fase della carriera testimonia la curiosità del musicista che esplora partiture mai affrontate (nonché fuori repertorio), come Esclarmonde di Jules Massenet e Zazà di Ruggero Leoncavallo a Palermo (1993), o La reginetta delle rose di Leoncavallo a Genova (1994), ma preserva la devozione per i titoli di una vita, come Loreley di Alfredo Catalani (Genova 1992). Sua partner di questi anni fu la cantante Denia Mazzola, sposata in seconde nozze nel 1991 dopo ch’egli era rimasto vedovo nel 1990. L’ultima apparizione fu a Lugo di Romagna nel 1996, con L’aviatore Dro di Francesco Balilla Petrella (regìa di Bussotti). Si dedicò intensamente al prediletto repertorio sinfonico-vocale, sia in veste di direttore musicale dell’Orchestra sinfonica dell’Emilia Romagna ‘Arturo Toscanini’, incarico mantenuto dal 1992 alla morte (Poème de l’amour et de la mer di Ernest Chausson; Requiem di Donizetti; Les nuits d’été di Hector Berlioz), sia con altre compagini: Maggio Musicale Fiorentino (Paulus ed Elias di Felix Mendelssohn, Messa in Fa minore di Anton Bruckner), Arena di Verona (Ein deutsches Requiem di Johannes Brahms), San Carlo di Napoli (La canzone dei ricordi di Giuseppe Martucci), RAI di Torino (Les Béatitudes di Franck) e beninteso i complessi scaligeri (Messa di Chimay di Cherubini, Paulus e Sinfonia Lobgesang di Mendelssohn).
Morì a Bergamo il 5 febbraio 1996. La Scala gli rese omaggio con l’esecuzione a sala vuota della ‘Marcia funebre’ dall’Eroica di Beethoven, tributo già riservato a Toscanini e De Sabata.
Oltre che nelle collezioni private della famiglia, documenti, partiture e lettere sono conservati in numerosi archivi pubblici, fra cui: Bergamo, Biblioteca Donizetti, Biblioteca civica A. Mai, Archivio comunale; Bologna, Biblioteca dell’Archiginnasio; Firenze, Gabinetto Vieusseux; Latina, Istituto di studi musicali Goffredo Petrassi; Milano, Archivio del teatro alla Scala, Archivio storico Ricordi; Parma, Biblioteca Palatina; Venezia, Fondazione Cini.
Gavazzeni, musicista-scrittore, si occupò della relazione fra parola e suono, al centro di un libro, titolato appunto Parole e suoni (Milano 1946), così come di questioni estetico-poetiche: La casa perduta: saggio di prose lombarde, Bergamo 1988. Il valore essenziale del lascito letterario consiste probabilmente nella diretta testimonianza della vita culturale e musicale italiana lungo quasi un secolo: Viaggio in paesi musicali, Firenze 1939; Le feste musicali, Milano 1944; Il suono è stanco: saggi e divertimenti, Bergamo 1950; Quaderno del musicista, Bergamo 1952 (rist. Pordenone 1988); La morte dell’opera, Milano 1954; La casa di Arlecchino, Milano 1957; Trent’anni di musica, Milano 1958; Diario d’Edimburgo e d’America, con alcune aggiunte, Milano 1960; Le campane di Bergamo, Milano 1963; Carta da musica, Milano 1968; Non eseguire Beethoven ed altri scritti, Milano 1974; La bacchetta spezzata, Pisa 1987; Il sipario rosso: diario 1950-1976, a cura di M. Ricordi, Torino 1992; Scena e retroscena: una testimonianza, Milano 1994. In queste raccolte compaiono inoltre riflessioni su compositori ai quali dedicò anche pubblicazioni apposite: Donizetti: vita e musiche,Milano 1937; Gaetano Donizetti, Torino 1938; Tre studi su Pizzetti, Como 1937; Musorgskij e la musica russa dell’800, Firenze 1943; Il ‘Siegfried’ di Riccardo Wagner, Firenze 1944; Ildebrando Pizzetti, ‘L’oro’: guida dell’opera con due saggi critici, Milano 1946; Musicisti d’Europa: studi sui contemporanei, Milano 1954; La musica e il teatro, Pisa 1954; Altri studi pizzettiani, Bergamo 1956; Problemi di tradizione dinamico-fraseologica e critica testuale in Verdi e Puccini, Milano 1961; I nemici della musica, Milano 1965.
M. Mila, G. critico e scrittore, in La rassegna musicale, XXIV (1954), pp. 328-333; F. d’Amico, G. saggista, in I casi della musica, Milano 1962, pp. 42-46; Musica maestri! Il direttore d’orchestra tra mito e mestiere, a cura di F. Rosti, Milano 1985, pp. 115-124; E. Comuzio, Il teatro Donizetti, Bergamo 1990, ad ind.; G. G. testimone del tempo, a cura di E. Comuzio e A. Moretti, Bergamo 1994; P. Cattaneo, G. G. musicista, in Atti dell’Ateneo di scienze, lettere ed arti di Bergamo, 59 (1995-1996), pp. 443-447; N. Castiglioni, La musica di G., in Gli anniversari musicali del 1997, a cura di P. Pedarra e P. Santi, Milano 1997, pp. 543-547; M. Pieri, La giornata del musicista. Ricordo di G. G., ibid., pp. 521-542; H. Sachs, Musica e regime. Compositori, cantanti, direttori d’orchestra e la politica culturale fascista, Milano 1997, pp. 206-216; F. Cella, ‘Il furioso nell’isola di San Domingo’ di G. G., in Stagione lirica autunnale 1998, Bergamo 1998, pp. 341-351; V. Ottolenghi, ‘Il furioso’ danzante, ibid., pp. 333-339; G. G. Musica come vita, a cura di L. Alberti e G. Gavazzeni, Bergamo 1999; F. Nicolodi, G. G. e la musica del suo tempo, in Nuova rivista musicale italiana, XXXIV (2000), pp. 379-390; M. Pobbe, Incontri con i maestri, Vicenza 2000, pp. 15-30; G. G. alla Scala, Milano 2001; M. Vallora, G. G. ‘Anna Bolena’ di Gaetano Donizetti, Milano 2003; M. Forlani, I luoghi di G. G. tra musica e parola, Bergamo 2006; L. Esposito Pilati, Un maestro fraterno. Le lettere a G. G., in Mario Pilati e la musica del Novecento a Napoli fra le due guerre, a cura di R. Di Benedetto, Napoli 2007, pp. 309-365; Ildebrando Pizzetti e G. G. alla Scala, Milano 2009; M. Eynard, P. Palermo, La biblioteca musicale di G. G. donata alla Civica Biblioteca Angelo Mai di Bergamo, in Quaderni di Archivio bergamasco, 4 (2010), pp. 141-156; S. Zighe Taglialatela, Il carteggio G.-Pizzetti (1934-1967), diss., Università di Bologna, a.a. 2010-2011;M. Forlani, L’amicizia letteraria tra G. G. e Luciano Anceschi, in Bergomum, CVI (2011-2012), pp. 107-131; M. Eynard - P. Palermo, G. G. un protagonista della musica del ’900 e il suo rapporto con il documento sonoro, in Censimento delle raccolte e degli archivi audiovisivi della provincia di Bergamo, a cura di J. Schiavini Trezzi, Bergamo 2012, pp. 59-68; G. Barigazzi, La Scala racconta, Milano 2014, ad ind.; P. Palermo, Le carte dell’archivio dal 1936 al 1950 e il carteggio Missiroli-G., in Quaderni di Archivio bergamasco, 8-9 (2014-2015), pp. 145-157; Gli anni di G., a cura di L. Aragona e F. Fornoni, Bergamo 2016; F. Nicolodi, G. G. recensore e saggista, in Novecento in musica, Milano 2018, pp. 159-174; M. Capra, La casa di Arlecchino. Ancora su G. critico musicale, in Viaggi italo-francesi. Scritti ‘musicali’ per Adriana Guarnieri, a cura di M. Bottaro e F. Cesari, Lucca 2020, pp. 423-432; M. Eynard, Suggestioni sonore e visive nei viaggi di G. G., direttore d’orchestra, in Bergamaschi in viaggio tra Cinquecento e Novecento, a cura di M. Rabaglio e G. Bonetti, Bergamo 2020, pp. 401-420; O. Jesurum, La riscoperta del ‘Turco in Italia’. Dal teatro Eliseo al teatro alla Scala, in Rossini after Rossini: musical and social legacy, a cura di A. Jacobshagen, Turnhout 2020, pp. 351-358.