DE CARLO, Giancarlo
De Carlo, Giancarlo (Vincenzo Salvatore)
Unico figlio di Carlo, ingegnere navale nato a Tunisi da genitori siciliani, e di Doralice (Dora) Migliar, nata a Concepción in Cile ma di origini piemontesi, nacque a Genova il 12 dicembre del 1919.
In seguito alla separazione dei genitori, il piccolo Giancarlo rimase affidato al padre che, impossibilitato per motivi di lavoro a seguirlo adeguatamente, nel 1927 lo affidò a sua volta ai propri genitori a Tunisi. Visse con i nonni paterni per l'intero arco degli studi inferiori, culminati nella maturità scientifica conseguita nel giugno del 1937, mantenendo la residenza a Tunisi anche in seguito, quando rientrò in Italia per raggiungere l'Accademia navale di Livorno.
Gli anni Quaranta per De Carlo coincisero con il periodo della formazione. Nella congiuntura drammatica della prima metà del decennio, tale percorso tuttavia non si ridusse al solo curriculum scolastico, fondendosi invece inestricabilmente con le vicende della guerra, l'esperienza della Resistenza e l'impegno politico nel periodo della ripresa postbellica; tutto ciò sullo sfondo del legame con alcuni circuiti intellettuali attivi sulla scena culturale milanese di quegli anni.
Nell'ottobre del 1937 il giovane De Carlo iniziò il 1° corso allievi ufficiali di genio navale, ma gli furono sufficienti pochi mesi per capire che la sua strada era altrove, e già nell'aprile del 1938 si trasferì presso la facoltà di ingegneria industriale del Politecnico di Milano, sottosezione meccanica. Frequentando il Politecnico De Carlo subì la fatale infatuazione per 'la disciplina della porta accanto', per così dire: «Mi piaceva l'atmosfera che c'era là dentro e così ho cominciato prima a guardare quello che gli studenti di architettura facevano e poi a seguire alcuni dei loro corsi come auditore. […] Li osservavo mentre disegnavano o discutevano e mi piaceva molto quel loro modo di lavorare» (cit. in Bunčuga, 2000, p. 34). Nonostante ciò, portò a termine il corso di studi avviato e il 10 luglio 1942 sostenne l'esame finale di laurea (discutendo una tesi su una fabbrica di aeroplani da caccia). Perso lo status di studente laureando, dovette rispondere alla chiamata alle armi: dopo un primo addestramento a Livorno, fu inviato in Grecia con le truppe di occupazione italiana, imbarcato con mansioni tecniche su una nave appoggio alle operazioni. Trasferito in seguito all'ufficio del genio navale di Milano in attesa di un nuovo imbarco, riprese gli studi. Nel novembre dello stesso 1942 chiese di essere ammesso al quinto anno del corso di laurea in ingegneria civile, sottosezione edile, ma il 31 dicembre 1943 si ritirò per immatricolarsi al quarto anno del corso di laurea in architettura.
Nel frattempo De Carlo aveva intrapreso una terza vita, parallela alle due ufficiali (come militare e studente), quella in clandestinità nelle file della Resistenza. Rientrato dalla Grecia, aderì al Movimento di unità proletaria (MUP) di Lelio Basso, le cui riunioni erano ospitate anche nello studio degli architetti Franco Albini, Giancarlo Palanti e Renato Càmus. Strinse amicizia in maniera particolare con Giuseppe Pagano, con il quale contribuì all'organizzazione delle brigate Matteotti a Milano. Non v'è dubbio che tali incontri giocarono un ruolo decisivo nel canalizzare i suoi interessi verso l'architettura; nel merito è altrettanto certo che proprio a questi incontri (con Pagano e con Albini) egli dovette il suo fondamentale orientamento nei confronti della cultura architettonica del Movimento moderno. Lontano dalle aule dell'accademia, studiò tra un'azione partigiana e l'altra e imparò tutto quello che gli serviva dai suoi autorevoli maestri, assorbendone avidamente i discorsi e seguendone scrupolosamente suggerimenti di studio e indicazioni di lettura. Quella della guerra fu quindi, per De Carlo, una stagione di straordinaria fertilità: la ricorderà in seguito come un periodo avventuroso ed entusiasmante, molto pericoloso ma pieno di passione e impegno. Fu anche l'epoca dell'incontro con Giuliana Baracco, sua compagna di vita dalla quale ebbe due figli, Andrea e Anna.
Ancora prima della Liberazione, nel marzo del 1945, De Carlo sostenne l'esame di abilitazione all'esercizio della professione di ingegnere. I suoi interessi, tuttavia, erano già altrove: nello stesso anno, mettendo a frutto gli studi compiuti in clandestinità, curò per l'editore milanese Rosa e Ballo un'antologia critica di scritti di Le Corbusier. La sua compagna, Giuliana, era nel contempo impegnata, per lo stesso editore, nella traduzione italiana del classico lavoro di Nikolaus Pevsner, Pioneers of modern design from William Morris to Walter Gropius (I pionieri dell'architettura moderna. Da William Morris a Walter Gropius, Milano 1945). Fu una circostanza certamente preziosa, come anche una seconda traduzione, sempre per Rosa e Ballo, affidata a Giuliana, quella di Modern architecture (Architettura e democrazia, Milano 1945) di Frank Lloyd Wright; ne sono prova i due contributi – uno su Wright e uno su Morris – che il giovane ingegnere De Carlo ebbe modo di pubblicare nel 1946 sulle pagine di Domus, allora diretta da Ernesto Nathan Rogers.
L'esordio di De Carlo nel mondo della cultura architettonica è dunque legato all'attività pubblicistica, in cui riversò i risultati del suo intenso studio critico del Movimento moderno, del quale tenne come riferimento per tutta la vita soprattutto l'impegno etico, ben più degli stilemi formali cui non fu mai davvero interessato.
Tra il 1947 e il 1949, interrotti gli studi alla Scuola di architettura (anche per esigenze economiche), svolse nello studio di Franco Albini la sua ‘formazione a bottega’. Cimentandosi con la progettazione sia architettonica sia urbanistica, imparò il mestiere a fianco di uno fra i maggiori architetti italiani del tempo. Nella seconda metà del 1948 iniziò però a delinearsi, nel dibattito sulle politiche della casa nel contesto della ricostruzione e della ripresa economica nazionale, la possibilità di una concreta occasione di avvio dell’attività in proprio per tanti architetti: De Carlo doveva solo farsi trovare pronto. Nell’ottobre del 1948, così, inoltrò al Politecnico di Milano domanda di trasferimento dei suoi studi all’Istituto universitario di architettura di Venezia (IUAV) dove, al termine di un intensivo percorso di esami (svolto nei mesi successivi insieme a Ignazio Gardella, probabilmente predisposto in accordo con Giuseppe Samonà che dirigeva la scuola), conseguì la laurea in architettura il 1° agosto dell’anno successivo (1949) terminando così anche formalmente il suo percorso di formazione.
La ricostruzione della formazione di De Carlo non sarebbe però ancora completa se non si citassero, almeno brevemente, altri incontri fondamentali. Bisogna tornare agli anni della Resistenza e ricordare, in quel contesto, la conoscenza e la frequentazione di Carlo Doglio. Fu per merito di questi che conobbe il pensiero di Lewis Mumford (di cui Doglio promosse la traduzione di The culture of cities, La cultura delle città) e venne introdotto al pensiero anarchico, con particolare riferimento a Pëtr Kropotkin che, come ebbe a dire De Carlo stesso, «è poi diventato uno dei punti di riferimento tra i più solidi della mia ricerca urbanistica e architettonica» (A Carrara senza i CC, in A-Rivista anarchica, XXVIII (1998), 243, p. 37). Con Doglio e altre figure dell'ambiente anarchico-libertario milanese, partecipò a Carrara al I Convegno nazionale della Federazione anarchica italiana (15-19 settembre 1945) e poi all'incontro di Canosa di Puglia (22-23 febbraio 1948).
A Canosa De Carlo presentò una relazione su Il problema della casa indicandone la soluzione nella dimensione urbana («Il male della casa coincide […] col male della città», in Volontà, II (1948), n. 10-11, p. 47) e impostando un'idea di pianificazione urbanistica che segnò tutta la sua futura carriera. «Il piano urbanistico – disse – [… concepito] come manifestazione di collaborazione collettiva, diventa lo sforzo di individuare le vere esigenze degli uomini e liberarle dagli ostacoli che si oppongono alla loro soluzione; il tentativo di riportare a un rapporto armonico i fatti naturali, economici, tecnici e i fatti umani. Non è più una pura questione di traffico o di mezzi di trasporto o di estetica edilizia, diventa un processo di chiarificazione dei problemi della regione, della città e della casa, continuamente riferiti al principio umano e alla sua espressione sociale» (pp. 47 s.). Proseguiva quindi preconizzando un «atteggiamento di partecipazione» – opposto a un «atteggiamento di ostilità» – che gli uomini assumeranno di fronte a questo tipo di pianificazione urbanistica, in cui «il piano è un'opportunità di svuotare i modi di vita attuali attraverso il mutamento delle rappresentazioni: bisogna prima cambiare i modi di vita, le rappresentazioni muteranno di conseguenza» (p. 48). In questa prospettiva, il piano urbanistico diventava un atto rivoluzionario, «se si riesce a sottrarlo al cieco monopolio dell'autorità e a trasferirlo a una collettività mobilitata alla ricerca e all'affermazione delle sue vere esigenze» (ibid.).
A Canosa De Carlo e Doglio (e gli altri giovani milanesi) trovarono in Cesare Zaccaria un personaggio di riferimento per l'evoluzione del loro pensiero politico; De Carlo probabilmente ne condivise anche l'importante svolta del 1958 quando, in una lettera inviata alla rivista Volontà (significativamente conservata tra le minute di De Carlo), questi dichiarava finita la sua militanza anarchica «nel chiuso d’uno od altro club», o piuttosto lo spostamento di tale militanza nel campo professionale «nell’aperto dei molteplici contatti di cui si anima, alla mia stessa statura, la mia vita quotidiana» (Venezia, Archivio Progetti Iuav, De Carlo-atti/009).
Almeno un accenno merita infine il gruppo degli 'amici di Bocca di Magra': Vittorio Sereni, Giovanni Pintori, Giulio Einaudi, Marguerite Duras, Franco Fortini, Albe e Lica Steiner, Elio Vittorini, Italo Calvino, solo per fare alcuni nomi. Si trattava di una cerchia di giovani intellettuali di estrazione diversa, molti di loro attivi nel mondo letterario, con alcuni dei quali De Carlo e la compagna Giuliana (al tempo vicini di casa di Vittorini) avevano già condiviso gli anni della Resistenza. Con i primi anni Cinquanta, nella stagione forse più felice e spensierata della loro vita, con quella compagnia venne invece l'epoca della condivisione delle vacanze estive – alla foce del Magra, sulla riviera ligure –, periodi di svago poi sempre ricordati da De Carlo per le situazioni allegre e giocose di cui erano teatro ma anche per le stimolanti occasioni di confronto tra personalità attive in campi diversi.
Come previsto, mentre De Carlo si affrettava a laurearsi allo IUAV, si concretizzarono le condizioni favorevoli per l'avvio dell'attività in proprio che si erano venute prefigurando nel dibattito politico del 1948. Il 28 febbraio 1949 veniva varata la legge n. 43, recante Provvedimenti per incrementare l'occupazione operaia, agevolando la costruzione di case per lavoratori, più nota come Piano Fanfani (dal nome del ministro promotore) o anche Piano INA Casa (dal meccanismo di finanziamento). Come ebbe a dire lo storico Paolo Nicoloso, nata per essere 'volano' del rilancio economico e occupazionale nel settore edilizio, «la legge Fanfani sull'occupazione operaia si è rivelata in realtà un dispositivo molto efficace per dare lavoro agli architetti» (Gli architetti. Il rilancio di una professione, in La grande ricostruzione. Il Piano INA-Casa e l'Italia degli anni Cinquanta, a cura di P. Di Biagi, Roma 2001, p. 96). Il caso di De Carlo in questo senso è paradigmatico. Undici dei primi quindici progetti disegnati da De Carlo all'inizio della sua attività, tra il 1950 e il 1953, furono per l'INA Casa; complessivamente, tra il 1950 e il 1959, progettò sedici insediamenti di alloggi INA Casa, per lo più piccoli nuclei di abitazioni in paesi di provincia (Samassa, 2001). Realizzò anche due interventi a Milano, importanti nella sua crescita professionale, a Sesto San Giovanni (1950-52) e in via Feltre (1958-59). In via Feltre, in particolare, partecipò in qualità di capogruppo di uno dei nuclei di progettisti sotto la direzione generale di Gino Pollini alla progettazione collettiva di un grande quartiere modellato vagamente sulle teorie urbanistiche di Le Corbusier. Si trattò di un'esperienza importante che, tuttavia, non mancò di criticare: «Quando sarà stata scritta la storia di questa progettazione – annotò nell'album dei disegni – si può essere certi che essa sarà esemplare della grande confusione di idee che ha dominato gli Enti pubblici, gli imprenditori e i progettisti italiani negli anni intorno al '60» (Samassa, 2001, p. 302).
Ben più traumatica e foriera di importanti sviluppi fu la precedente esperienza a Sesto San Giovanni, un complesso di case a schiera e una casa in linea di cinque piani: il giovane De Carlo si misurò per la prima volta, concretamente e forse nel modo più ortodosso, con la tradizione del Movimento moderno internazionale; con conseguenze impreviste.
Ne parlò lui stesso retrospettivamente, sulle pagine di Casabella-continuità, presentando nel 1954 (n. 201) la realizzazione successiva di Baveno (sempre INA Casa, 1951-52) ed è il racconto di una frustrante delusione: «Ho passato qualche ora di domenica, in primavera, ad osservare da un caffè di fronte [alla casa in linea] il moto degli abitanti della mia casa; ho subito la violenza che mettevano nell'aggredirla per farla diventare loro casa; ho verificato l'inesattezza dei miei calcoli» (Case d'abitazione a Baveno, p. 29). Con grande stupore, constatò in quell'occasione che gli abitanti dell'edificio interpretavano (usavano) gli spazi da lui progettati in modo del tutto imprevisto e, soprattutto, eversivo rispetto ai dettami del funzionalismo razionale sulla cui base erano stati concepiti: «le logge [pensate per il soggiorno delle famiglie] erano colme di panni stesi e la gente era a nord, tutta sui ballatoi [progettati come spazi di mero accesso]. Davanti a ogni porta, con sedie a sdraio e sgabelli, per partecipare da attori e spettatori al teatro di loro stessi e della strada» (ibid.). Ciò che lo colpì, soprattutto, fu la ricerca espressa dagli abitanti di luoghi 'collettivi', spazi di socializzazione – di 'comunicazione', in buona sostanza – reperiti forzando le previsioni d'uso dell'architetto. Constatò allora, probabilmente con un certo sgomento, di aver autoritariamente imposto rappresentazioni false dei bisogni abitativi a utenti che esprimevano, con le loro inconsapevoli infrazioni, le loro reali esigenze di vita. Nelle case di Baveno cercò subito di far tesoro di questa lezione attraverso una maggiore articolazione delle volumetrie edilizie, suggerendo (senza propriamente ordinare e disporre) spazi aperti collettivi (quasi dei cortili), entro i quali far giocare un ruolo importante alle scale e ai raccordi distributivi che – ora lo sapeva – sarebbero stati 'abitati' più stabilmente di quanto previsto nel ragionamento funzionalista.
Iniziò così ad accettare l'idea che gli abitanti partecipano inevitabilmente (lo voglia o no l'architetto) alla definizione spaziale dell'architettura con l'uso che ne fanno, ed essendo questa partecipazione del tutto legittima, poiché corrisponde a un moto di appropriazione antropologica che rende viva un'architettura, tanto vale, in definitiva, cercare di coinvolgere gli utenti finali fin da subito, fin dalla fase progettuale, mettendo in secondo piano il principio di autorità tecnica dell'architetto. De Carlo avrebbe sviluppato e approfondito questa idea negli anni, mettendo a fuoco procedure e strategie per una 'progettazione partecipata' – di cui fu il teorico più importante in Italia – e arrivando a coniare lo slogan secondo cui «l'architettura è troppo importante per essere lasciata agli architetti».
Fin dalle prime esperienze professionali, dunque, De Carlo sentì la necessità di ridefinire l'idea di architettura e il ruolo professionale dell'architetto in senso 'civico': progettare non 'per' gli abitanti, ma 'con' gli abitanti. Si profilò così, grazie a lui, la definizione di una particolare connotazione 'politica' dell'architettura, alternativa a quella artistica, 'estetizzante' o tecnico-scientifica.
In qualità di curatore della Mostra dell'urbanistica alla X Triennale di Milano (1954), egli mise alla berlina queste diverse denotazioni dell'architettura in uno dei tre cortometraggi proiettati nelle sale dell'esposizione, intitolato Una lezione d'urbanistica. In una parodia tragicomica, venivano stigmatizzati gli interventi sulla città di tre goffi e boriosi personaggi – l'artista, l'ingegnere e l'urbanista-scienziato – denunciando i limiti del loro approccio settoriale, insufficiente e autoritario. Nella scena conclusiva, mentre un uomo, risvegliatosi su un prato di periferia, correva incontro alla città in costruzione, una voce fuori campo recitava: «Va nella tua città, uomo, e collabora con chi vuol renderla più umana, più simile a te!».
Dopo la stagione dell'INA Casa, la circostanza che diede definitiva affermazione all'attività professionale di De Carlo fu favorita da Elio Vittorini che, nei primi anni Cinquanta, segnalò a Carlo Bo, rettore della libera Università di Urbino, il nome dell'amico Giancarlo quale giovane professionista adatto ad affiancarne i progetti di ristrutturazione dell'Ateneo nel contesto cittadino. L'incontro tra Bo e De Carlo fu l'occasione di una immediata intesa intellettuale, che non tardò ad acquisire la natura di una solida e profonda amicizia. I primi esiti furono un incarico per la ristrutturazione della sede dell'Università (1952) e la realizzazione di un gruppo di case per i dipendenti (all'Annunziata, 1954). Iniziò così il rapporto di De Carlo con Urbino, durato tutta una vita.
In una piccola realtà di provincia quale quella urbinate degli anni Cinquanta-Sessanta, non faticò a inserirsi nel tessuto sociale, intellettuale e politico, divenendone una figura di riferimento. Verso la fine degli anni Cinquanta, strinse un battagliero sodalizio con il sindaco della città, Egidio Mascioli, e con Livio Sichirollo (filosofo, docente nella locale Università, nonché assessore all'urbanistica della giunta municipale), per arrivare alla redazione del primo Piano regolatore generale (PRG) di Urbino (1958-64).
Il piano, che faceva perno sul recupero del centro storico – allora pesantemente degradato – e sullo sviluppo della vocazione universitaria della città, ottenne ampi riconoscimenti, anche a livello internazionale. Nel 1967 conseguì il premio Patrick Abercrombie dell'Unione internazionale degli architetti; nel 1970 fu pubblicato negli Stati Uniti (per MIT Press), dove la cultura dell'advocacy planning costituiva un habitat ideale per la 'progettazione partecipata' di De Carlo. Dal 1966 in poi, infatti, questi fu invitato spesso per conferenze, incontri e lezioni in varie università americane (Lyndon, 2004). Altre occasioni professionali a Urbino si accumularono in quegli anni attorno a questi primi impegni: casa Sichirollo al Cavallino (dal 1967), il progetto planivolumetrico del complesso residenziale della Pineta (dal 1967), il Parco delle Vigne (1969), l'autorimessa al Mercatale (dal 1969), la sistemazione dell'Orto dell'Abbondanza (dal 1969), la ristrutturazione del teatro Sanzio (dal 1969), la nuova sede dell'Istituto statale d'arte (1970-74), la stazione delle autocorriere al Mercatale (1972), il sistema Colle dei Cappuccini-Mercatale-Parco della Resistenza (1979-82). Riprese anche la collaborazione con Carlo Bo. Per l'Università realizzò il primo lotto dei collegi universitari: il collegio Il Colle (1962-68) – una delle sue opere più celebri – cui fecero seguito Il Tridente, Le Serpentine, L'Aquilone e La Vela, gli altri lotti del vasto complesso residenziale studentesco (realizzati tra il 1973 e il 1983). In palazzi del centro storico recuperati come sedi universitarie progettò la facoltà di economia e commercio (1963), cui seguirono giurisprudenza (1966-69) e magistero (1968-76). Altre sedi oggetto di intervento furono palazzo Passionei (dal 1977, destinato a ospitare l'imponente biblioteca di Carlo Bo) e palazzo Battiferri (dal 1977; la datazione dei progetti, qui e altrove, tiene conto, oltre che della realizzazione, anche della fase di progettazione).
L'attività professionale di De Carlo si estese ben presto fuori dall'ambiente urbinate in un Paese, giovi ricordarlo, che stava vivendo allora un boom economico ed edilizio senza precedenti.
Nei primi anni Sessanta venne chiamato a collaborare alla stesura del Piano intercomunale milanese (1961-65). A Rimini, gli venne affidato l'incarico per la redazione del Piano particolareggiato del centro storico e del centro direzionale (1966) in cui ebbe modo di sperimentare, forse nel modo più compiuto, l'approccio partecipativo alla scala della progettazione urbana. A Pavia progettò un ambizioso piano complessivo di riorganizzazione della locale Università che, se pur non realizzato in quanto tale, ebbe comunque diversi anni dopo (1988-92) una ricaduta nella realizzazione di diverse facoltà, dipartimenti, laboratori e altre strutture edilizie del Polo universitario del Cravino.
Sono poi da ricordare due importanti progetti di edilizia residenziale: il quartiere Matteotti di Terni (1970-75), progettato per gli operai delle locali acciaierie, e il quartiere di case IACP nell'isola di Mazzorbo, nella laguna di Venezia (1980-97). Entrambi realizzati solo in parte, e dopo vicissitudini lunghe e tormentate, furono comunque due momenti importanti della maturazione teorica della progettazione partecipata, nel passaggio cioè dalla 'partecipazione diretta' (come a Terni dove l'interazione dell'architetto con i futuri utenti, gli operai delle acciaierie, era immediata) alla 'partecipazione indiretta', tipica delle situazioni in cui il progetto doveva essere portato avanti senza la possibilità di una interazione diretta con utenti ignoti (come nel caso dell'edilizia popolare di Mazzorbo), dunque nella necessità di mettere a punto altri efficaci strumenti di lettura del contesto.
Una volta laureato, De Carlo si impegnò da subito anche nell'insegnamento. Iniziò a Venezia, dove Giuseppe Samonà stava costruendo una scuola destinata a un grande prestigio, coinvolgendo diverse figure già affermate ma anche tanti giovani promettenti. Dopo qualche anno di assistentato volontario, a partire dall'a.a. 1955-56 venne chiamato a ricoprire l'insegnamento, prima, di caratteri distributivi degli edifici (1955-60), poi di elementi di architettura e rilievo dei monumenti (1959-64). Pur avendo ottenuto nel 1956 la libera docenza in composizione architettonica, la sua carriera accademica si indirizzò verso la pianificazione territoriale (sono del resto gli anni del PRG di Urbino). Nell'anno accademico 1963-64 chiese di poter ricoprire, a titolo gratuito, l'insegnamento di pianificazione territoriale urbanistica; dall'anno successivo ne divenne stabilmente titolare fino al 1969 quando, infine, divenne professore straordinario di urbanistica.
Iniziò allora a tenere corsi incentrati sull'urbanistica della partecipazione in cui, come annotò Carlo Scarpa nel 1972 in una relazione stilata per il passaggio di De Carlo al ruolo di professore ordinario, «[…] si proponeva di analizzare criticamente le concezioni, i metodi e gli strumenti che hanno informato fino ad oggi l'attività urbanistica, per porre le basi – anche a livello di progettazione – di una nuova procedura urbanistica alternativa, fondata sul principio di organizzare lo spazio fisico col concorso diretto dei gruppi sociali che lo utilizzano» (Venezia, ASIuav [Archivio storico IUAV], Docenti cessati 2, b. 48).
De Carlo raggiunse il culmine della carriera accademica proprio negli anni in cui perse la battaglia cruciale che lo vide, con Carlo Doglio (all'epoca professore aggregato all'IUAV), contrapposto a Giovanni Astengo. Da tempo sostenitore di una precisa autonomia disciplinare dell'urbanistica, Astengo si batteva affinché tale specificità trovasse un pieno riconoscimento nell'istituzione a Venezia di un corso di laurea separato da quello in architettura. La discussione fu accesa, ma Astengo la spuntò e divenne il primo presidente del nuovo corso di laurea in urbanistica, inaugurato nel febbraio del 1972. Per De Carlo e per il suo modo di intendere architettura e urbanistica come discipline intrise l'una dell'altra, si trattò di un'amara sconfitta.
Gli anni Settanta, peraltro, sono segnati dall'imporsi all'IUAV di una visione dell'architettura che gli era del tutto estranea, quella della Tendenza. Formatasi attorno alla figura carismatica di Aldo Rossi, questa visione enfatizzava l'idea di una autonomia della forma architettonica – quasi un contraltare delle istanze di Astengo – e finiva così per riproporre, seppure in un contesto aggiornato culturalmente, la vecchia ideologia del monumentale. Queste posizioni, maturate a partire dal fortunatissimo testo di Rossi L'architettura della città (1966), non potevano essere più lontane dal modo di sentire, pensare e vivere l'architettura di De Carlo. Questi finì quindi per trovarsi progressivamente sempre più a disagio e isolato nella Scuola: tra urbanisti intenti a rivendicare la loro specificità disciplinare e a forgiare i loro 'specialistici' strumenti, e architetti concentrati sulla sola forma e impegnati a disegnare i monumenti della contemporaneità. Continuò comunque con passione il suo lavoro didattico all'IUAV fino al 1982, quando si trasferì come docente di composizione architettonica all'Università di Genova. Qui, nel 1989, terminò la sua carriera accademica al compimento dei settant'anni.
Alla metà degli anni Settanta, tuttavia, ben prima di chiudere la sua carriera di docente universitario, De Carlo reagì con grande intraprendenza all'isolamento accademico in cui si era venuto a trovare e fondò l'International Laboratory of architecture and urban design (ILAUD), attivo sotto la sua direzione dal 1976 al 2003. Nella 'sua' scuola, capace di coinvolgere, negli anni, una trentina di università internazionali (europee e nordamericane), rimane ferma «[...] l'idea che architettura e urbanistica sono parti dello stesso problema […] e che la loro interdipendenza è tale che nessuna azione può essere concepita in una delle due senza la coscienza della sua reciprocità con l'altra» (come precisato nei materiali di presentazione dell'ILAUD).
L'attività dell'ILAUD si articolava in permanent activities, che venivano svolte durante tutto l'anno dalle università partecipanti presso le loro sedi, e nel summer course, che era l'evento culminante di ogni anno: gli studenti, mescolati in gruppi internazionali di lavoro, si ritrovavano e si confrontavano tra loro e con i docenti, discutendo, disegnando e partecipando alle varie attività (conferenze, presentazioni di lavori, sopralluoghi sulle aree progettuali, visite architettoniche, ma anche spettacoli e feste). I corsi estivi dell'ILAUD, inizialmente della durata di ben due mesi (poi ridotti a uno), si tennero a Urbino, Siena, San Marino e Venezia.
Per De Carlo, in definitiva, l'insegnamento dell'architettura non fu mai un mero fatto burocratico e men che meno la ricerca di un presunto prestigio accademico al quale era il primo a non credere. Nel libro La piramide rovesciata (Bari 1968), affrontò con straordinario tempismo il tema dell'Università al tempo della contestazione studentesca. Accusando il vacuo accademismo, sorretto solamente da uno sterile principio di autorità del corpo docente sostanzialmente sordo alle urgenti tensioni emergenti nella società, stilò un giudizio durissimo sulle scuole di architettura. Nell'Italia, scossa dalle grandi trasformazioni che «venivano abbandonate alla pirateria degli speculatori privati, alla sopraffazione dei monopoli, all'insicurezza dei politici», «la scuola aveva continuato a sfornare una élite di professionisti generici destinata a risolvere il superfluo decorativo di una élite agiata: non aveva prodotto operatori per la pianificazione territoriale né tecnici dell'urbanistica né progettisti urbani né autentici designers; tanto meno aveva prodotto cultura, attraverso un esercizio continuo e sistematico di ricerca» (pp. 40 s.). Non c'è dubbio che l'ILAUD abbia cercato di essere un luogo di trasmissione del sapere completamente diverso da quello stigmatizzato nelle pagine de La piramide rovesciata.
Nel dicembre del 1953, cambiando il nome da Casabella in Casabella-continuità, Ernesto Nathan Rogers ridiede vita alla gloriosa rivista che era stata di Giuseppe Pagano e chiamò a formarne la redazione anche De Carlo, insieme con Vittorio Gregotti e Marco Zanuso. Per il giovane architetto, allora alle prime esperienze progettuali nonché assistente volontario alla Scuola di Venezia, fu certamente l'opportunità di entrare nel dibattito nazionale sull'architettura da una delle porte principali. Anche in questa occasione, non tardò a manifestare la propria forte personalità e la fermezza delle sue posizioni. Fin dal primo numero, costrinse Rogers a un corsivo d'apertura in cui prendeva le distanze dal suo articolo (cfr. Baffa, 1995, pp. 99 s.); e fu solo l'inizio. De Carlo non condivideva quella che chiamava la 'personalizzazione' impressa da Rogers alla rivista, di contro all'orientamento verso una direzione collegiale annunciato inizialmente. Nutrì però anche un crescente disagio nel merito della linea culturale attribuita da Rogers alla rivista e suggellata nel tema della 'continuità', che De Carlo attaccherà duramente nella nota – Una precisazione – con cui, nel numero 214 del 1957, rese pubblica la decisione di uscire dalla redazione: «[…] Il passato, il presente, gli insuccessi, i fallimenti, le tensioni, gli accordi, i dissensi, tutto viene ricondotto e appianato in una coesistenza storica senza contraddizioni di fondo: Wright, Corbusier, Gropius, Mies van der Rohe si identificano come i travestimenti di un unico personaggio»; una posizione che, a suo avviso, non poteva «aprire [quella] strada irta di scelte e di indispensabili chiarificazioni» necessaria per la cultura architettonica del tempo. Rogers tentò di trattenerlo almeno come membro di un eventuale comitato scientifico. De Carlo rifiutò, ma i loro reciproci rapporti personali di stima e amicizia rimasero saldi.
Negli anni successivi, dopo una lunga incubazione e forse proprio quale strumento pensato per preparare quelle 'scelte e chiarificazioni' culturali che sentiva così necessarie, De Carlo avviò una diversa iniziativa editoriale. Concepì e assunse la direzione scientifica della collana «Struttura e forma urbana» (SFU) per Il Saggiatore di Alberto Mondadori, dedicata ai temi dell'urbanistica moderna.
Alla fine del 1964, inviò a Vittorio Sereni – dal 1958 direttore editoriale alla Mondadori – un dattiloscritto con un piano per la collana di libri che «vorrebbe costituire una sistematica raccolta dei diversi contributi forniti dagli inizi del Movimento moderno architettonico ad oggi, ordinato secondo una linea critica che escluda quanto di accessorio o propagandistico è stato aggiunto dalla letteratura celebrativa e riconduca le questioni alla loro essenzialità scientifica» (Venezia, Archivio Progetti Iuav, De Carlo-atti/012). Il documento chiudeva con un elenco di una ventina di titoli e/o progetti di libri antologici, dai quali emergeva chiaramente lo sforzo di De Carlo per sprovincializzare la cultura architettonica italiana. Si trattava di autori esclusivamente stranieri, da Otto Wagner a Tony Garnier, da Bruno Taut a Ludwig Hilberseimer, da Arturo Soria y Mata a Raymond Unwin, e naturalmente Le Corbusier, Gropius, Wright, ma anche Eliel Saarinen, Clarence Stein, Frederick Gibberd, e poi Yona Friedman, Kenzo Tange, e altri ancora, molti dei quali fino ad allora mai tradotti in Italia. Tra il 1967 e il 1981 videro la luce ventiquattro titoli nella collana SFU che, per gli studiosi di urbanistica di quegli anni in Italia, rappresentò uno strumento fondamentale di apertura degli orizzonti della conoscenza disciplinare.
Di concerto con Mondadori, verso il 1970 lavorò anche alla nascita di una seconda collana, intitolata «Questioni di architettura», dove avrebbe proposto testi (quattro volumi all'anno) che reputava di grande interesse, ma che a suo giudizio non avevano una collocazione coerente nel progetto scientifico della SFU. Alcuni titoli avrebbero dovuto essere Ville et Révolution di Anatole Kopp, Changing ideals in modern architecture di Peter Collins, Complexity and contradiction in architecture di Robert Venturi, Theory and design in the first machine age di Reyner Banham, e poi testi di autori come Alison Smithson ed El Lissitzky. Questo secondo progetto editoriale arrivò alle soglie del debutto ma non vide mai la luce per il precipitare della situazione finanziaria della casa editrice.
Un'altra importante realizzazione di De Carlo fu la rivista trimestrale Spazio e società, fondata e diretta dal 1978 al 2000 (Spazio e società. Una sezione longitudinale…, 2001). Dal punto di vista dei contenuti, la rivista portò la sua attenzione sull'architettura e sul fenomeno urbano e territoriale, dando peso agli aspetti sociali e antropologici implicati nel fenomeno architettonico e urbano e allargando lo sguardo su tutto il mondo, anche alle società non occidentali. Un impegno che restò costante fu quello di non cadere, per argomenti e linguaggio, nello stretto ambito delle 'riviste di settore', sviluppando piuttosto un'idea multidisciplinare dell'architettura ('inclusiva' e non 'esclusiva', come amava ripetere) e, soprattutto, coltivando l'aspirazione a cercare di mantenere un contatto con il vasto pubblico dell'architettura, ovvero coloro che vivevano l'architettura (e non 'di' architettura).
Nel 1948 De Carlo venne ammesso nel Movimento di studi per l'architettura (MSA), associazione formatasi a Milano tra l'aprile del 1945 e l'aprile del 1946 su impulso degli architetti che animavano la scena milanese e con cui era da tempo in contatto (Franco Albini, Piero Bottoni, Lina Bo, Lodovico Belgiojoso, Ernesto Nathan Rogers, Marco Zanuso, Ignazio Gardella, Enrico Peressutti, Vittorio Gandolfi, per fare solo alcuni nomi). A sentir lui, la sua ammissione fu quasi trattata alle sue condizioni (Una scelta di campo, 1995, p. 7: cosa che non apparirà affatto strana a chiunque abbia avuto modo di conoscere la sua forte personalità). L'MSA fu a Milano un luogo aperto di elaborazione della cultura architettonica moderna internazionale, in un periodo cruciale per il Paese quale quello della ricostruzione. Tra il 1955 e il 1957 De Carlo ne divenne anche presidente, rimanendone coinvolto fino alla fine. Attraversato da divergenze e tensioni, l'MSA si spense nel Convegno di Varenna del 1960, votando all'unanimità proprio una sua mozione che proponeva un aggiornamento della riunione in una data successiva, di fatto mai convocata.
Il declino dell'esperienza con l'MSA coincise, per De Carlo, con la partecipazione al declino dei Congrès internationaux d'architecture moderne (CIAM), coincidenza del resto non casuale, trattandosi di fatto di due aspetti del più generale declino del Movimento moderno. Alla metà degli anni Cinquanta, venne invitato a entrare nel gruppo italiano dei CIAM, fondato dopo la guerra da Rogers, Belgiojoso, Albini, Pollini e altri architetti della generazione a lui precedente. Partecipò alla riunione al castello di La Sarraz, in Svizzera, tenuto in preparazione del X Congresso (Dubrovnik, 1956), cui tuttavia poi non prese parte. Assieme a Rogers, Ignazio Gardella e Vico Magistretti andò invece a Otterlo dove, dal 7 al 15 settembre 1959, si tenne l'XI Congresso, l'ultimo e l'unico cui De Carlo prese parte. La sua presenza, così come quella di tutto il gruppo nazionale, non passò certo inosservata. I progetti esposti dai membri del gruppo italiano infatti – soprattutto la Torre Velasca presentata da Rogers e l'edificio residenziale realizzato a Matera da De Carlo – suscitarono grande scandalo e vennero fatti oggetto di pesanti critiche, poiché interpretati come lavori del tutto al di fuori dal solco del Movimento moderno. Nella vicenda pesò certamente la dura polemica scatenata pochi mesi prima da Reyner Banham nel numero di aprile di The architectural review (1959, n. 747, pp. 231 ss.) in cui, con l'articolo Neoliberty. The italian retreat from modern architecture, aveva criticato anche l'orientamento assunto da Casabella-continuità di Rogers. Per De Carlo fu un'occasione per alimentare la sua ormai consolidata diffidenza nei confronti di un certo modo dogmatico di intendere il Movimento moderno e soprattutto la sua identificazione con aspetti meramente stilistico-formali (tetto piano, pilotis, finestre a nastro: ovvero l'adesione epidermica al verbo lecorbuseriano).
A Otterlo successe un'altra cosa destinata a segnare profondamente la biografia successiva di De Carlo. In quei frangenti tumultuosi si consolidò la sua vicinanza al gruppo dei giovani architetti che, nel 1955, erano stati demandati all'organizzazione del X Congresso CIAM di Dubrovnik. Del tutto informalmente, senza elenchi di aderenti, gerarchie, ruoli o organismi, senza atti costitutivi o comunicati stampa, nacque così, tra La Sarraz, Dubrovnik e poi Otterlo, il Team X (derivato dal X Congresso CIAM), di cui De Carlo fu, con Jaap Bakema, Aldo van Eyck, Georges Candilis, Shadrach Woods e Alison e Peter Smithson, fra i membri più attivi. La prima riunione del gruppo fuori dal contesto dei CIAM avvenne nel 1960; a partire da quella data, la vita di questo eccentrico sodalizio di architetti durò due decenni circa, durante i quali si tennero ben tredici meeting. De Carlo organizzò in Italia due di questi appuntamenti, a Urbino (1966) e a Spoleto (1976). Il Team X seppe aggiornare la discussione sull'architettura, sia nei contenuti sia nei modi, tenendola ancorata alle realizzazioni e alla pratica della progettazione (l'avvicinamento ai loro incontri da parte di storici o critici dell'architettura era visto con estrema diffidenza). La sua nascita dalle ceneri dei CIAM (considerati un'istituzione pesantemente gerarchica, ormai persa nella burocrazia dei suoi riti) fu anche probabilmente un segnale all'interno della cultura architettonica di un cambiamento epocale che più in generale stava maturando nelle società occidentali alla fine degli anni Cinquanta e avrebbe portato in breve agli anni della contestazione.
Altro capitolo importante dell'attivismo culturale di De Carlo fu, fino al 1968, la Triennale di Milano. Partecipò già alla VIII edizione del 1947 (con un progetto per case per reduci nel quartiere sperimentale QT8), allestì una mostra sull'architettura spontanea nell'edizione del 1951, quindi curò la Mostra dell'urbanistica per la X edizione del 1954. Fu anche membro del centro studi della Triennale e della giunta esecutiva. Tutto questo impegno culminò nell'incarico di curare la XIV edizione del 1968, per la quale scelse il tema del 'Grande Numero', ovvero la necessità di ripensare l'architettura alla luce delle trasformazioni in corso nelle società occidentali con l'avvento dei fenomeni di massa. Come scriveva ne La piramide rovesciata, è importante pervenire alla «[…] formazione di una base scientifica per l'architettura del Grande Numero», poiché «il controllo delle grandi trasformazioni dell'habitat umano e la produzione pressoché illimitata di oggetti che si collocano nell'ambiente fisico, implica l'adozione di strumenti di analisi e di intervento progettistico precisi, fondati su tecniche complesse e rigorose» (1968, p. 42).
Tuttavia, la XIV Triennale di De Carlo passerà alla storia, più che per i suoi contenuti, per la contestazione dei manifestanti che, nel giorno dell'inaugurazione, si diedero convegno all'ingresso e finirono per deciderne l'occupazione. La situazione venne sbloccata dopo qualche tempo con lo sgombero forzato degli occupanti e, previo restauro dei locali e delle opere danneggiate, l'esposizione riuscì ad aprire al pubblico. Fu un avvenimento traumatico per De Carlo che, prese le distanze dallo sgombero, si dimise dalla giunta esecutiva e chiuse definitivamente la sua collaborazione con la Triennale. Vi entrò di nuovo solo quasi trent'anni dopo, nel 1995, quando gli fu dedicata una importante mostra monografica.
La spiccata sensibilità e l'acume critico con cui De Carlo ha sempre osservato il mondo e la società non potevano non fargli avvertire il grande cambiamento intervenuto nel passaggio agli anni Ottanta. Se il tema della partecipazione aveva trovato negli anni Settanta perfino una sublimazione popolare in un celebre ritornello d'autore («libertà è partecipazione» di Giorgio Gaber, 1972), ora non era più un'istanza di primo piano per una società votata al 'disimpegno', una società celebrata come 'edonistica', in cui a una crisi radicale delle ideologie si accompagnava una crisi altrettanto radicale della militanza politica e, più in generale, dell'idea di un qualsiasi 'impegno' culturale e civile.
Altri eventi arrivarono a maturazione in quegli anni marginalizzando ulteriormente la concezione di De Carlo dell'architettura: il complice avvicendamento tra Tendenza e Postmoderno (ben simboleggiato dall'episodio della Strada Novissima allestita da Paolo Portoghesi alle Corderie dell'Arsenale di Venezia per la Biennale di architettura nel 1980) ne fu l'apoteosi. All'autonomia della forma e all'ideologia del monumento si aggiunse l'aspirazione a un recupero formalista del passato, fondamentalmente nostalgico. De Carlo si trovò così spiazzato da una società che non era più interessata a partecipare ai processi di organizzazione dello spazio fisico, e sempre più isolato in una cultura architettonica, ormai dominante, in cui non poteva assolutamente riconoscersi.
Il rifiuto del contesto culturale che si era visto crescere attorno indusse De Carlo a una svolta, un ripiegamento, lo spostamento della sua ricerca su un piano più strettamente linguistico-morfologico, come ebbe modo di definirlo lui stesso. Raccontando dei suoi progetti degli anni Ottanta e Novanta (Bunčuga, 2000, pp. 199 ss.) indicò due linee di ricerca del suo lavoro più recente, una dedicata al tema della struttura quale elemento espressivo e l'altra al tema dell'articolazione dello spazio in geometrie complesse. Alla prima, ricondusse i progetti per la Torre di Siena (1988-89, concorso per piazza Matteotti-La Lizza), le Porte di San Marino (1994-2000), la centrale tecnica dell'Università di Catania (nel contesto del recupero del Complesso dei Benedettini, 1991-2004), l'Ascensore del Palazzo degli Anziani ad Ancona (1998-2002, non realizzato); alla seconda, invece, i progetti per il Centro sportivo dell'Università di Siena (1987-2005), il Museo di Salisburgo (1989, concorso), la piazza della Mostra a Trento (1990, non realizzato), la sistemazione della facoltà di economia a Urbino (recupero di palazzo Battiferri, 1986-1999), l'Imbarcadero di Salonicco (1996, non realizzato), il recupero del borgo di Colletta di Castelbianco (1994-98). Le due direttrici di ricerca peraltro sono complementari e alcuni progetti (come la sistemazione di piazzale Bucintoro al Lido di Venezia, 1995-2002) possono essere ricondotti a entrambe. Tra le ultime opere progettate da De Carlo, segnate forse da promettenti tracce di ulteriori sviluppi del suo pensiero, sono poi da ricordare il complesso residenziale a Wadi Abou Jmeel nel centro storico di Beirut (dal 2003) e il polo scolastico per l'infanzia a Ravenna (asilo nido e scuola materna, dal 2003).
De Carlo stesso parlò di questa fase della sua attività professionale come di un periodo di maggiore solitudine (Bunčuga, 2000, p. 218), un periodo in cui l'isolamento nel contesto dei nuovi assetti della cultura architettonica, l'estraneità alla logica ormai imperante delle cosiddette archistar, il venir meno infine di tanti interlocutori, lo spinsero a riconoscere l'unico habitat a lui congeniale nelle poche persone della redazione di Spazio e società, in quelle che organizzano con lui l'ILAUD e nei collaboratori di studio (che dal 2000 diventa studio associato nel sodalizio con i collaboratori di più lungo corso: Monica Mazzolani, Antonio Troisi e, in un primo periodo, Francesco De Agostini). Forse si deve a tale solitudine se questa fase della produzione di De Carlo è rimasta a lungo nell'ombra e solo in anni recenti ha iniziato a essere studiata dalla critica, come nelle recenti mostre monografiche di Parigi (G. D.C. Des lieux, des hommes, Centre Pompidou, 2003) e Roma (G. D.C. Le ragioni dell'architettura, MAXXI, 2005).
La morte della moglie, nel 2003, fu un duro colpo per De Carlo e la chiusura della rivista, della cui redazione Giuliana era da sempre la colonna portante, costituì forse il primo segno dell'approssimarsi della fine. Di lì a non molto, del resto, anche De Carlo dovette intraprendere una caparbia lotta contro una grave malattia che iniziò a logorarne progressivamente il fisico. Impossibilitato a reggerne ancora l'impegno, fu costretto a interrompere la vita dell'ILAUD dirigendo, nel 2003 a Venezia, l'ultimo summer course, come ogni anno contornato dall'affetto e dalla stima dei tanti studenti e docenti internazionali delle università coinvolte. L'attività progettuale rimase infine il terreno esclusivo del suo impegno contro la malattia fino a quando questa non ebbe la meglio. De Carlo morì a Milano il 4 giugno 2005.
Oltre alle diverse lauree honoris causa conseguite in Italia (a Catania e a Milano), oltre che in prestigiose università estere (Svezia, Canada, Norvegia, Scozia, Belgio, Svizzera e Argentina), De Carlo è stato insignito, nel corso della sua vita, di numerosi riconoscimenti e onorificenze, tra cui: il premio Sir Patrick Abercrombie, della Unione internazionale degli architetti, per l'urbanistica e lo sviluppo territoriale (1967); il premio Wolf (1988); la Médaille de l'urbanisme della Fondation de l'Académie d'architecture di Parigi (1992); la Royal Gold medal dalla Regina d'Inghilterra (1993), su proposta del Royal Institute of British architects (RIBA); il premio Sir Robert Matthew, della Unione internazionale degli architetti, per il miglioramento della qualità degli insediamenti umani (1996); la medaglia d'oro ai Benemeriti della cultura e dell'arte della Repubblica italiana (2004).
Il problema della casa, in Volontà, II (1948), 10-11, pp. 41-49; Una precisazione, in Casabella-continuità, 1957, n. 214; Questioni di architettura e urbanistica, Urbino 1964; La piramide rovesciata, Bari 1968; Gli spiriti dell'architettura, a cura di L. Sichirollo, Roma 1992; Nelle città del mondo, Venezia 1995; Una scelta di campo, in Il Movimento di studi per l'architettura, Roma-Bari 1995, pp. 7-14; (con lo pseud. Ismé Gimdalcha), Il progetto Kalhesa, Venezia 1995.
Una bibliografia ragionata completa (fino al 2004) di scritti di e su D.C. e i suoi progetti, curata da Angela De Carlo, è in G. D.C.: inventario analitico dell'archivio, a cura di F. Samassa, Venezia 2004, pp. 307-339.
Si segnalano: F. Brunetti - F. Gesi, G. D.C., Firenze 1981; L. Rossi, G. D.C. Architetture, Milano 1988; M. Perin, G. D.C. Un progetto guida per realizzare l'utopia, in Urbanisti italiani, a cura di P. Gabellini - P. Di Biagi, Bari 1992, ad ind.; B. Zucchi, G. D.C., Oxford 1992; M. Baffa, La questione dell'insegnamento dell'architettura negli anni del dopoguerra, in Il Movimento di studi per l'architettura, Roma-Bari 1995, pp. 83-105; A. Mioni - E.C. Occhialini, G. D.C. Immagini e frammenti (catal.), Milano 1995; G. D.C. Progetti nelle città del mondo, n. monografico di Rassegna di architettura e urbanistica, 1996, n. 88 (gennaio-aprile); F. Bunčuga, Conversazioni con G. D.C. Architettura e libertà, Milano 2000; F. Samassa, La stagione dell'Ina-Casa e il giovane G. D.C., in La grande ricostruzione. Il piano Ina-Casa e l'Italia degli anni Cinquanta, a cura di P. Di Biagi, Roma 2001, pp. 293-308; Spazio e società. Una sezione longitudinale sulla rivista. 1976-2000, a cura di F. Samassa, Rimini 2001; D. Lyndon, G. D.C. negli Stati Uniti, in G. D.C. Percorsi, a cura di F. Samassa, Venezia 2004, pp. 47-58; J. McKean, G. D.C. Des lieux, des hommes (catal.), Paris 2004; M. Guccione - A. Vittorini, G. D.C. Le ragioni dell'architettura (catal.), Roma 2005.
Per l'amichevole collaborazione si desidera ringraziare Angela De Carlo, cugina ma soprattutto fidata collaboratrice di studio per tanti anni di Giancarlo De Carlo.