Giandomenico Romagnosi, Carlo Cattaneo, Giuseppe Ferrari: Opere
Che cosa significhi Gian Domenico Romagnosi nella storia della cultura italiana è rimasto alquanto nel vago, anche dopo la profluvie di scritti che accompagnò, una ventina di anni fa, la ricorrenza del centenario dalla morte. Speriamo bene, fra quattr'anni, nel secondo centenario dalla nascita! Eppure, è il problema capitale, per lui come per qualunque altro uomo di pensiero, il cui nome sia rimasto consegnato alla posterità per avere lasciato una qualche orma nella vita del suo tempo ed oltre il suo tempo. Ma quale orma? Qui converrà distinguere, anche se la distinzione non potrà poi sempre essere mantenuta netta e precisa. C'è un Romagnosi che ha lasciato impronta di sé, che ha portato idee innovatrici in certe discipline molto specializzate, molto tecniche, come la giurisprudenza, la statistica, ecc., ecc.; e c'è un Romagnosi che, si dice, avrebbe lasciato quest'impronta di novità, di originalità anche nella cultura, in genere, del suo tempo, al di là dalle specializzazioni tecniche, un Romagnosi che avrebbe i titoli per essere considerato come uno dei santi padri spirituali delle generazioni della prima metà dell'Ottocento, del Risorgimento, insomma. A dar retta, per esempio, a Clemente Rebora o a un patito di Romagnosi come Giulio Andrea Belloni - benemerito, del resto, per il contributo dato alla miglior conoscenza di certi punti della biografia e del pensiero giuridico del Romagnosi - «le varie correnti intellettuali ed i vari aspetti delle forze vive del Risorgimento . . . tutte e tutti confluiscono, almeno virtualmente, nel Romagnosi». Ed esemplifica: cattolici clericali tipo De Giorgi, cattolici liberali tipo Cantù; indifferenti tipo Cattaneo, credenti tipo Mazzini e Gioberti; increduli tipo Pisacane; miscredenti tipo Ferrari. «Il verbo del vegliardo si fa, sia pure inefficacemente, azione della Giovine Italia, non importa se il mistico Mazzini non ne intenda e ne giudichi male la filosofia.» Qui, come di notte, tutti i gatti diventano bigi. La indistinzione gioca di questi bei tiri, per cui non si capisce assolutamente più nulla.
Tuttavia, anche la nostra distinzione fra cultura lato sensu e cultura specializzata, nel diritto in questo caso, e nei presupposti filosofici del diritto, deve subire una limitazione, almeno riferita all'età in cui il Romagnosi si formò, visse ed operò. Ai giorni nostri, e anche risalendo un poco addietro dai giorni nostri, forse di un secolo, non credo vi sia alcuno che, salvo ogni rispetto a loro dovuto, sia disposto a riconoscere a giuristi, anche di altissimo ingegno e magari originali innovatori nel campo della speculazione giuridica, come un Gabba, un Chiovenda, un V. E. Orlando, un Vivante, un Ferri, un Fadda, uno Scialoja, un Bonfante, un Albertario, un Calamandrei, la figura, in quanto giuristi (si insiste su questa limitazione) di guide spirituali della nazione, di esponenti più significativi e più largamente comprensivi della cultura nazionale, intesa nella complessa totalità delle sue articolazioni. Che poi, anche nella loro specializzazione di giuristi, essi riflettano la cultura del loro tempo e contribuiscano a determinarla e a darle, anch'essi, quei certi colori che la contraddistinguono e ne fanno un tutto coerente, è un altro discorso: qui si discorre se il diritto, come viene ora inteso, studiato, insegnato, abbia una posizione centrale nella formazione di una cultura, se da esso si sprigionino quei fuochi che danno vita ed alimento a forze culturali nuove. Non credo che a nessuno verrà in mente di innalzare sugli altari degli spiriti magni della nazione un giurista pur notevolissimo come P. S. Mancini, per avere, da giurista, teorizzato il principio di nazionalità; il quale principio nacque ed operò, come intuizione e sentimento e passione incontenibile, anche morale, per tutt'altre e intricate vie che non sono quelle del giure, le vie di Rousseau, di Alfieri, di Foscolo, di Mazzini, ecc. ecc.
Le cose stavano un po' diversamente, per il giure, nel '700 e ancora nei primi decenni dell'800: aveva, cioè, il giure, nella cultura in genere, una posizione centrale, che poi è venuto perdendo, chiudendosi nei limiti dei problemi e dei metodi della sua specializzazione. Qui non si intende dire soltanto che la cultura nutrita di discipline morali, cultura umanistica, insomma, quando non fosse di formazione fondamentalmente autodidattica, sulla base della retorica classicistica più o meno toccata dalle mode letterarie di qua e di là dalle Alpi, ma fosse invece cultura passata per la disciplina di ordinati studi accademici, era cultura o teologica o giuridica. Verri, Beccaria, Carli, Neri, Tanucci, Rucellai, Gianni, Filippo Buonarroti, Cuoco, Pagano, Vincenzio Russo, e ancora poi Mazzini, Berchet, Guerrazzi, Troya, Amari, Giusti, Salvagnoli, Cattaneo stesso, vengono dagli studi giuridici. Si vuol ben concedere che la scuola, assai più d'ora, fosse distante dalla vita e dalla cultura viva; né si vuol dire che tutti quei valentuomini ci imparassero molto, in quelle scuole di diritto; anzi, qualcuno, per sua confessione, poco o nulla. Ciò che importa qui rilevare è che allora assai più che non ora, il giure, accanto alle specificazioni tecniche del diritto civile e canonico, allargava le maglie e usciva dallo specialismo, come scuola, sia pur cauta di solito e spesso pedantesca, di informazione ed istruzione (non oserei dire sempre di educazione) politica, di vita civile; assumeva cioè un'importante funzione culturale in linea generale; e ciò soprattutto grazie alle cattedre di diritto naturale, che corrispondevano per un verso a ciò che si direbbe ora filosofia del diritto, e per un altro verso a ciò che si direbbe dottrina politica o teoria generale dello stato, e allora cominciava a dirsi filosofia civile. È stata studiata, specialmente sub specie del giansenismo, l'importanza che ebbero nel '700 e ancora nei primi dell'800 gli studi teologici nel determinare una nuova cultura italiana, anche al di là dall'aspetto meramente religioso ed ecclesiastico e dalla problematica dei rapporti Stato-Chiesa. Metterebbe conto, credo, di applicarsi con altrettale acribia ad analoghe ricerche per gli studi giuridici nel '700, specialmente per gli studi del diritto naturale.
Ora, è da domandarsi se il Romagnosi sia stato il giurista della prima maniera, chiuso nel suo tecnicismo, o se sia stato il giurista della seconda maniera, aperto ai problemi della morale e della politica, e se per questa via abbia agito, col suo pensare, scrivere, insegnare, sulla situazione, anzi, su un nuovo atteggiarsi della cultura nazionale. Ma anche qui la risposta non può essere univoca. Fin verso il 1815, fino ai cinquant'anni e più, la produzione del Romagnosi fu la produzione di un giurista di alta classe, ma essenzialmente e non più di un giurista. Lo dicono non soltanto i titoli, che potrebbe anche non significare molto, delle sue opere, ma l'impostazione dei problemi, la tecnica nell'affrontarli, dipanarli, risolverli. Le due opere maggiori che contrassegnano questa fase della sua attività e che gli assicurarono per allora una certa rinomanza, non immediata e non larghissima, fra gli specialisti (la posteriore fama dell'autore si rifletté poi anche sulle opere della prima fase), la Genesi del diritto penale (1791) e l'Introduzione allo studio del diritto pubblico universale (1805) sono, appunto, opere per specialisti, anche se non proprio per pratici o praticoni del diritto, i quali, invero, non vi troverebbero nulla per il fatto loro, ma solo i presupposti generali, teorici del diritto. In quel susseguirsi incalzante di pagine e pagine, di capitoli, di paragrafi, di sezioni, di corollari, dove tutto vuol essere more geometrico demonstratum, anche ciò che è evidente, dove le distinzioni si sgomitolano da altre distinzioni e altre a non finire ne proliferano, è difficile trovare un'idea che abbia significato e respiro al di là dallo stretto interesse del giure, di quelle idee che per le loro implicazioni, espresse o sottintese, spalancano, con un bagliore improvviso, l'orizzonte su nuove idee. Si può e si deve, anche, ammirare l'acume sottile del teorico nell'analizzare, nel precisare concetti e nel trarne logiche conseguenze; ma non ci si può sottrarre all'impressione che tanto acume, tanta sottigliezza siano un po' sprecati, siano non di rado un virtuosismo fine a se stesso. Ci si è qualche volta maravigliati della capacità di digestione intellettuale dei nostri avi, di fronte alle molte pagine, ad esempio, del Primato giobertiano, un libro «a successo», ai suoi giorni; ma questo è nulla, e non per il numero delle pagine, a petto alla Genesi del diritto penale romagnosiana. Già il problema ivi affrontato, la giustificazione razionale del diritto di punire, aveva scontato molto del suo interesse e della sua attualità dopo il libretto Dei delitti e delle pene del Beccaria, uscito ventisette anni prima. Non c'è nulla della vivacità polemica di questo nel volume del Romagnosi, nel quale invano si cercherebbe un riferimento, un accenno alle istituzioni penali del tempo. In sostanza, la gran questione affrontata è se il diritto di punire venga dai diritti dell'individuo, concepito isolato, nello stato naturale, come avevano voluto Pufendorf, Locke, Beccaria, Filangieri, Mably, cioè il diritto di punire sarebbe tutt'uno col diritto di difesa individuale, diritto spettante ad ogni singolo uomo anche nello stato di natura e ceduto al potere supremo solo per il patto sociale e per le convenzioni degli uomini; oppure se quel diritto di punire venga dai diritti dell'individuo in quanto essere sociale e vivente in società e solo in società. La risposta del Romagnosi - premesso in modo assiomatico, strano in lui, sempre così rigoroso nelle argomentazioni, che un contratto sociale non è mai esistito - è che il diritto di punire non è un diritto dell'uomo, ma della società, la quale punendo esercita un diritto di difesa spettante all'intero corpo sociale, non all'individuo. La qualità poi e la misura della pena devono essere conformi non al dolo e al danno, ma alla spinta criminosa. Poiché il Romagnosi non fu certo il primo ad oppugnare in breccia la validità dell'ipotesi dell'originario contratto sociale, anche la originalità della sua tesi sull'origine sociale, non individuale, del diritto di punire esce molto limitata, anche se è significativa di un motivo molto insistente e persistente dell'ulteriore pensiero romagnosiano, quello della socialità, contro quello della individualità pura. Se non è da prendere alla lettera il giudizio che su questa sua prima opera dava il Romagnosi stesso scrivendone all'amico Bramieri nel 1802: «il mio scorretto ed immaturo libro sul diritto penale», giudizio smentito da altri giudizi suoi, si può ben credere che il Romagnosi non attribuisse valore di originalità ad altre idee esposte in quell'opera. «Quanto alla teoria della spinta» confessava nel '25 all'amico intellettualmente più vicino, anche se mai conosciuto di persona, Giovanni Valeri «lungi che sia una novità, essa è la più antica norma, come ho accennato col testo di Cicerone e di Bacone, al quale avrei potuto aggiungere quello della Bibbia.» Anche quei non moltissimi fra i contemporanei che la apprezzarono nella prima e seconda edizione, uscite alla distanza di sedici anni (altro discorso si deve fare per la terza edizione, dopo altri sedici anni, aumentata dei due importanti libri V e VI), la apprezzarono non tanto per le tesi sostenute, ma per il modo come quelle tesi erano sostenute: vale a dire, a differenza dal modo leggero, a volte declamatorio, spesso approssimativo nel ragionamento, tenuto dai Beccaria e dai Filangieri, la dimostrazione rigorosissima, sistematica che il Romagnosi mutuava da Wolff e da Heineck (il suo Eineccio), e da più lontano ancora, perché la sua ambizione, non novità nemmeno questa, sarebbe stata di applicare alle scienze giuridiche e in genere morali, il metodo baconiano, che Bacone stesso aveva ritenuto non applicabile ad esse: il metodo dell'analisi, della osservazione, della esperienza, della induzione. E Bacone e Leibniz - lo dice più volte nei suoi scritti - sono per lui «i due più grandi uomini», cioè i due più alti ingegni filosofici.
Mentre la Genesi, tutta tirata sugli assiomi generali, sembra fuori dal tempo, o in esso vivere quasi solo per i riferimenti culturali ai giuristi predecessori, dichiarati o sottintesi nell'argomentare del Romagnosi, sicché nessuno la direbbe scritta mentre in Francia rumoreggiava la rivoluzione, la connessione col tempo si coglie un po' più nettamente nella Introduzione allo studio del diritto pubblico universale, che è del 1805: si sente aria di regno d'Italia napoleonico, si sente una maggiore scioltezza di atteggiamenti, una qualche relazione non solo con la cultura accademica, ma anche con la vita politica, con i problemi reali e pratici del tempo. In questa Introduzione lo sguardo del Romagnosi si slarga e per quanto, per lui, diritto pubblico non sia da intendersi proprio al modo moderno: è «il sistema col quale tutte le varietà pratiche dell'amministrazione pubblica nelle diverse età e contingenze vengono accoppiate ad unità», vi è toccata tutta una serie di problemi che, questi sì, erano non solo accademicamente dibattuti, ma urgenti nella vita pratica del tempo: vi è una prima apertura del Romagnosi verso il mondo della storia, che sembra invece precluso, anzi, sconosciuto nella Genesi, anche se le preferenze del Romagnosi non vanno alla storia reale, che egli chiama positiva, ma alla storia razionale, che noi diremmo storia sociologizzante, se non addirittura sociologia, dei cui principi la storia positiva sarebbe un'espressione in concreto; precorrimento di idee che troveranno la loro piena applicazione solo un quarto di secolo più tardi, Incivilimento. Vi è insomma già abbozzata una teoria dell'incivilimento, concepito come necessaria conseguenza della perfettibilità della natura umana, per quanto Romagnosi si astenga da pronunziarsi sul problema se la perfettibilità sia indefinita (come per Condorcet, che egli conosce e cita) o no. Vi è già l'idea, liberale, delle funzioni dello stato ridotto a tutela della libertà di tutti, non solo nella formula, spesso ripetuta: «il governo abbia il meno possibile di affari nell'atto che le società hanno il massimo di faccende», ma ampliato al liberismo economico, alla condanna esplicita di ogni assolutismo, di ogni tirannide. Vi è già una specie di sociologia della religione. Ma nell'insieme, la struttura dell'opera è strettamente giuridica, non meno che nella Genesi faticoso il procedere estremamente analitico, la stessa passione furiosa di sistemare tutto secondo principi; e qui principio massimo è che anche la politica è sottomessa al principio unico della necessità della natura, cioè è deducibile solo dalla natura dell'uomo; anzi, l'ambizione del Romagnosi sarebbe di ricongiungere, come egli dice, «il regime del mondo fisico e del mondo morale ridotti ad uno stesso tipo». Del resto, ancora nel '24 incoraggiava l'amico Valeri a seguire questa sua ricetta nel comporre le opere, nel dominare sistematicamente la scienza: «Consacrato agli studi morali e politici, e colte le idee fondamentali, con una logica ordinata, voi vi fate padrone della scienza. Tutto il segreto sta qui. Le idee radicali sono poche. Colte quelle, tutto viene sotto l'impero della mente. Coraggio, mio caro, coraggio; e vi troverete più ricco di quello che credete.»
Pur con qualche bagliore qua e là, anche questa Introduzione è una lettura pesante, inamena, che per pagine e pagine ci conduce per lande desolate. È anche questa, insomma, un'opera per specialisti del giure, per colleghi professori; ed è da dubitare che abbia trovato molti lettori fuori da quella categoria di iniziati; ha pure qualche significato che l'opera non abbia avuto altre edizioni per un vent'anni quasi; e quando il Romagnosi stesso, nel '13, nella supplica a Napoleone per ottenere la naturalizzazione al regno d'Italia, ricorda «i pubblici suffragi alle sue opere in diversi stati d'Europa, e non ha molti anni avanti il Corpo legislativo dell'Impero alla Genesi del diritto penale e alla Introduzione allo studio del diritto pubblico universale», è da pensare che egli vanti i plausi degli specialisti e che non presumesse di avere finora esercitato una qualche influenza sulla cultura in genere del suo tempo. Del resto, su quei pubblici suffragi, più tardi, Romagnosi stesso faceva delle riserve, scrivendo al Pasini, nel '30, circa la Genesi: «Quanto il mio libro è conosciuto in Germania» (si trattava di conoscenza recente, per via di un articolo uscito in quei giorni in una rivista viennese) «altrettanto è sconosciuto dal pubblico francese».
Ma certo, la notorietà, se non addirittura la fama, del Romagnosi era cresciuta in questi anni, e anche, diremo così, la potenza politica sua, soprattutto dacché, lasciati gli angusti ambienti provinciali del Trentino e anche di Parma, che così poche soddisfazioni di insegnante gli aveva dato, era passato a Pavia, e poco dopo a Milano, consulente presso il governo reale in fatto di legislazione, sovrintendente agli studi giuridici, insegnante nelle Scuole di alta legislazione da lui progettate e ottenute, moderatore supremo delle pubblicazioni giuridiche, perché è lui il consultore del governo sull'opportunità o meno di permetterne la stampa; dignitario in alto grado della massoneria italiana legata strettamente con quella francese, allarga la cerchia delle sue relazioni ed amicizie; è un personaggio importante del regno d'Italia, stimato, onorato e anche invidiato. Ha pure un senso che Giuseppe Compagnoni, poligrafo, ma giurista professionalmente, che fu accanto al Romagnosi in varie commissioni governative, come quella per il codice di procedura penale, non lo nomini nemmeno nelle sue memorie autobiografiche, là dove pur parla con un certo disdegno dell'opera di queste commissioni. Questi sette anni, dal 1807 al '14, furono, quanto a possibilità di affermare se stesso e le sue idee nella realizzazione delle opere, l'età d'oro della sua vita, a cui egli, per quanto con un certo distacco di filosofo stoico, dovette poi guardare con qualche rimpianto, quando si vide dal nuovo governo non pur inutilizzato per il bene pubblico, ma riguardato con sospetto e perseguitato; onde si spiega, nelle prime illusioni del ritorno di Astrea, quella sua domanda al nuovo governo: enumerando i suoi titoli, ricordava «l'avere dato prove di superiori talenti legislativi per le riforme del governo, per i quali come fui utile al governo italiano posso esserlo egualmente all'austriaco, di cui conosco il sistema civile ed amministrativo».
Ma se in quegli anni egli aveva una posizione invidiata, se egli era una personalità ufficiale, egli era pur sempre il «giurista» Romagnosi. Non è avvertibile, in quella società che era quella dei Foscolo, dei Monti, dei Cuoco ecc., una sua influenza culturale al di fuori dalla sua specialità professionale. Il paradosso, un relativo paradosso, è che gli ultimi vent'anni della sua vita, quelli che furono gli anni materialmente più stenti, umiliati dagli acciacchi, invigilati dal sospetto dei governi e perfino, episodicamente, angustiati da inquisizioni e da una breve prigionia, sono gli anni in cui il Romagnosi non è più soltanto il giurista Romagnosi, ma il Romagnosi. Già la clandestina e anonima Costituzione di una monarchia nazionale rappresentativa è, sì, opera giuridica, prigioniera di tutta la solita sistematicità del Romagnosi, ma è anche politica, agita problemi che, alle prime battute della Restaurazione, sono largamente sentiti, meditati, discussi. Le soluzioni sue sono quello che sono, lambiccate, estremamente intellettualistiche, articolate in un gran numero di istituti, equilibrantisi a vicenda, estranei a ogni tradizione storica, non pure italiana, ma d'ogni altro paese. Ciò che vi rimaneva di accessibile alle menti dei non iniziati nel giure, era l'esigenza, vigorosamente affermata, di una tutela giuridica della libertà e della rappresentanza degli interessi morali e materiali. Ma, al di fuori di questa generica affermazione, è non solo da dubitare, ma da negare che l'opera, faticosa, come tutte o quasi tutte le opere trattatistiche del Romagnosi, avesse una qualche influenza sul costituzionalismo del tempo, quale si manifestò nei moti piemontesi, nelle velleità lombarde, negli esperimenti napoletani e siciliani fra il '20 e il '21. Del resto, anche la riesumazione e integrazione dell'opera, nel '48, cioè in un altro momento in cui poté sembrare che il pensiero costituzionalistico del Romagnosi fosse ridiventato attuale, fallì il bersaglio: nel fatto, costituzionali piemontesi, lombardi, toscani, napoletani e siciliani batterono anche allora altre vie, si ispirarono ad altri esempi, ad altre esperienze, italiane ed europee, e non tennero conto delle elucubrazioni romagnosiane, come di costruzioni meramente cerebrali. Ciò che non toglie, naturalmente, che quell'opera sia molto significativa appunto come documento del pensiero politico romagnosiano; ma è un fatto che nemmeno di essa sia avvertibile l'influenza nei pensieri e nelle azioni degli uomini del tempo, posti a dover risolvere un problema che il Romagnosi, in carta, aveva già risolto.
Non che, nemmeno in questi anni, il Romagnosi, per quanto estromesso da ogni attività ufficiale, intermetta la sua operosità nel campo del giure, nella teoria e nella pratica, e della filosofia giuridica: cade, proprio in questi anni, l'opera del Romagnosi più tecnicamente giuridica e quella in cui, forse, nello stretto tecnicismo giuridico, ha lasciato veramente più vasta orma di sé: Della ragione civile delle acque nella rurale economia. Chi sa l'importanza capitale del regime idrico nella economia lombarda, l'intrico complicatissimo delle questioni che vi si connettono, di proprietà, di condominio, di servitù, ecc. ecc., e l'estrema complessità della legislazione e degli usi civici al riguardo, non si maraviglierà che l'opera del Romagnosi su questo soggetto, basata su una profonda conoscenza ed esperienza e sulla sua chiara coscienza e visione giuridica, costituisca un monumento di sapienza e di erudizione, che domina e illumina, nella teoria e nella pratica, quell'irta materia. Cade anche in questi anni la 3a edizione della Genesi del diritto penale, con l'aggiunta dei libri V e VI, che danno veramente all'opera quel maggior soffio di originalità che finora possedeva scarsamente. «Ora che ho fatta l'aggiunta» scriveva al Valeri nel settembre del '24 «credo che tutto il lavoro antecedente abbia acquistato il suo giusto valore. Questo valore poi non è ristretto che ad un solo ramo, comunque il più importante per chi comanda e per chi ubbidisce». E in lettera successiva: «Questa quinta parte è forse più piena, più vasta di quello che credere si possa. Io temo che gli italiani miei contemporanei non siano per istimarla quanto vale, e che ciò sia riservato alla ventura generazione». È da sapersi che questa V parte è dedicata al «prevenire le cagioni dei delitti»; ma il Romagnosi la prende, come fin troppo spesso, molto da lontano: fino dalle origini e ragioni del potere coercitivo della pubblica autorità, esce cioè da un problema di diritto penale per spaziare in problemi di teoria politica, su i rapporti fra religione e politica ed educazione, con una chiara affermazione della libertà di coscienza e della relativa tolleranza religiosa, con una aperta condanna della religione politicante, di quello che si diceva, specialmente allora, il gesuitismo, anche se la parola non è detta: «Ma qual è il nemico più grande della sociale religione? Forse il vizioso o l'incredulo? Gli uni e gli altri sono nimici; ma non sono i peggiori. Pessimo nemico è quello che coll'autorità stessa della religione sovverte la vera morale. Sovverte poi la vera morale chiunque la rende versatile, o travolge la scala dei doveri e delle virtù; o fa prevalere il fogliame e l'esteriore ai solidi frutti e alla parte finale della stessa religione... V'ha ancor di più: col corrompere la morale in nome della Divinità erigono ed avvalorano un poter positivamente contrastante, e però oltre di dissipare e sottrarre fanno una guerra formale ai veri lumi, alle civili virtù, alle buone leggi ed alle utili istituzioni. Questa guerra diviene tanto più funesta, quanto più viene da essi sostenuta dalle loro passioni, dalla loro influenza, e dalla associazione di tutti quei potenti cui rendono seguaci colla amenità di un facile dovere, e colle larve di pratiche puramente pompose». Facit indignatio versus: qui lo stile del Romagnosi si fa insolitamente vibrante e commosso. Non aveva forse tutti i torti l'amico Valeri nel sospettare che, nell'articolo che egli stava preparando per l'«Antologia» su questa nuova edizione della Genesi, «non si potrà rendere conto delle cose che dice in punto di religione». Infatti, anche la Sacra Congregazione dell'Indice credette di dover intervenire, comunicando riservatamente all'autore una nota di censura.
Del resto, già nell'Assunto primo della scienza del diritto naturale pubblicato nel 1820, forse, anche per la sua forma volutamente piana ed elementare, una delle opere dottrinali del Romagnosi di lettura meno faticosa, circolano già questi pensieri, per quanto, in punto di religione (la religione in genere, non specificamente la religione cattolica), accanto all'energica affermazione della libertà di coscienza, vi sia anche la menzione dei mutui servigi fra religione e politica: «La religione . . . deve sussidiare la politica, e la politica deve proteggere la religione. L'una e l'altra debbono agire di conserva per ottenere lo stesso intento». Pensiero che, per quanto non detto, si deve probabilmente collegare con l'altra ferma convinzione del Romagnosi, liberale aristocratico, che «in ogni età della società vi sarà sempre una classe numerosissima che abbisogna di essere condotta per via di autorità».
Ma sono pensieri, nell'Europa della Restaurazione, di una originalità e novità relative, annegati poi troppo spesso nella lenta palude delle analisi e delle deduzioni romagnosiane: una pacatezza monotona, senza uno scatto di nervosità, è forse la caratteristica saliente delle scritture sue, quando si dispiegano nella forma obbligata del trattato. Il Cattaneo vi vedeva delle «volate»; ma pur concedendo quello che deve essere concesso a questi spunti attuali, pur concedendo che da tutte queste pagine del Romagnosi esce un caldo respiro di profonda serietà morale, di probità intellettuale, è difficile persuadersi che giovani di vent'anni ci vedessero un maestro di vita spirituale e morale, si buttassero su quelle pagine con l'ardore della loro età, quando avevano Foscolo e Alfieri e fra poco anche Mazzini e la letteratura romantica di Francia e di Germania. Abbiamo alcune memorie di quella generazione che fu su i vent'anni fra il '15 e il '30: nessuno ricorda come illuminante per la vita una pagina di Romagnosi, tranne Cattaneo, i due Sacchi e pochi altri, per i quali tutti si tratta d'altra cosa, di contatti personali diretti col Romagnosi, di consuetudine di vita con lui, con i suoi pensieri, con la sua personalità di patriarca bonario e affettuoso con quelli che egli, celibatario inuggiolito, chiamava i suoi «figli». Si capisce che nei contatti umani diretti la sua figura morale e intellettuale esercitasse un gran fascino, e ispirasse un'onda di calda simpatia quel vegliardo instancabile che vinceva ogni giorno con l'opera intellettuale assidua le ingiurie degli uomini e della salute vacillante. Ma questa è altra cosa dalla influenza di Romagnosi su una generazione per il tramite degli scritti soltanto.
Tuttavia, in questi ultimi vent'anni di vita, è incontestabile che la notorietà, diciamo pure anche la fama del Romagnosi, cresce e cresce anche al di là dalla cerchia sempre ristretta dei puri giuristi, anzi dei teorici del giure. E questa maggiore notorietà gli viene non dai suoi ponderosi trattati, vecchi e nuovi, ma da quella multiforme attività, stimolata spesso dai bisogni della vita angusta, che in buona parte a torto è stata ed è considerata dispersiva nell'attività del Romagnosi, e che si compendia nella sua varia, assidua, molteplice collaborazione alle riviste più note e accreditate del tempo: il «Conciliatore», di breve ma inobliabile vita; la milanese filo-governativa «Biblioteca italiana», la fiorentina «Antologia» e i più propriamente quasi suoi «Annali universali di statistica», per ricordare solo le più notevoli. Soprattutto importante la collaborazione all'«Antologia» del Vieusseux. La rivista di Firenze che nell'età della Restaurazione contribuì a togliere a Milano napoleonica lo scettro di centro della vita intellettuale italiana, gli procurò la notorietà in Toscana e anche al di là degli studiosi di diritto, mercé le sue pubbliche corrispondenze col Valeri, e oltre la Toscana, con la diffusione che la rivista fiorentina ebbe, permessa o non, in gran parte d'Italia, anche nel Mezzogiorno. Gli «Annali universali», poi, diedero sfogo alla sua vena inesauribile di recensore e critico di tutto e di tutti, alle sue conoscenze enciclopediche in fatto di economia, di statistica, di geografia, di etnologia, e sempre più spiegatamente di storia (nascono e fruttificano in questa sua ultima fase gli interessi per Gibbon, Robertson, ecc.), anche se le sue inclinazioni andassero pur sempre alla storia razionale anziché alla storia positiva, per adoperare i termini suoi già sopra spiegati. In questi suoi ultimi anni esce il frutto più maturo dei suoi interessi storiografici, quel suo Dell'indole e dei fattori dell'incivilimento, che nella sua prima parte, sociologico-filosofica, storia razionale, insomma, ha note di originalità molto relative, dopo Vico e il da lui molto, troppo apprezzato Stellini, ma che nella seconda parte, applicata alla storia concreta d'Italia, rappresenta uno sforzo notevole di sintesi d'histoire de la civilisation, di svolgimento che ha in se stesso i motivi del suo svolgersi. In questa attività genericamente pubblicistica, spesso quanto mai affrettata, rientra anche la sua ambiziosa operetta filosofica Che cosa è la mente sana?, che non è l'unico documento della sua filosofia (la quale anzi si manifesta, anche come gnoseologia, in tutte le opere sue trattatistiche giuridiche), ma, con le Vedute fondamentali sull'arte logica, l'unica dichiaratamente filosofica e della quale egli faceva gran conto: «Se sono riuscito,» scriveva al Valeri «spero di aver gettato i fondamenti della scuola italiana in fatto di razionale filosofia. Ciò che sembrerà forse incredibile, si è la prova logica della reale esistenza dei corpi, cui fino ad oggi si è creduto impossibile». L'abbiamo qui ripubblicata perché i moderni lettori (è breve e più svelta dei soliti trattati romagnosiani) giudichino se le ambizioni del Romagnosi siano state realizzate, il che è molto dubbio; e giudichino soprattutto quanto il Romagnosi porti ancora con sé del sensismo settecentesco nell'età post-kantiana di Fichte, di Hegel e di Rosmini.
Ma di quest'ultima produzione del Romagnosi, comunque la sua più viva, quanto entrò effettivamente nel circolo della cultura italiana di allora? Si è parlato dell'etnicarchia, della teorizzazione romagnosiana del principio di nazionalità; i collezionisti di precursori hanno esaltato Romagnosi precursore non solo di P. S. Mancini, ma anche di Buchez; ma già la morte immediata di quel termine bizzarramente fabbricato, come molti altri, dal Romagnosi fa sospettare che sia caduta senza eco anche la sua teorizzazione; la quale era poi perfettamente superflua per gli spiriti generosi e anche pensosi del tempo, per i quali quel principio era qualche cosa di elementare che era più sentimento, passione che non meditata ragione giuridica, che era senso offeso di dignità nazionale: perché francesi, inglesi, spagnoli, perfino greci, liberi e indipendenti, composti in stati nazionali, padroni dei loro destini, e non anche noi, italiani? Tutto qui, nei più, senza troppe giustificazioni razionali; sentimento immediato, non persuasione radicata per via di ragione. Si capisce che spiriti meditativi potessero non accontentarsi di queste ragioni del cuore, nemmeno in età romantica, e cercassero ragioni più profonde alla loro fede; ma le andavano a cercare in Romagnosi ? Si ricorda sempre il Giusti della Terra dei morti: il Romagnosi un'ombra che pensava. Ma sapeva il Giusti che cosa avesse pensato quel morto? A giudicare dalle Memorie di Pisa, dalia pigrizia culturale del poeta, si direbbe che non lo sapesse. Quanti altri Giusti, al tempo del Giusti e poi? Per i più la fama romagnosiana era fama accettata, ma non a ragion veduta, perché il suo pensiero non si sentiva fluire nel sangue della nuova cultura. Fama, certo. Già nel '19, alla maniera dei classici antichi e degli umanisti, il romantico Ermes Visconti faceva interloquire il Romagnosi nel suo Dialogo sulle unità drammatiche di luogo e di tempo, dialogo immaginoso, ma in cui il Romagnosi impersona «l'acume filosofico», che i contemporanei comunemente gli riconoscevano. E quarant’anni dopo, il fantasioso Giuseppe Rovani, in quei suoi Cento anni, così mescolati di romanzo e di storia, riflettendo l'opinione del suo tempo su quello del Romagnosi, faceva dire a un suo personaggio, criticando la composizione del futuro governo che i Federati lombardi congiurati del '20-21 avrebbero predisposto: «Mi fa senso come pel ministero di giustizia e legislazione nessuno abbia pensato a Romagnosi, per i consigli e l'assidua collaborazione del quale il mediocrissimo Luosi [il gran giudice e ministro della giustizia del regno d'Italia e gran protettore del Romagnosi] sembrò l'ideale del giustiziere; e invece che a lui, siensi gettati gli occhi sovra un semplice amministratore d'ospedale». Anzi, negli ultimi anni di lui, più che fama, quasi dittatura spirituale. «Qui ose se soulever chez nous contre l'autorité de Romagnosi ?» scriveva l'esule Mazzini a Charles Didier nel '32. Ma nella stessa lettera egli faceva intendere che lui e i giovani come lui mal sopportavano quella dittatura, invero momentanea, tacciava Romagnosi di «stationnaire» e mostrava di conoscerlo molto imperfettamente, se lo riteneva insensibile all'idea del progresso; certo, non il progresso misticamente inteso alla Mazzini. «La théorie du Progrès est à l'index chez nos Atlas littéraires. C'est la vicenda alterna, l'action et la réaction perpetuelle qui domine. Vous avez vu le factum que Romagnosi a lancé dans l' «Anthologie» et au sujet d'Hegel, qu'il n'a du reste jugé que fort légèrement, sans le comprendre, et sur le peu qu'en a dit Lerminier». Critiche di peso, perché molto dell'avvenire, non tutto, era in quei giovani; ma critiche che non avvertivano che la fama del Romagnosi, anche a chi la riconosceva per così dire ad orecchio, veniva incontro a una esigenza profonda del sentimento nazionale, allora, l'esigenza di esibire i titoli della nobiltà, se non della supremazia, intellettuale italiana, non solo con le glorie del passato, ma con le glorie viventi, con la dimostrazione attuale che la nazione sapeva ancora produrre dal suo seno figure intellettuali di statura europea. Meritevole o non meritevole di essere assunto a questo simbolo, Romagnosi venne a fruire, innocente, negli anni suoi estremi di questa coincidenza. Volta era morto, Manzoni, nonostante le lodi di Goethe, non pareva brillasse della luce di un Byron, di uno Chateaubriand, di un Lamartine, e nemmeno di un Walter Scott; Leopardi aveva rinomanza circoscritta ancora e contestata; Rossini era solo il bel canto, una dote italiana considerata sul piano intellettuale quasi come una nota deteriore e sul piano morale quasi un segno di futile leggerezza ed atonia, creatrice di bei suoni carezzevoli agli orecchi di tutta Europa, ma non di valori intellettuali e morali. Invece, Romagnosi era il giurista, il filosofo; la sua Genesi era stata tradotta in tedesco e si diceva (ma non è certo) anche in America; l'Istituto di Francia l'aveva annoverato tra i suoi membri. Che si voleva di più?
Ma ora, a distanza di un secolo e più, ristabilite le proporzioni, pare difficile che si possa attribuire a Romagnosi la statura europea che gli vollero attribuire non pochi dei contemporanei ed anche il suo peso nella cultura italiana ci sembra vada molto ridotto. Si è voluto esaltare l'originalità della sua idea della compotenza causale, cioè della distinzione e indistinzione insieme di soggetto ed oggetto, che è una combinazione piuttosto ibrida di metafisica e di psicologia, un immiserimento della kantiana sintesi a priori; si è voluto vedere in lui qualche cosa che precorre il positivismo, e certo c'è, come c'è in tutti i filosofi dell'illuminismo e sensismo settecenteschi; e ciò prova soltanto quanto nel Romagnosi sopravvivesse di quel mondo culturale; quel suo trarre tutto dal diritto naturale, il ricondurre la filosofia al diritto e non il diritto alla filosofia, lo denuncia uomo di quel secolo. Resta di lui, ed è forse il tratto suo più saliente, una inclinazione non all'eclettismo, ma alle soluzioni medie, l'avversione al radicalismo, alle opinioni outrées. Questo è particolarmente visibile nel suo pensiero politico: il Romagnosi è il filosofo di un aristocratico moderatismo liberaleggiante senza le inquinazioni sabaudistiche-clericali di Balbo o quelle guelfe di Gioberti, ma ridotto alle sue linee essenziali, antirivoluzionario, riformatore, con fede nel progresso per svolgimento necessario dello stato di fatto, senza misticismi populisti, ma con fede nella «ragione» intesa come necessità di natura, che non mancherà, per la stessa necessità, d'imporsi e trionfare.
Cattaneo si è sempre dichiarato discepolo di Romagnosi: «mi pare ieri» scriveva a un amico nel '62 «quando nel 1820, in piazza d'armi il dì di San Francesco, mi consigliasti a non andare a Pavia, ma studiare in Milano presso Romagnosi. Mio caro amico, quella tua parola decise della mia vita». In quale modo, per quali vie, con quali elementi? Mescolandosi insieme simpatie affettive e consonanze intellettuali, è sempre possibile, a chi se ne confessi preso, di sceverare le une dalle altre? È vero che nel '34, non più giovinetto, il Cattaneo, dando notizia della traduzione tedesca della Genesi del diritto penale romagnosiana, scriveva: «La Genesi è scritta con tale geometrica precisione, con tale coscienziosa lentezza e cautela di procedimento che a chi, dopo averla attentamente percorsa, ne dimenticasse affatto tutte le dottrine, ne rimarrebbe pur sempre rinvigorita, consolidata la mente. Questo libro e il saggio sulle facoltà dell'anima del virtuoso Bonnet, bastano a dar tempra filosofica a ogni giovane intelletto». Che sia il caso del Cattaneo quello di chi «dopo averlo attentamente percorso, ne dimenticasse affatto tutte le dottrine ecc. ecc.»? Certo, il Cattaneo, come quattordici anni prima aveva letto, ammirando, l'Assunto primo alla scienza del diritto naturale, così ora, anche dopo altri studi del tutto estranei agli interessi romagnosiani, studi linguistici soprattutto, manteneva la sua ammirazione al metodo rigoroso, sistematico delle argomentazioni romagnosiane, per cui non si fa un passo innanzi senza prima essersi assicurato il fondamento logico del gradino precedente, sia pure a prezzo di quella «lentezza» che qui il Cattaneo ricorda, forse non come una venere dello stile romagnosiano. Rigore e nitore concettuale, questo sì il Cattaneo deve al Romagnosi, ma non affatto il sistema di dipanare tutto da un principio unico sovrano. «L'aver creduto all'eccellenza della dimostrazione matematica» scriveva nel '44 «trasse i seguaci di Cartesio a disprezzare la modesta e pura esposizione esperimentale, e a sperare l'infallibilità in tutte le scienze, purché solo si potesse travestirle in abito geometrico. E questo tedioso vizio che opprime l'intelligenza giovanile, invano scoperto e accusato dal solitario Vico, si diffuse dalla celebrità medesima dei Cartesi, dei Leibnizi e dei Wolfi; e discese fino a noi, che l'abbiamo visto con dolore togliere popolarità al semplice e grande Romagnosi». Si vedano le Interdizioni israelitiche, che il Cattaneo venne redigendo un anno dopo la pagina, del '34, che abbiamo più sopra riferito. Ce lo immaginiamo quel tema nelle mani di Romagnosi: sarebbe partito dai principi universali del diritto naturale per scendere via via alle specificazioni storiche, e con interesse relativo per queste specificazioni storiche o solo in quanto esse si inserissero nelle induzioni logiche da quei sovrani principi universali. Per il Cattaneo l'interesse è tutto per quei dati storici, per il loro concatenarsi fino allo sfociare nella situazione attuale, siano o non siano essi l'espressione di principi generali. Poco vuol dire che il saggio del Cattaneo si presenti come un'applicazione del pensiero romagnosiano: «Romagnosi come in sua gioventù affaticò ad unificare il diritto e la morale, derivandoli dal comune principio d'una necessità finale atteggiata variamente dall'azione progressiva del tempo, così nella sua provetta età ci indicò il metodo col quale unificare il diritto e l'economia sottoponendo al freno del diritto le pretensioni dell'interesse, e alla sanzione dell'interesse le asserzioni del diritto». Il programma potrà essere romagnosiano, ma nell'esecuzione del disegno questi principi non solo sono dimenticati, ma laddove nel Romagnosi sarebbero stati continuamente richiamati e tutto l'interesse si sarebbe incentrato sull'applicazione «positiva» di quei principi, nel Cattaneo avviene piuttosto il contrario e l'interesse è tutto rivolto ai fatti «positivi», dai quali, se si voglia - ma il Cattaneo non ne mostra una voglia particolare - si potrà risalire ai principi. Mentre nel Romagnosi si manifesta la inclinazione mentale teorico-speculativa del filosofo e giurista, nel Cattaneo l'attenzione è tutta rivolta al fatto, all'individualizzante, caratteristica propria dello storico. Idee romagnosiane, certamente, circolano qua e là negli scritti di Cattaneo, ma la loro funzione si vede sempre subordinata alla lezione dei fatti, che hanno un loro valore per sé stante, né l'acquistano, come in Romagnosi, solo se assunti in classificazioni generalizzanti. In questo senso il Cattaneo esce dai confini della scuola romagnosiana e si abbandona al suo innato, fortissimo temperamento di storico.
Se scuola vuol dire ripetizioni e variazioni su moduli forniti dal maestro capo-scuola, o anche sviluppo di quei moduli, ma non per un processo critico, bensì su una linea di sviluppo logico in certo senso obbligata, presegnata dal maestro, quella del Romagnosi ben difficilmente può dirsi una scuola. In sostanza, la scuola presuppone figure minori di epigoni, rispetto al maestro. Ora chi vorrà considerare Cattaneo figura minore, pedissequa, rispetto a Romagnosi? o rinvenire qualche cosa di Romagnosi in Giuseppe Ferrari, così impregnato di cultura francese? Ma in altro senso, più estrinseco, una scuola romagnosiana ci fu. Cattaneo aveva giusti quarant'anni meno di Romagnosi, Ferrari addirittura mezzo secolo. Appartenevano ad una generazione che dell'età napoleonica aveva al più un ricordo d'infanzia; che aveva avuto appena sentore delle battaglie romantiche attorno al «Conciliatore». Era giunta sui vent'anni quando anche quella fiammata si era spenta. Nell'ambiente milanese di allora, un giovane ventenne, d'intelligenza alacre, che non fosse di animo già vecchio o scettico, ma smanioso di scoprire il mondo e di rinnovarlo, aveva poco da scegliere: se aveva inclinazioni artistico-letterarie, gli si offrivano una specie di scapigliatura di foscoliana memoria, di cui era stato «corifeo» l'elegante, versatile pittore Bossi; o il circolo del vecchio Monti, facile lusingatore di giovani; o quello assai più chiuso, poco accogliente ai giovani, di casa Manzoni, aristocratico-cattolico, non veramente aperto al proselitismo; se aveva inclinazioni alla meditazione dei problemi della vita morale, politica, sociale non gli si offriva che il Romagnosi, e sia detto con tutto il rispetto per quel valentuomo. Su questo piano, nessun altro nella Milano di allora era della sua statura. Cattaneo giovane, anche dopo il primo incontro col Romagnosi, oscillò, veramente, fra queste diverse inclinazioni, a cui dovremmo aggiungere la linguistica, per la quale non ebbe nessuna guida in loco e che saziò con letture assidue di opere specialmente straniere, francesi e tedesche, in quell'alba della linguistica moderna, letture i cui frutti in anni lontani e maturi, quando più non vi si applicò, egli intessé genialmente nella sua cultura e nella sua visione storica. In questo definitivo determinarsi per lo studio dei problemi della vita morale, sociale, economica, scientifica anche, si esprimeva, si capisce, un'opzione che non si può attribuire soltanto al fascino intellettuale e morale di Romagnosi, ma rispondeva a un motivo dominante nella tempra individuale di Cattaneo, nel suo carattere. La scelta era stata, in definitiva, e così si presentava anche alla mente del Cattaneo, fra letteratura pura e scienza. Non che il Cattaneo non avesse qualità letterarie, le aveva anzi spiccatissime e individualissime, e non che non ne fosse pienamente consapevole e non le impiegasse magistralmente in tutti i suoi scritti, in nessuno dei quali si può rinvenire sciatteria di forma; ma egli si rendeva conto che quella non era la sua vocazione più seria e più profonda. Per il Cattaneo, la letteratura pura era gioco della fantasia, estro, improvvisazione anche, ma sempre con un fondo di futilità, di svago divertente, tranne nei casi - e non credeva fosse il caso suo - che attingesse le vette supreme dell'arte. La scienza, invece, era utilità, utilità sociale, impegnava la coscienza morale, non solo la coscienza estetica. «Oh qual tesoro di tempo e d'ingegno» esclamava nel '42 «non andò perduto per quella letteratura, la quale in mezzo a tante meraviglie se ne stava cinquecento anni deliberando se il diritto di scegliere a talento le parole fosse privilegio della ignara plebe!»; e rivendicava per sé il merito di avere «preferito la oscura via delle applicazioni scientifiche e de' volgari interessi al facile sfoggio d'una letteraria garrulità»; di avere fatto invito «agli amatori delle scienze perché vogliano farsi innanzi, e con utili scritti umiliare la vanità d'una letteratura ciarliera, schierandole a fronte alcuna parte di quell'immenso Vero, del quale ella sembra quasi sdegnosa di nutrirsi . . . Laonde gli studiosi, in luogo di ripetere quella frivola opinione arcadica che l'ingegno fa le lettere e il dorso fa le scienze, dovrebbero porsi in grado d'apprezzare gli sforzi prodigiosi, coi quali il genio, il genio di Newton e di Volta costringe la muta materia a confessargli le secrete leggi dell'universo. Quante cose su la mole e le distanze e la velocità dei corpi celesti, più poetiche assai d'ogni poesia! Quante cose non potrebbero splendidamente dirsi intorno a quel principio imponderabile che illumina e scalda l'universo, e corre indefesso nelle correnti magnetiche da polo a polo e da mondo a mondo, e mentre scoscende dalle nubi in fulmine, s'insinua a svolgere con mite fomento i verticilli d'un fiore! ... I monti, che al profano delle scienze sembrano informi ammassi di materia, sono ordinato libro, in cui le pietre e gli sfasciumi terreni, e le reliquie degli esseri vitali contrassegnano l'età dell'acqua e quella del foco, la dimora delle acque dolci e quella delle conchiglie marine, le selve primigenie e il sotterraneo fermento che le ridusse in carboni, i canneti colossali fra cui serpeggiavano i paleosauri, e le grandi eriche onde si pascevano i mastodonti. Fra queste audaci induzioni si destano cosi grandi e meravigliosi pensieri, che i sotterranei dei poeti, la grotta d'Aristeo, le bolge stesse di Dante, sembrano perdere l'incanto con cui signoreggiavano la nostra adolescenza». È una pagina che mostra non soltanto le ragioni della preferenza del Cattaneo per la scienza, ma mostra altresì la sua potenza di scrittore, di scrittore che, con Galileo e pochi altri, fu scrittore grande nella nostra letteratura, non pretendendo di essere letterato.
Questo criterio dell'utile, dell'applicazione pratica alla vita ci sembra fondamentale nella personalità di Cattaneo, e determinante dei suoi atteggiamenti; e su questo punto, forse, è da vedere il vero influsso e il più efficace del Romagnosi sul Cattaneo, spoglio di ogni residuo metafisico: il conoscere per scienza è conoscere per agire sulla vita. È l'insegnamento del Romagnosi degli ultimi anni, l'insegnamento, più che delle sue teoriche, della sua molteplice operosità di interprete e di critico dei fatti e delle idee del giorno, fossero il commercio delle sete o il sansimonismo francese o il pauperismo britannico. Certamente il Cattaneo pubblicista dei primi tempi è su questa via; la sua collaborazione, spesso anonima, nei romagnosiani «Annali universali di statistica» prosegue quella del Romagnosi; ed anche dopo la morte di lui, talora, certe notizie, recensioni, appunti si direbbero, se non della stessa penna, non di diversa mente; e così ancora nella prima serie del suo «Politecnico», che fin nel titolo manifesta l'ufficio civile, al servizio delle scienze applicate, che il Cattaneo intendeva attribuirsi e imporsi con la sua varia pubblicistica. Ma lo stesso potrebbe dirsi dei due Sacchi, anch'essi validissimi continuatori del Romagnosi nel periodico del Lampato. Occorre dunque segnare anche i limiti di questa continuità; e sono limiti molto forti e toccano quello che è stato detto, a ragione, il positivismo di Cattaneo, il suo pensiero politico nazionale, il suo pensiero storico. I residui metafisici, ancora molto forti in Romagnosi, sono superati. È da dubitare che il Romagnosi, se fosse stato ancora vivo, potesse approvare proposizioni del suo Cattaneo, come queste, del '44: «Vano è dunque e prepostero affatto e di funesto esempio alla gioventù il proposito, in cui certe menti persistono, di costruire a priori una scienza terrena e inalterabile, che preceda alle altre tutte e le ordini e le tenga quasi nelle materne sue fascie. La filosofia è scienza di riassunto, di connessione, di sintesi; essa può ben elaborare le dottrine mature, ma non assegnar posto a scienze non nate». Queste critiche prendevano di mira soprattutto Rosmini, gli ontologi che «vanno a disseppellire le insolubili controversie su l'essenza e l'esistenza, su la certezza della cognizione e il vero primo», ma non colpivano un poco anche i principi universali, giusnaturalistici del suo Romagnosi? «Il più eccelso sforzo» continuava «a cui possa nel corso dei secoli aspirare l'intelligenza, non è già quello di trarre dal suo seno qualche originale e mirabile idea, ma bensì quello di ripetere e compendiare in sé la sincera immagine dell'universo.» Quindi non ambizioni di teorie generalizzanti, ma umile attaccamento al fatto concreto, positivo, benché poi, continuando, sembri contraddirsi ammettendo che «i minimi frammenti di verità convergeranno sempre fra loro, perché coordinati schiettamente a quell'universo che move da una sola idea». Inoltre su un altro punto Cattaneo si viene staccando dal suo maestro. Romagnosi, che pur aveva insegnato che l'incivilimento è dativo e non nativo, cioè che nasce dal contatto fra popoli e civiltà diverse, nei suoi ultimi anni specialmente aveva cominciato ad indulgere a un certo nazionalismo letterario, a parlare di scuola italiana minacciata nella purezza delle sue tradizioni dalle scuole forestiere, soprattutto dall'idealismo tedesco. Il Cattaneo, negli anni avanti il '48, rompe queste angustie: «Noi abbiamo per fermo» scriveva nel '39 «che l'Italia debba tenersi soprattutto all'unisono coll'Europa, e non accarezzare altro nazional sentimento che quello di serbare un nobil posto nell'associazione scientifica dell'Europa e del mondo. I popoli debbono farsi continuo specchio fra loro, perché gli interessi della civiltà sono solidari e comuni; perché la scienza è una, l'arte è una, la gloria è una. La nazione degli uomini studiosi è una sola: è la nazione d'Omero e di Dante, di Galileo e di Bacone, di Volta e di Linneo, e di tutti quelli che seguono i loro esempi immortali; è la nazione delle intelligenze, che abita tutti i climi e parla tutte le lingue . . . Ogni idea vera e buona, da qualunque paese, da qualunque lingua ci arrivi, sia nostra, e immantinente, e come se fosse germinata sul nostro terreno». E non esitava a riconoscere che le letterature francese, inglese e tedesca erano «molto innanzi alla nostra, la quale, senza la seducente alleanza del canto, parrebbe quasi già morta, e sarebbe obliata da quei popoli che camminano col secolo, e col secolo sono intraprendenti e poderosi». Questo, spenti da poco Foscolo e Leopardi, vivente Manzoni.
Ma il punto più notevole di distacco da Romagnosi è nella visione storica e nella attività storiografica. Francesco de Sanctis ha parlato di una scuola storica italiana da Machiavelli a Romagnosi; ci sono riflessioni del Romagnosi sulla storia, c'è un suo schema dell'incivilimento con esemplificazione della storia italiana; ci sono note romagnosiane al Robertson di natura filologica, etnologica, sociologica; ma un'opera veramente storica di Romagnosi non c'è e tanto meno una sua scuola storica. In fatto di storia ben poco il Cattaneo deve al Romagnosi: forse, ma non è idea soltanto romagnosiana, l'idea, più volte ricorrente negli scritti storici di Cattaneo, di un'età delle potenti caste sacerdotali, tramiti necessari dell'incivilimento. Ma il più gli viene dai suoi liberi studi linguistici, dagli Schlegel e dal goettinghiano Heeren, dai romantici francesi, Thierry soprattutto, da Guizot, da Sismondi; ma più che tutto dal suo fortissimo, personale senso del reale e dell'incessante trascorrere del reale in altre forme nuove, il senso cioè della vita in atto, come della natura così degli uomini e delle loro società. È questo senso del moto vitale che vibra in tutte le pagine storiche e anche non specificamente storiche del Cattaneo, quello che anima il suo stile e che lo pone in così netto contrasto con lo stile lento e stagnante di Romagnosi. Qui, come sempre, lo stile non viene da diversa educazione ed abilità letteraria, ma da un diverso modo di porsi di fronte alle cose e di sentirle. Non c'è nulla di romagnosiano nella Conquista d'Inghilterra pei Normanni, in Della milizia antica e moderna, in Dell'evo antico, in Della Sardegna antica e moderna, in Sul principio istorico delle lingue europee, in Di alcuni stati moderni, nelle Notizie naturali e civili su la Lombardia, negli scritti sulla Città e sul Terzo Stato o sul Messico antico, sull'India antica e moderna, sulla Cina, sul Giappone; se mai, una certa predilezione per le storie o preistorie dei popoli nelle loro fasi più antiche, nei loro primi passi faticosi sul cammino della civiltà e per forme dissuete di civiltà, morte o moribonde, lontane dalla civiltà europea; nel che può celarsi un poco degli interessi sociologici alla Romagnosi. E si sa che la sociologia, più che non la storia, è riconducibile al criterio dell'utile, del pratico, sempre presente allo spirito di Cattaneo. «Ogni scienza più speculativa» affermava nel '39 preludiando al «Politecnico» «deve tosto o tardi anche da' suoi più aridi rami produrre qualche inaspettato frutto all'umana società». E spiegava l'anno dopo: «Abbiamo promosso le questioni istoriche, e anzi tutte quelle che riguardano l'origine e il corso dell'incivilimento. Le quali, mostrando come le varie nazioni in vari modi abbiano tutte cospirato a quest'opera meravigliosa anche allora che sembravano più ardenti a combattersi, mirano a temperare la memoria degli odi aviti e fomentare in quella vece un'equa e dignitosa emulazione. E soprattutto giovano a infondere il convincimento che la forza stessa e la potenza tengono dietro al predominio dell'intelletto; e che la debolezza, la viltà, la schiavitù non sono se non forme ultime dell'ignoranza o punizione di quei popoli che perversamente sagaci disprezzarono i diritti della ragione». La storia adunque ricondotta al criterio dell'utile non in quanto, come storia razionale, al modo di Romagnosi, presegni le vie dell'incivilimento; ma la storia in funzione educativa e morale, in quanto metta sotto gli occhi la potenza dell'intelletto come forza civilizzatrice (è il concetto che in più tardi anni il Cattaneo trasferirà all'economia, in Del pensiero come principio d'economia pubblica) e componga in unità come cospirante verso un fine arcano di progresso ciò che appare al primo sguardo incoerente e in perpetuo, irragionevole antagonismo. «Oggidì noi vediamo nell'ambizione di Cesare e nelle ingiustizie di Richelieu un'occasione che sgombra il campo all'equità civile e sospinge le plebi serve e stupide ad una vita d'intelligenza e d'onor civile. E in Catone, fra lo splendore della privata virtù, vediamo un ostacolo al corso dei tempi, una forza che tarda la maturità del genere umano; epperò possiamo sentenziare di Cesare e di Catone ben altrimenti che non fecero Plutarco e Lucano. Vediamo come la grandezza di Roma diede all'occidente la consonanza delle lingue, l'ordine comune della famiglia, l'unità dell'incivilimento e dell'opinione. E sappiamo pure come la sua caduta lasciò campo al libero germoglio della semente da lei sparsa; sicché potessero sorgere in Europa quelle nazioni indipendenti e armate, che senza mutua servitù costituiscono un'unità comune»; è rivalutato, cioè, anche quel medio evo che per tutti i costruttori di uno sviluppo progressivo della civiltà, siano essi Herder e anche Romagnosi (non naturalmente per Bossuet), ha rappresentato una difficoltà non sempre felicemente risolta. Ma l'ufficio utile, pratico della storia si manifesta, secondo Cattaneo, anche in altro senso, che veramente richiama molto la vecchia magistra vitae; e a quelli che la ritengono uno «sterile vaniloquio, diremo . . . che lo studio dell'istoria, ossia del passato dei popoli, è lo studio di quelle disposizioni e preparazioni su le quali deve innestarsi il futuro. Quindi in siffatte indagini deve cercar lume chi desidera avviate a miglior vivere le nazioni». Ovvio, dopo quello che si è detto, che per Cattaneo la storia non può essere opus oratorium maxime, arte, cioè, come per un Botta, e intesa soprattutto alla mozione degli affetti, come per un Colletta, per ricordare due celebrati storici suoi contemporanei, ma deve essere scienza; è in questo suo, almeno tendenziale carattere scientifico, la garanzia della sua utilità. «Quando su l'immortale esempio di Vico, discopritore della nuova scienza, i minori ingegni avranno dato opera a dicifrare le altre particolari formule nelle istorie dei popoli progressivi, e delli stanziali e dei retrogradi, allora, nel riassunto delle conclusioni, avremo frutto esperimentale e verace d'una scienza, alla quale non si può pervenire per la via delle arbitrarie preconcezioni e del metafisico romanzo» affermava in uno scritto del '46 riportato in questo volume. E infatti aspirazione di scienza è visibile più o meno in tutti i suoi scritti storici; meno che in altri nella Conquista d'Inghilterra, in cui più si abbandona all'estro di raccontare, benché anche qui lo animi un problema «esperimentale» che gli è quanto mai caro e che circola in tanti suoi scritti, il problema del formarsi di una nazione dal confluire e intrecciarsi di elementi molto diversi, pur sulla base di un sostrato che è qualche cosa di primigenio e insopprimibile; idea originale del Cattaneo, che egli genialmente conserta con le sue vedute linguistiche, delle quali è forse superfluo ricordare l'altissimo conto che ne faceva un linguista professionale della forza e della penetrazione di G. I. Ascoli. Questo sforzo di scientificità è particolarmente visibile nei quadri e quadretti storici dedicati a regioni italiane, Lombardia, Sardegna (l'ambizione sua sarebbe stata di continuare anche per altre) o a paesi lontani, con strane forme di civiltà, India, Cina, Giappone, Messico. Sono tutti costruiti secondo uno schema comune: una descrizione fisico-geografica, dalla quale si trapassa quasi insensibilmente alla storia degli uomini, non perché il Cattaneo aderisca alla idea un po' semplicistica (l'ha smentita energicamente egli stesso) che vuole vedere «il corso delle istorie . . . prendere immantinenti forma dalle qualità naturali dei paesi», ma perché la natura fisica gli offre l'occasione di mostrare, anzi, come la volontà e l'intelligenza degli uomini sappia, nella forma più varia, reagire a quei dati naturali, costruendo su di essi, or favoriti ora contrastati, una propria civiltà. Questo trascorrere continuo dal mondo fisico al mondo umano e dal mondo umano al mondo fisico, animando uno e l'altro di un soffio potente, si direbbe, di vitalismo pannaturalistico, dà anche agli scritti specificamente di scienza naturale uno slancio e un calore inconfondibili, come nello scritto meno noto, letterariamente potente, su Le rivoluzioni del mare. Si veda come nelle giustamente celebrate Notizie naturali e civili su la Lombardia natura e storia palpitino sotto la penna del Cattaneo; si veda al confronto come lo stesso tema languisca esangue e torpido quando lo tratti un Cesare Cantù, che pur si diceva ed era anche lui discepolo del Romagnosi, e che trattò infatti quel tema, nella stessa occasione e nello stesso anno del Cattaneo nel volume pur esso miscellaneo Milano e il suo territorio.
In questi giri d'idee e di attività si svolse la vita del Cattaneo, soprattutto dal '35, che è l'anno della morte di Romagnosi e anche l'anno in cui Cattaneo, lasciato l'insegnamento ginnasiale, può darsi tutto alla pubblicistica, prima prendendo il posto del Romagnosi negli «Annali universali di statistica», poi nel suo «Politecnico», quindi, cessato questo, nella «Rivista europea», nella Società d'incoraggiamento d'arti e mestieri, nell'Istituto lombardo di scienze, lettere ed arti. Ma venne il '48 e fu una scossa potente anche per lui, per il giro consueto dei suoi pensieri, per le sue abitudini di vita. Fino allora il Cattaneo, per sua confessione, non era stato un politico militante, non aveva appartenuto a circoli, conventicole, sette né aveva simpatizzato con essi. Storico, squisitamente storico qual era, non poteva nemmeno essere chiuso alla politica e ai suoi problemi attuali, questo è ovvio. Ma non ne aveva scritto e non solo né principalmente perché censura e polizia avrebbero provveduto subito a togliergliene la voglia. Non ne scriveva, né cospirava per una ragione analoga a quella per cui non scriveva romanzi e poesie, ma di aride cose positive, di agraria, di ingegneria ferroviaria, di fisica, di chimica, di economia, di statistica. Qui interveniva il criterio del positivo, del pratico, dell'utile, che è sempre così dominante nel pensare e nell'agire del Cattaneo. Una politica senza possibilità di realizzazione pratica, chiusa nella sfera del pensiero e della propaganda e dei vani conati cospiratori gli sembrava una fantasia, anche sotto specie di educazione. Pur così vicino al Mazzini - come è stato giustamente osservato dal Levi - come tempra morale, il Cattaneo gli era lontanissimo nella valutazione dei dati politici, che il Mazzini trasfigurava con la sua fede fermissima nel trionfo fatale della libertà umana e della indipendenza e unità nazionale di tutti i popoli e che il Cattaneo invece riconduceva ai loro reali connotati e proporzioni; che il Mazzini voleva piegare anche con il sacrificio cruento e apparentemente vano, ma seme fecondo di avvenire, e che per il Cattaneo era spreco inutile di giovani vite generose. La sua politica, la sua opera di educazione politica era quella che scendeva e si esplicava nella sua attività di pubblicista come critico, moderatore, consigliere su problemi ben circoscritti e ben concreti della vita associata nella sua Lombardia, astenendosi dalla formulazione, che era poi per lui vagheggiamento della fantasia, di vasti piani di palingenesi nazionale, che a nessuno, nella situazione di fatto esistente, era dato di poter realizzare. Ciò che si poteva e si doveva fare era, attraverso la soluzione di quei problemi concreti, portare la Lombardia, l'Italia al passo con la generale civiltà europea, porla al livello delle altre grandi nazioni moderne; e ciò non era impossibile nemmeno nel quadro dell'impero asburgico, che era quello che era, ma sostenuto dalla solidarietà delle grandi potenze, e nel quale il Cattaneo non era alieno dall'apprezzare certi aspetti moderni della struttura amministrativa al confronto con quelli di altri stati italiani, sopravalutandone probabilmente il significato (e di ciò pare abbia avuto, dopo il '48, consapevolezza). E poi? Come si sarebbe congegnata questa Italia o questa Italia parziale, rigenerata attraverso la soluzione dei suoi problemi concreti, nel quadro dell'Europa moderna? in un quadro confederale con l'Austria, senza l'Austria? Non si può negare che tutto ciò eludeva il problema politico italiano, quale era sentito e posto dagli impazienti, dagli idealisti, dai romantici, dai generosi, fossero o non fossero i più, poco importa: tutto prosa, troppa prosa, punta o poca poesia. È vero che c'erano state le amnistie, l'avvento e l'incoronazione del deficiente Ferdinando I; che qualche illusione poteva essere nata almeno di una maggiore, effettiva autonomia del regno lombardo-veneto: il «Politecnico» era nato in questo clima e grazie a questo clima. Ma anche in un ambiente come quello di Milano, volto al concreto, al positivo, ai traffici, all'industria, alla banca, è da dubitare che si debba prendere alla lettera ciò che scriveva un tale al Cattaneo piuttosto enfaticamente (l'enfasi faceva parte del suo mestiere; chi scriveva era Gustavo Modena) nel '50: «Voi siete la chioccia che ha covato tutti i Milanesi giovani e buoni». Si capisce che il giudizio viene dopo le barricate, dopo il Comitato di guerra; che i «giovani e buoni» sono i repubblicani antifusionisti; che il giudizio, in questo caso poco storico, vede arbitrariamente tutti schierati attorno a Cattaneo quei giovani, i quali, di fatto, ne riconobbero la figura di capo, improvvisato, solo a rivoluzione aperta; molti di quei giovani, anche dei più animosi, si sa positivamente che non conoscevano prima del 18 marzo il Cattaneo nemmeno «di saluto». Fu la rivoluzione del '48 che rivelò il Cattaneo anche a se stesso, in certe qualità di politico d'azione fino allora insospettate e negate da lui stesso, anche più tardi, e che pure aveva; che fece di lui un democratico, un repubblicano, un federalista. Nel silenzio politico del Cattaneo avanti il '48, non è possibile dire che cosa egli pensasse in fatto di democrazia, se condividesse la sfiducia del suo maestro Romagnosi verso le classi popolari in quanto a capacità politica di autogovernarsi, prede di sentimenti istintivi, irrazionali e però lontane dal potere agire nella storia col dominio dell'intelligenza, postulato cattaneano già ricordato. Ma da altre pagine sue è lecito trarre indizi che egli nemmeno simpatizzasse verso i dandies, per lo più aristocratici o orbitanti attorno agli aristocratici, fra i quali si reclutavano per lo più i tipi alla Rosales, gli impazienti d'avanguardia. Da solido borghese ambrosiano non faceva molta stima di questi perdigiorno titolati. Tuttavia nulla di giacobineggiante, pare, in questo suo, più che altro, sentimento. Le Cinque Giornate gli rivelarono il «popolo», energie insospettate in quella folla anonima di piccoli bottegai, di piccoli artigiani, di manovali, di carrettieri, di cuochi, perfino di servitori di casata. È stato il Cattaneo per primo a tentare una statistica dei caduti delle Cinque Giornate, distribuiti secondo la professione e quindi la categoria sociale, per mettere in rilievo la parte predominante avuta dalle classi popolari in quel magnanimo moto insurrezionale; e principalmente per questa rivelazione, e non soltanto per un sentimento di onore e di dignità nazionale e ambrosiana si spiega la sua febbrile attività per rianimare la lotta contro gli austriaci ritornanti ai primi di agosto del '48, nella ferma persuasione che il «miracolo popolare» delle giornate di marzo potesse ripetersi anche ora, e con successo, non fossero stati i tradimenti del re e del suo contorno di generali ignoranti e di patrizi milanesi in livrea di servitori. Portato dagli avvenimenti a dover assumere un coerente programma politico, il Cattaneo si rivelò subito nel '48 repubblicano e federalista. Difficile dire se quei pensieri covassero già in lui in forma ben determinata; probabilmente no, per la stessa ragione per cui fino allora non aveva fatto della politica militante, come inattuale e irrealizzabile. O al più, rispetto al federalismo, erano posizioni del tutto astratte, postulanti il federalismo quale presupposto necessario di libertà democratiche, altrimenti insidiate dal cesarismo. Ma dal momento che l'insurrezione milanese, episodio della rivoluzione europea, aveva smosso le acque stagnanti, cultura storica e senso acuto della realtà politica portavano il Cattaneo ad essere insieme repubblicano e federalista. La storia italiana, affermava il Cattaneo un po' troppo generalizzando, non conosceva che tradizioni repubblicane, solo in tempi più recenti, e di decadenza nazionale, sostituite da fittizie istituzioni monarchiche; e a parte le tradizioni, la realtà attuale della situazione italiana gli faceva apparire come incompatibili i principati, specie del tipo italiano, andanti da un principe teocratico supernazionale a principi bigotti e retrivi, con le libertà politiche moderne. E la storia italiana era la storia di città, di municipi, di organismi con profonde, radicate ragioni di vita autonoma, non un corpo unitario fatto tale dall'opera accentrante di una monarchia (in tal senso, come insegnamento della storia, il saggio, posteriore di un decennio, su La città considerata come principio ideale delle istorie italiane, si può considerare come la giustificazione, in sede storica, del federalismo politico cattaneano, alla vigilia di quella guerra del '59 che doveva significare, allora come allora, la smentita dei fatti alla ideologia politica del Cattaneo); ed oltre la storia, la realtà politica italiana nel '48 mostrava un'Italia divisa in un certo numero di organismi statali, ognuno con sue proprie tradizioni, in gradi diversi di sviluppo economico e sociale, con differenze profonde di strutture amministrative e di abitudini mentali, tutte diversità che spesso meritavano di non perire in una generica unità, ma di svilupparsi autonomamente: tutto ciò portava Cattaneo a concludere che non si doveva andare oltre le forme del federalismo. Ma in lui, a questi motivi intellettuali, si aggiungeva, fortissimo, e non si saprebbe dire quanto consapevole, un motivo sentimentale, passionale: il suo milanesismo. Egli era fermamente persuaso che Milano fosse, in Italia, all'avanguardia della civiltà moderna, che da secoli, dal tempo dei Celti, tranne qualche periodo di momentaneo oscuramento, avesse sempre avuto una funzione di primato e di guida, fino al recente dominio napoleonico. Le Notizie naturali e civili su la Lombardia sono, se pur rapsodicamente, un inno a questa funzione storica di Milano. Da cui il Cattaneo non deduceva un diritto storico e civile di Milano e della Lombardia su altre terre italiane; ma il suo milanesismo si ribellava furiosamente anche alla sola idea che Milano potesse sottostare a Torino, alla Torino dei re sabaudi, dei gesuiti, dei militari ignoranti, dei codici arretrati. È un motivo che ha una vigorosa espressione in alcune pagine, e che in molte altre è sottinteso, della Insurrezione di Milano nel 1848. Ma di questo pamphlet così vivacissimamente polemico, così diritto e incisivo nel colpire i bersagli politici, così attuale anche dopo un secolo, ora che si sono riaperti problemi e ripresentate alternative a cui sembrava che la storia avesse data risposta definitiva, si è già parlato implicitamente, per quanto ne attinge le idee direttive, discorrendo dei punti fondamentali dell'ideologia politica cattaneana. Basterà dire che nella nutrita pubblicistica del tempo, non c'è altro scritto che gli si avvicini per vis polemica, per acutezza e nitidezza della visione politica, per nervosità di stile.
Nel '48 nasceva la biografia politica del Cattaneo, della quale non vogliamo qui occuparci; e nel '48 si concludeva, sostanzialmente, la sua biografia intellettuale, non, certamente, nel senso che la sua vena intellettuale si fosse esaurita, ma sì nel senso che le linee essenziali del suo pensiero sono già formate, onde la sua ulteriore produzione letteraria si muove su motivi già noti, anche se variamente sviluppati, ché il Cattaneo non è scrittore che ami ripetersi, a differenza dal Romagnosi, che non disdegna di intarsiare le sue opere con pezzi di ampiezza anche considerevole tratti da altri scritti, non certo per pigrizia mentale, ma quasi a dimostrazione dell'ispirazione unitaria che domina tutta la sua opera.
Non che, nel decennio fra '49 e '59, il Cattaneo non continui, in diversa situazione politica, quella sua attività pubblicistica, volta al concreto e all'utile sociale: solo che, data la sua posizione di esule e poi anche di cittadino del Canton Ticino, la sua partecipazione alla vita civile della Lombardia può essere solo indiretta ed esplicarsi attraverso articoli nel milanese «Crepuscolo» o nella torinese «Rivista contemporanea», dedicati soprattutto, anche se non esclusivamente, a temi letterari e storici, nei quali tuttavia, come nei saggi sulla Città o sul Terzo Stato, sapendo leggere fra i righi, è pur dato di rinvenire il suo insegnamento civile. La sua posizione, come, del resto, anche quella di Giuseppe Ferrari, è singolare dopo il '49: mentre tanto per i moderati quanto per i democratici unitari quel decennio fu tempo di riflessione e di resipiscenza, perché gli uni e gli altri, in diverso modo, avevano avuto la possibilità di esperimentare e saggiare la validità del loro bagaglio ideologico alla prova dei fatti, questa possibilità era mancata assolutamente ai repubblicani federalisti, onde essi potevano o avrebbero potuto abbandonarsi all'acre e dubbio piacere di atteggiarsi a profeti inascoltati, che avevano avuto ragione. Si farebbe torto all'alta figura morale di Cattaneo, se lo si ritenesse contagiato da simili meschinità; tuttavia, non si può negare che, se la Insurrezione di Milano nel 1848 e più distesamente e documentariamente l'Archivio triennale delle cose d'Italia con le sue Considerazioni sono, innanzi tutto, una appassionata messa a punto dei fatti contro le insinuazioni e le aperte calunnie lanciate contro Cattaneo e i suoi (ma i tempi erano pieni di sospetti velenosi, e Cattaneo stesso, nella famosa riunione del 30 aprile 1848, si lasciò andare a una ingiusta, infame insinuazione contro Mazzini), questi scritti non tacevano quello che, a mente di Cattaneo, si sarebbe dovuto fare e non si era fatto. In questo decennio, che per il Cattaneo non si può dire, come si suol dire, di preparazione, perché ciò ha un senso solo in riferimento all'opera cavouriana di diplomatizzazione del problema italiano e all'orientarsi di una larga parte dell'opinione pubblica verso quell'opera, il Cattaneo si viene sempre più attaccando alla nuova piccola patria ticinese, che gli ha offerto ospitalità e tranquillo lavoro e nella quale egli vede attuati, come in un microcosmo, i suoi pensieri di federalismo repubblicano; ed a questa piccola patria, nel romito rifugio di Castagnola, che egli, milanesissimo, finirà col non abbandonare più, nemmeno quando gli si riapriranno le porte di Milano, dedicherà nel decennio le energie migliori della sua opera civile, con l'insegnamento, con gli scritti sui problemi locali delle bonifiche, delle ferrovie, dell'educazione civica e militare, sulla politica locale, angusta nei limiti spaziali, ma non in quelli ideali, perché vi si combatte ancora, aspramente, fra clericalismo conservatore e liberalismo radicale progressivo. Ma il giro dei suoi pensieri è quello che già conosciamo e non muta sostanzialmente, come non muterà sostanzialmente nel decennio successivo, '59-69, che sarà l'ultimo di vita del Cattaneo. Si ha l'impressione, attraverso gli scritti, e più ancora attraverso l'epistolario, che anche per lui, come per tanti dei contemporanei, gli avvenimenti politici del triennio '59-61, prendessero uno sviluppo e un ritmo, che nemmeno la sua alta intelligenza riesce sempre a dominare e comprendere nell'incessante mutare delle situazioni. Cade qui, dopo le poche gloriose giornate milanesi del Comitato di guerra, il secondo e ultimo episodio di politica attiva: quel mese scarso di missione a Napoli, presso Garibaldi dittatore, come consigliere, suggeritore, moderatore; apparentemente, ma solo apparentemente, nelle migliori situazioni per agire, per saggiare la validità delle sue idee alla prova dei fatti. Nella realtà ben poco poté fare. Gli si apriva laggiù, a Napoli, un'Italia a lui ignota, ben diversa da quell'Italia solo librescamente conosciuta e che pur gli aveva fatto scrivere, per potenza d'ingegno storico e realistico, pagine così intuitivamente vere sulla Sardegna, mai da lui conosciuta de visu. Si sentiva fremere d'attorno quella che egli considerava la frenesia dell'unità, nella quale subodorava l'ambizione alla forza, anzi alla prepotenza nazionale, prima che alla libertà; e ne provava un disgusto per la politica in atto, che non era il dispetto del deluso sconfitto nelle sue idee, ma il disgusto dell'uomo morale per i compromessi, i sotterfugi, le menzogne, i mercimoni che la politica comporta; un disgusto che gli faceva anelare la quiete della sua Castagnola e che lo rendeva perfino poco sensibile agli incanti naturali del golfo di Napoli; quel disgusto, male interpretato come orgoglioso disdegno, che, eletto più volte deputato controvoglia e più che altro per non disertare la battaglia contro l'avversario sostenuto dal governo, non gli permise mai di vincere la repugnanza a passare le soglie del parlamento, né a Torino né a Firenze. Anche il risorto «Politecnico», dopo un po' di tempo, non è più per lui quella libera personalissima palestra che, sembra un paradosso, era pur stata nella prima serie, per quanto invigilata dalla occhiuta e melensa censura austriaca; dopo una lunga diatriba con l'editore Daelli, se ne distaccherà del tutto, non senza avervi prima agitato problemi non nuovi per lui, ma che ora, nella mutata situazione politica nazionale, si presentavano alla sua mente con nuova insistenza: i problemi della pubblica istruzione, della preparazione ed educazione militare della gioventù, dei confini italiani; e qualche apertura sul problema sociale. Forse, non tutte le osservazioni e soluzioni del Cattaneo in proposito si inseriscono in un pensiero unitario: l'ideale di nazione armata, se lo richiamava all'esempio domestico della Svizzera, dove era presidio delle libertà politiche, e alla fede, conquistata nella giornate milanesi, nelle energie latenti nelle classi popolari, d'altra parte evocava, nell'Italia come si era costituita, il fantasma della forza militare nazionale unitaria, che egli vedeva non conciliabile, anzi pericolosa per le libertà politiche; e ancor più evocava quel fantasma il suo pensiero su i confini nazionali in Nizza, Savoia, Trentino, Istria, Dalmazia, dove spesso l'argomento strategico sembra prevalere su ogni altro; e sul punto della questione sociale il suo liberismo economico ad oltranza, dimostrato già nel '43 con lo scritto Dell' economia nazionale di Federico List, lo tiene cauto, in posizioni arretrate, rispetto allo stesso solidarismo mazziniano. È strano che Cattaneo, il quale pur ebbe l'intuizione di tanti sviluppi del mondo moderno, non presentisse l'importanza capitale dei problemi del lavoro e delle classi operaie. Ma presentì, anche avanti il '71, l'Europa dell'imperialismo e del colonialismo, onde quel suo vibrante appello alla forza militare, e sia pure in funzione difensiva; sicché il suo ideale federalistico esteso fino al sogno di Stati Uniti d'Europa, per il quale è stato forse un tantino troppo celebrato, sembra avere, nell'insieme del suo pensiero, un significato e un valore un poco occasionale e marginale, lontano da quella realtà concreta a cui va l'amoroso studio del Cattaneo.
Dunque, qualche disarmonia nel pensiero dell'ultimo Cattaneo. Eppure è la stagione della sua vita in cui egli ambisce alla organicità speculativa del suo pensiero. Romagnosi, che mente speculativa, teoricizzante era davvero e anche troppo, era partito dalle idee generali, dai presupposti primi di ogni scienza per sfociare solo da vecchio nello studio dei fatti particolari, quasi a esemplificazione di quei principi sovrani. Cattaneo era partito dalle cose e soltanto ora, negli anni tardi, giungeva, egli che aveva mente essenzialmente di storico e non di filosofo, alle astrazioni, sia pure positivistiche, ma sempre astrazioni, del sistema. Qualche cosa, invero, aveva dato anche in anni precedenti, non foss'altro anche in rapporto con la sua attività di professore di filosofia nel liceo cantonale di Lugano; ma ora, nelle varie comunicazioni accademiche all'Istituto lombardo comprese sotto il titolo di Psicologia delle menti associate, l'aspirazione alla organicità sistematica, quasi trattatistica, è più scoperta. Scritti, certo, profondamente meditati, interessanti per chi si diletti di collocare il Cattaneo in questa o quella sezione del positivismo europeo, ma che al comune lettore dicono assai meno del positivista istintivo, empirico quale si rivela il Cattaneo storico, naturalista, geografo, antropologo, etnologo, economista. È in questa sorta di filosofia applicata, immediatamente applicata alle cose, sì da parere, senza attardamenti speculativi, ma anche senza banalità, la voce dell'evidenza stessa, in questa sua prestigiosa facoltà di trasfondere d'incanto il suo vedere, sentire, pensare nel vedere, sentire, pensare di chi legge, in quel suo andare diritto alle cose, senza indugiare negli ameni ma oziosi viottoli di una lunga tradizione retorica, in quel suo richiamare alla vita di significati nuovi, dissueti e incisivi tante umili parole logore della vita quotidiana, è in tutto questo la forza di Cattaneo come scrittore e anche la sua modernità. La quale è anche, e principalmente, modernità di problemi. Quest'uomo che poco viaggiò, che una sola volta si spinse per qualche settimana a Parigi, che non vide mai, per quanto si sa, l'Inghilterra, ebbe un intuito straordinario dell'Europa moderna, dei suoi problemi attuali e d'avvenire, dei suoi sviluppi politici, morali, economici (meno, si è visto, di quelli sociali), delle scoperte scientifiche e delle loro applicazioni. Se si dovesse compendiare il significato della sua opera di mezzo secolo si dovrebbe forse dire: ha lavorato quanto forse nessun altro, forse più e più in profondità di Cavour, per mettere, senza ridicole xenofilie, l'Italia al passo con l'Europa, per dare all'Italia anima e volto moderni.
Giuseppe Ferrari completa una triade oramai consacrata nella tradizione letteraria; ma non si saprebbe ben dire perché. Anche noi, in questo volume, le prestiamo ossequio. Ma vediamo che gli storici della filosofia classificano Romagnosi fra gli ideologi, più o meno tarati ereditariamente di sensismo settecentesco; Cattaneo fra i positivisti; Ferrari fra gli scettici. Già questo mette in sospetto. Non basta avere vissuto qualche anno presso Romagnosi (pochi, invero; già l'età, nato nell'11, lo impediva al Ferrari) per dirsi senz'altro suo discepolo, se non in senso estrinseco; non basta avere scritto una biografia intellettuale di Romagnosi, per esserne anche seguace nelle idee, salve altre maggiori prove. Non basta avere avuto una certa consonanza di idee politiche col Cattaneo, non sempre coincidenti tuttavia, e anche se coincidendo quasi mai per le stesse ragioni, per fare coppia con Cattaneo anche al di fuori del pensiero e dell'azione politica. In realtà, Ferrari non ha nella cultura italiana né chi lo preceda e prepari né chi lo prosegua. Reminiscenze lontane, Machiavelli, Bruno, Campanella, Vico, questo sì; ma tutto mescolato bizzarramente con altre reminiscenze, con l'eclettismo di Cousin, con un hegelismo mal compreso e mal digerito e con mille altre esperienze filosofiche lontane e recenti e contemporanee, di tutte le latitudini, ma specialmente della latitudine francese. Quanto a cultura filosofica ed anche storica, per quanto incondite, pochi gli stanno a pari fra i contemporanei italiani; ma per quanto egli si qualificasse da sé filosofo, del filosofo egli non ha veramente l'abito critico, cioè non lo esercita su se stesso. Egli procede per improvvise illuminazioni, per sconvolgenti associazioni di idee, franco e sicuro, fra bagliori che rompono le tenebre, senza un pentimento, senza una sosta meditativa, senza una esitazione dubitativa; un procedere quanto mai lontano dal faticoso e cauto argomentare di Romagnosi, dal modo cattaneano di vedere le cose con occhio scientifico, limpido e sicuro, e di presentarle nella nitida chiarezza dei loro tratti essenziali. Per altro verso e in certo senso, nessuno più filosofo di Ferrari, che in tutta la sua vita non fece altro che fabbricar ed esporre idee, che non ebbe una famiglia né, in genere, forti legami affettivi, umani, che anche coprendo pubblici uffici, insegnante universitario o deputato, in fondo rimase estraneo ad ogni attività pratica, ma solo attese anche in quegli uffici a fabbricare e ad esporre idee, sicché si può dire che egli fu tutto in quel suo cervello fumoso, un poco da invasato, in cui i pensieri mulinavano in moto continuo, gli facevano groppo alla gola, esplodevano in un'oratoria concitata e precipitosa, personalissima, con l'irruenza di un fiume in piena che rompe le dighe. Insomma, nel campionario cosi variato della specie uomo, un esemplare singolarissimo, prima ancora sotto l'aspetto psicologico che sotto quello intellettuale. Un uomo siffatto non è, naturalmente, il prodotto di una scuola, che presuppone un metodo, una disciplina, riflette tuttavia una cultura di cui esaspera i motivi fino al paradosso; in questo caso, la cultura di avanguardia, accademica e pubblicistica insieme, della Francia della monarchia di luglio, della effimera seconda repubblica e dei primi tempi del secondo Impero, nella quale visse, esule volontario senza troppe preoccupazioni pecuniarie, facendo parte per se stesso, per più di vent'anni. Attaccato a quel suo mondo tumultuario di idee, che sono la sua vita e la sua ragione di vita, le porta e le sbandiera, ma senza tracotanza o alterigia, e soprattutto senza un'ombra di proselitismo; non è nemmeno pensabile di vedere Ferrari capo-scuola o capo partito, e non solo per l'indole, spratica, dell'uomo e per la nebulosità, in certo senso, aristocratica delle sue idee, ma perché Ferrari, propriamente, non vuole mutare il mondo (e in ciò non è da vedere, veramente nesso con il suo scetticismo gnoseologico), ma giudicare con spirito libero il mondo. Anche nella sua quasi trilustre attività parlamentare, fra il '60 e il '76, i più importanti fra i suoi numerosi interventi, nella questione dell'annessione di Nizza e Savoia, dell'annessione del Mezzogiorno, sul brigantaggio, per Aspromonte, per Mentana, ecc. ecc. non si inseriscono in determinate correnti della politica parlamentare, pur con un generico colorito di Sinistra, non si ispirano a tattiche di partiti, non mirano a rivolgimenti ministeriali di maggioranze e minoranze; quei suoi interventi esprimevano il suo libero giudizio di pensatore sui fatti politici, di rado delineavano e proponevano un diverso programma da realizzare; fra l'attenzione, che gli era sempre assicurata, dei colleghi deputati, un po' stupefatti e un po' divertiti, egli portava, secondo egli credeva, la voce, il giudizio della «Filosofia». E il suo compito finiva lì; e, cavaliere della Filosofia, aveva anch'egli un suo scudiero nella fedeltà dell'onorevole Michele Cavaleri, deputato di Gorgonzola, un capo originale anche lui; e quello era tutto il suo seguito politico, quando non si ingrossasse, con suo disdegno, di qualche sparuto rappresentante del clericalesimo nostalgico, in fortuita combutta col filosofo della rivoluzione nel negare l'ordine unitario. Come a un deputato di questa taglia il collegio elettorale potesse conservare quasi inalterata la sua fedeltà per tanto tempo, sarebbe un mistero per i nostri tempi di partitocrazia, ma è un po' meno un mistero per quei tempi innocenti di suffragio ristretto, ristrettissimo: qualche centinaio di voti, che onoravano in lui più la «Filosofia» che non il tutore degli interessi pratici del collegio.
Nell'esercitare questo suo ufficio di filosofo in un consesso così poco consentaneo quale un parlamento, il Ferrari si faceva mentore, anzi premonitore con qualche cosa di profetico, perché il suo interesse centrale nella filosofia, dopo gli interessi gnoseologici nei primi suoi scritti e le negazioni scettiche preludendo alla Filosofia della rivoluzione (1851), si fa sempre più spiegato per la filosofia della storia; e non si è coerente filosofo della storia senza una qualche vena profetica, senza, cioè, tentare di prolungare il concepito sviluppo storico oltre i termini temporali dell'attualità. È questa sua passione di filosofo della storia - in questo suo amore, associato o distinto, per la filosofia e la storia, egli è ben figlio dell'Ottocento - che lo porta dagli scritti giovanili sul Vico e dall'Essai sur le principe et les limites de la philosophie de l’histoire (1843), attraverso la Filosofia della rivoluzione, alle aberrazioni farneticanti della Teoria dei periodi politici (1874) e de L'aritmetica della storia (1875). Non che le sue idee sulla storia, sul suo processo, sul suo ritmo e sulle ragioni del suo svolgimento, siano idee sempre ben ferme e chiare; poco ma sicuro è che queste idee nulla hanno attinto da Romagnosi o da Cattaneo, ma certo hanno subito l'influenza dell'hegelismo, un hegelismo deformato dalla sua testa vulcanica, al quale egli muove critiche aspre in certe pagine della Filosofia della rivoluzione. Ridotte, per quanto possibile, al loro nocciolo, queste idee ferrariane vedono la storia condotta da grandi principi accoppiati, binari, in certo senso immanenti, conservazione e progresso, involuzione e rivoluzione, unità e varietà, Chiesa e Stato, proprietà e collettivismo, aristocrazia e democrazia ecc. ecc. fatalmente in lotta perpetua, senza che una sintesi li componga in un'armonia superiore, sia pure foriera di nuovi contrasti. Questa visione storica, una specie di manicheismo istorico senza la nozione di bene e di male, si combina nel Ferrari, attraverso riecheggiamenti fichtiani, schellinghiani ed hegeliani, con l'idea ottocentesca di nazione, per cui certi principi sono connaturati con lo spirito di certe nazioni; così il principio binario di conservazione e rivoluzione è lo spirito della storia francese; e quello universalistico di Chiesa ed Impero, di guelfìsmo e ghibellinismo, che è la stessa cosa, lo spirito della storia italiana; onde il Ferrari ne deduceva che l'iniziativa rivoluzionaria in Europa e anche in Italia era stata e sarebbe stata cosa francese, quale che fosse il momentaneo governo in Francia, fosse anche quello cesareo, dittatoriale dell'uomo del 2 dicembre, tanto era irresistibile la forza dei principi ; onde il Ferrari traeva le linee per il vasto quadro della sua Histoire des révolutions d'Italie ou Guelfes et Gibelins (1856-58), poi apparsa anche in edizione italiana (1870-72). Si inserisce anche quest'opera in quella vasta produzione della storiografia italiana ottocentesca che è stata detta «il romanzo della storia d'Italia», cioè intesa a rappresentare secondo una linea unitaria la storia della nazione italiana durante i secoli; ma laddove in quegli storici, fossero neoguelfi o neoghibellini, quella storia obbediva a ideali politici ben attuali, era veramente pensiero ed azione, nel Ferrari è solo pensiero, si subordina soltanto a quei sovrani, universali principi di Chiesa ed Impero; a rigore di termini non se ne potrebbe cavare nemmeno il federalismo politico di Ferrari, a differenza dalla Città del Cattaneo, nella quale quel pensiero politico è trasparente. L'opera non merita certo le esaltazioni di cui l'hanno onorata taluni, Oriani in primis (ma come saccheggiatore e deformatore di quell'opera le doveva almeno questo riconoscimento), e che ogni tanto tornano a scappar fuori; ma nemmeno è da buttar via come opera cervellotica, anche se in più di un punto per certa forzata sistematicità e per una quasi meccanica obbedienza alla tesi possa dare quell'impressione e faccia rimpiangere le sudate fatiche dell'autore nel leggersi tutti gli Scriptores del Muratori per non mancare una di quelle migliaia e migliaia di rivoluzioni e rivoluzioncelle, di cui il Ferrari ci ammannisce la precisa statistica. Nessun dubbio sulla sua originalità, e se vogliamo eccentricità; il che non significa ancora nulla; ma nessun dubbio, anche, che dietro a quel tripode fumigante, la pizia Ferrari ha, talora, visioni illuminanti, anche se spesso subito spente, e che, al di fuori dei suoi schemi, quel suo insistere sull'universalismo ecclesiastico coglie un motivo veramente importante della storia d'Italia, visto con occhio, certo, di ateo, quale si professava il Ferrari, e quindi in fondo d'indifferente, non di neoguelfo o di neoghibellino, per contrarie ragioni sognatori di una storia che non c'era mai stata.
Fra le opere del Ferrari di maggior impegno e di più vasto disegno la Filosofia della rivoluzione e le Rivoluzioni d'Italia rimangono le più significative, come documento di quella mente turbinosa e pur nutrita di studi severi, ma quella ancora attuale, sia pure sotto un modesto punto di vista strumentale, è il Corso sugli scrittori politici italiani (1862), corso di lezioni universitarie, singolare anche per il modo come il Ferrari, e tanti altri con lui, intendesse allora, ore rotundo, la lezione; ma opera proba, quasi trattatistica, non a tesi, onestamente espositiva delle idee politiche di un nugolo di scrittori, molti, anzi moltissimi tolti dal Ferrari per primo da un forse meritato oblio: opera-repertorio, in parte, che viene ancora consultata con profitto e che testimonia della capacità erudita del Ferrari, paradossale anche in questo. Ma più vivi, anzi, forse, i soli veramente vivi ancora, ci sembrano gli opuscoli politici che il Ferrari venne pubblicando, in francese o in italiano o poi pubblicati anche in italiano, alla vigilia del '48 e post res perditas fino al '52 e, infine, parallelamente alla sua vita parlamentare, fino quasi alla morte. Il Ferrari aveva spiccatissime doti di saggista, pieno di verve, di sortite impensate, di efficacia, anche se non di purezza stilistica, or di pungente ironia or di bonaria indulgenza. Libero dagli schemi della sua filosofia della storia, sciolto da tesi da dimostrare, poteva abbandonarsi al suo estro un po' funambulesco di prestidigitore d'idee perentorie e paradossalmente ingegnose, per épater, non si saprebbe dire, se prima se stesso o il lettore, ma con un candore d'innocenza che a bella prima incanta. Molto è paradosso e tale rimane; ma vi sono anche, se pur non congegnate in una visione coerente, intuizioni acute, come il giudizio sulla inconsistenza del neoguelfismo, sull'infatuazione per Pio IX, sulle tendenze della politica napoleonica verso l'Italia, sulle vere cause, sociali, del brigantaggio meridionale, ciò che si ricollega con la sua sensibilità per il fatto sociale e con quel suo «socialismo» nebuloso quanto a soluzioni del problema sociale (legge agraria, soppressione del diritto d'eredità), ma forse meno nebuloso come presentimento della sua importanza nella vita italiana attuale e futura e che, nel suo stato d'animo di rivoluzionario permanente un po' da tavolino, gli faceva prima progettare e poi rimpiangere che la rivoluzione italiana, cioè il Risorgimento, non fosse da tanto da tagliare, con un colpo solo, il nodo politico e il nodo sociale: idea, poco più che abbozzata, che gli ha procurato qualche recente ritorno di simpatia da parte di coloro che, armati di altre ideologie più coerenti, socialistiche e comunistiche, stanno facendo, forse poco storicisticamente, il processo alle deficenze o supposte deficenze del Risorgimento.
Questo è uno dei «ritorni» di Ferrari, di cui si va parlando ogni tanto, a distanza di anni e anni. Nel fatto, il Ferrari, come non ha avuto immediati successori, non ne ha nemmeno a distanza. È rimasto un fenomeno isolato ed anche un documento singolare del suo tempo; perché egli rifletté tutte le idee del suo secolo, rivoluzione, nazionalità, socialità se non proprio socialismo, irreligione, ma le rifletté come in uno specchio deformante, in quel suo cervello un poco stravagante di fervido zelatore della filosofia.