SQUARCIALUPO, Gianluca
– Nacque a Palermo, verosimilmente negli anni Ottanta del Quattrocento, da Pietro, esponente di una famiglia di origine toscana, stabilitasi nella città fra la fine del Trecento e i primi del Quattrocento per esercitare la mercatura, e da Beatrice Saladino. Gianluca fu il secondogenito, dopo Bartolomeo, dei figli della coppia, che ebbe anche una femmina, Giovanna Aloisia.
È certo che gli Squarcialupo si erano ben inseriti nell’oligarchia municipale palermitana. A metà del Quattrocento, il nonno Giovanni, vero fondatore delle fortune familiari, aveva iniziato a diversificare le attività, da un lato assumendo la gestione di alcune tonnare e, dall’altro, prendendo in enfiteusi vasti terreni nei pressi di Palermo. Le cattive stagioni di pesca e la grave siccità che colpirono la Sicilia durante il Quattrocento spinsero in un secondo momento Giovanni all’acquisizione di uffici municipali: nel 1459, dopo aver svolto l’incarico di giurato della città di Palermo, egli venne nominato maestro credenziere della Secrezia.
Il figlio Pietro, nato fra il 1455 e il 1460, intorno al 1475, divenne assistente di Bundo di Campo, credenziere della dogana di mare della Secrezia di Palermo: incarico che esercitò per circa sei anni senza percepire alcun emolumento ma facendosi notare all’interno dell’amministrazione finanziaria palermitana. Il 13 ottobre 1481, Pietro divenne credenziere della gabella dei panni per poi essere eletto, nel gennaio del 1487, sindaco di Palermo. L’acquisto di tale carica avrebbe dovuto costituire un trampolino di lancio per la definitiva affermazione della famiglia nella capitale del Regno di Sicilia. Tuttavia, nel 1487 i giurati e gli ufficiali di Palermo inviarono un memoriale al viceré denunciando la cattiva condotta di Pietro nell’esazione dei debiti. Pietro, che proprio in quell’anno era giurato della città, cercò in un primo tempo di difendersi dalle accuse, adducendo che gli ammanchi non erano stati causati dalla sua gestione, ma erano la risultante di debiti contratti dai suoi predecessori. Di fronte alla rigidezza di giurati e ufficiali fuggì: in contumacia, venne celebrato un processo contro di lui, condannato al bando dal Regno, alla requisizione di tutti i beni mobili e immobili e alla destituzione dalla carica di sindaco. La condanna venne sancita dal re Ferdinando d’Aragona, che il 28 giugno 1490 ordinò al secreto palermitano Pietro Bologna che gli uffici di Squarcialupo fossero affidati ad Antonio La Rosa. Tuttavia Pietro si recò personalmente dal sovrano dal quale, il 9 febbraio 1491, ottenne il perdono e un ‘guidatico’, un salvacondotto che gli permetteva di rientrare in Sicilia indisturbato.
Egli poté dunque tornare sull’isola, dove riprese le attività commerciali, grazie anche agli ininterrotti contatti con la famiglia Spatafora, baroni di Solanto: egli era, infatti, ‘gabelloto’ della tonnara di San Giorgio di Palermo, oltre che proprietario della tonnara di Solanto. Qui, nel porticciolo, grazie a una licenza di esportazione donatagli dal viceré Giovanni La Nuza l’11 settembre 1498, impiantò una piccola fabbrica di biscotto, in modo da dare la possibilità alle navi di passaggio di rifornirsi del necessario senza dover attraccare a Palermo. Il 12 febbraio 1504 divenne governatore del carcere di Palermo, con l’incarico di rivedere i conti e riparare l’edificio; dal 1504 al 1505 fu di nuovo giurato. Nel 1509 venne nominato collettore della gabella del biscotto di Solanto. L’anno successivo fu nominato per la terza volta giurato.
Gianluca seguì le orme paterne, grazie alle proprietà fondiarie e immobiliari. Nel 1509, in occasione delle nozze con Lucrezia Farfaglia, ebbe in dote vasti terreni nel feudo di Solanto; vigneti, oliveti e aranceti nella contrada Falsomiele, nei pressi di Palermo, e un complesso edilizio rilevante al centro della città. Fra il 1511 e il 1512, sostituì il fratello Bartolomeo nella carica di sindaco di Palermo. Nel 1512 perdette la moglie Lucrezia, dalla quale aveva avuto una bambina, Leonorella. Nel 1515 prese in enfiteusi dieci salme di terreno, nella contrada Milicia, presso Palermo, per impiantarvi un vigneto.
In ossequio alla tradizione politica inaugurata dal padre, Gianluca si legò allo schieramento politico antiferdinandeo, capeggiato dalla famiglia Ventimiglia, marchesi di Geraci. Obiettivi del gruppo erano la difesa dei privilegi, che l’azione energica del re Ferdinando d’Aragona intendeva cancellare, e la rinegoziazione del donativo del Regno. Gli Squarcialupo, inoltre, usavano lo schieramento antiferdinandeo per opporsi all’ascesa della famiglia Bologna, fautrice del re e diretta concorrente nell’assegnazione delle principali cariche cittadine. Per questo Squarcialupo, alla notizia della morte del sovrano, partecipò con tutta probabilità, anche se non come protagonista, alla rivolta del 1516 contro il viceré Ugo Moncada. La rivolta era capeggiata da Simone Ventimiglia, marchese di Geraci, Pietro Cardona, conte di Golisano, Federico Abbatellis, conte di Cammarata, Matteo Santapau, marchese di Licodia: esponenti di spicco dell’aristocrazia siciliana che era, però, politicamente molto divisa. Una volta fuggito da Palermo, Ugo Moncada riparò presso la corte imperiale, dove furono chiamati da Carlo V, per un confronto, anche il conte di Golisano e il conte di Cammarata, mentre il governo del Regno, allontanati il marchese di Geraci e il marchese di Licodia, fu affidato a Gianvincenzo de Luna, conte di Caltabellotta, acerrimo rivale dei Ventimiglia e dei suoi sostenitori.
Durante i mesi di permanenza di Golisano e Cammarata a corte, Squarcialupo, in quel periodo giurato di Palermo, insieme con i colleghi Timeo Cagio e Ambrogio Levi e al pretore della città Giovanni Ventimiglia, redasse una lettera al sovrano per lodare l’azione dei due nobili. La lettera, però, non fu mai inviata perché non era stata sottoscritta dagli altri giurati Guglielmo Spatafora, Nicolò Corvaya e Vincenzo Bologna. Non inviata, sempre per lo stesso motivo, fu una seconda lettera di sostegno scritta da Squarcialupo, Cagio e Levi ai due nobili. Successivamente, nel timore di una rappresaglia nei suoi confronti da parte del conte di Caltabellotta, Squarcialupo abbandonò Palermo
Alla fine del 1517 giunse in Sicilia il viceré Ettore Pignatelli, conte di Monteleone, che diede inizio alla repressione nei confronti di coloro che si erano distinti durante i mesi della rivolta e alla cancellazione dei provvedimenti presi dai rivoltosi, non tralasciando però di cercare un accordo con loro e promuovendo, secondo le direttive dell’imperatore, una politica di mediazione, che inglobasse in un unico schieramento, fedele alla Corona, quanti non erano eccessivamente compromessi con le due parti in conflitto. Squarcialupo beneficiò di tale politica, poiché grazie a essa rientrò a Palermo. L’atteggiamento del viceré, tuttavia, risultò per molti versi ambiguo e, anziché spegnere il malcontento, finì per alimentarlo.
Squarcialupo si fece interprete del malessere e cominciò a diffondere per le strade di Palermo la voce che Golisano e Cammarata erano morti durante il loro soggiorno a corte, in modo da sobillare la popolazione, raccogliere intorno a sé un nuovo gruppo di rivoltosi e ordire una congiura, che proprio da lui avrebbe preso il nome: forte dell’appoggio di un rilevante numero di scontenti, lo schieramento si riunì nella villa di Antonio Ventimiglia per organizzare l’insurrezione. La rivolta avrebbe dovuto avere inizio il 23 giugno, festa di s. Cristina, patrona di Palermo, nel momento in cui il viceré e il Sacro Regio Consiglio, l’organo che raggruppava le maggiori magistrature del Regno, si fossero riuniti nella cattedrale. Informato da Vincenzo de Benedictis, fratello di uno dei congiurati, il conte di Monteleone annullò la cerimonia. Trovata vuota la cattedrale, i rivoltosi, guidati da Squarcialupo si diressero verso la residenza del viceré, dove uccisero quattro consiglieri, dando così inizio ai disordini durante i quali furono saccheggiate le case di alcuni fedelissimi del viceré che operavano nella Regia Gran Corte e nel tribunale del Real Patrimonio. Per sedare le violenze, il conte di Monteleone nominò capitano di Palermo Guglielmo Ventimiglia, barone di Ciminna, di cui si vociferò che fosse la vera mente della congiura.
Alla ricerca di appoggi all’interno dell’isola, Squarcialupo inviò un cugino a Catania, per facilitare l’adesione della città alla rivolta, mentre altri congiurati mantenevano contatti con Agrigento; alcuni indizi lasciano anche supporre che i rivoltosi si rivolsero alla Corona francese per ottenerne l’appoggio. Nel frattempo si ribellarono anche le città di Termini, Trapani, Francavilla e Randazzo.
L’8 settembre 1517, mentre i congiurati palermitani erano riuniti nella chiesa dell’Annunziata per nominare nuovi capitani di giustizia del Regno in sostituzione di quelli insediati dal conte di Caltabellotta, il viceré e i suoi sostenitori fecero irruzione in armi. Squarcialupo incontrò la morte per mano di Nicolò Bologna, mentre Francesco Bologna e Pompilio Imperatore facevano strage degli altri congiurati presenti. Anche nelle altre città della Sicilia che avevano aderito alla rivolta l’ordine fu ristabilito con la forza. Quanti riuscirono a scampare alla morte vennero successivamente imprigionati.
Alla morte di Squarcialupo, la figlia, all’età di sette anni, rimase orfana: senza tener conto delle volontà del padre, che in un testamento del 16 ottobre 1511 aveva nominato tutori della bambina Giacomo e Bartolomeo Squarcialupo e Gianluca Grugno, rispettivamente zio, fratello e cognato (marito della sorella), tutrice della bambina fu nominata la nonna materna, Eleonora Farfaglia.
Inserita all’interno della serie di rivolte che scossero la Sicilia tra il 1516 e il 1522 e che rivelano il malessere di gran parte del Regno nei confronti della Corona al momento del passaggio tra Ferdinando d’Aragona e Carlo V d’Asburgo, la cosiddetta congiura di Squarcialupo è stata letta in maniera differente dalla storiografia. Giuseppe Giarrizzo (1989) ne ha sottolineato il carattere antinobiliare, che avrebbe convinto i gentiluomini da principio coinvolti a prenderne le distanze. Domenico Ligresti (2013) ha rilevato l’incapacità dei congiurati di rendersi conto della complessità della società siciliana, votando così la rivolta all’inevitabile fallimento; Simona Giurato (2003) ne ha offerto un’interpretazione comparativa, legandola ai disordini scoppiati nella stessa stagione nei regni di Castiglia e di Valencia.
Fonti e Bibl.: C. Trasselli, Squarcialupo, in Nuovi quaderni del Meridione, VII (1969), pp. 460-480; Id., Da Ferdinando il Cattolico a Carlo V. L’esperienza siciliana 1475-1525, Soveria Mannelli 1982, ad ind.; G. Giarrizzo, La Sicilia dal Cinquecento all’Unità d’Italia, in La Sicilia dal Vespro all’Unità d’Italia, Torino 1989, pp. 136 s.; S. Giurato, La Sicilia di Ferdinando il Cattolico. Tradizioni politiche e conflitto fra Quattrocento e Cinquecento (1468-1523), Soveria Mannelli 2003, ad ind.; R. Cancila, Congiure e rivolte nella Sicilia del Cinquecento, in Mediterranea. Ricerche storiche, IX (2007), pp. 57 s.; D. Ligresti, Le armi dei siciliani. Cavalleria, guerra e moneta nella Sicilia spagnola (secoli XV-XVII), Palermo 2013, pp. 23 s., 49, 50 s.