Schicchi, Gianni
, Cavaliere fiorentino della famiglia dei Cavalcanti, vissuto nel sec. XIII e già morto nel febbraio del 1280 (come risulta dal Libro di Montaperti, a c. di C. Paoli, Firenze 1889, 156 e 172); fu garante delle promesse di grano per il rifornimento dell'esercito (1260). Lo indica al poeta e lo nomina Griffolino d'Arezzo, nel canto XXX dell'Inferno (vv. 25-45; il nome dello S. ricorre al v. 32) mentre, rapidissimo e a guisa di folletto, raggiunge e azzanna in sul nodo / del collo il concittadino Capocchio e, trascinandolo furiosamente, gli fa grattar... il ventre al fondo sodo della decima bolgia.
Lo S. è, come la mitica Mirra sua compagna di pena, un falsificatore di persona, sul cui crimine forniscono copiose e talora discrepanti notizie gli antichi commentatori, da Iacopo al Bambaglioli, dal Lana all'Ottimo, da Pietro a Benvenuto, sino all'Anonimo, il quale si diffonde più di ogni altro e dà alla dichiarazione che del passo dantesco fornisce una dimensione novellistica.
Il singolare episodio di cui lo S. fu protagonista, cui allude esplicitamente Capocchio ai vv. 43-45, si prestava d'altronde ad aggiunte di vario genere, pur dovendosi ritenere storico nel suo nucleo fondamentale. È chiaro e conciso Iacopo: " di due qui si ragiona [Mirra e Gianni S.] d'i quali l'uno fu un cavaliere di Firenze nominato Gianni Schicchi de' Cavalcanti, il quale, tra l'altre sue operazioni, alcuna volta, a petizione d'un altro cavaliere di Firenze nominato messer Simone de' Donati, in un zio del detto messer Simone nominato messer Buoso, in fine di morte stando in sul letto, falsamente trasformato, il testamento di lui a suo modo fece, lasciando reda della maggior parte del suo il detto messer Simone, nel quale testamento finalmente una sua cavalla di pregio d'alcun suo armento [la donna de la torma] a sé medesimo diede ".
L'Anonimo aggiunge molti particolari, improbabilmente storici, ma neppur frutto di personale invenzione, sibbene attinti al vario parlare che dell'episodio si sarà fatto in Firenze. Il commentatore difatti, dopo aver detto della morte del Donati, del timore di Simone di essere stato diseredato dallo zio, del consiglio chiesto allo S. e dell'abilità sua a " contraffare ogni uomo ", fornisce varie precisazioni attinenti alla messa in scena e all'esecuzione della truffa: la " cappellina " di Buoso indossata dal falsario, l'ammontare delle piccole somme lasciate all'Opera di Santa Reparata, ai frati minori, ai Predicatori, i cinquecento fiorini legati a sé stesso, contro la volontà di Simone, oltre alla " migliore mula di Toscana " e a un credito di altri cento fiorini, la designazione di Simone a erede universale, con l'obbligo di dare esecuzione al testamento entro quindici giorni. Ove è dato cogliere l'eco delle dicerie, delle frange e dei commenti al fatto curioso che, dice il Lana, " contavasi per novella ".
Aggiunte più macroscopiche riferiscono altri commentatori.
Secondo Pietro e il postillatore Cassinese, ad esempio, Buoso sarebbe stato soffocato da Simone e da Gianni S.: ma si tratta di circostanza che non trova conferma e che difficilmente D. avrebbe taciuta. Al di là delle varie particolarità, non è sfuggita la coincidenza del nucleo fondamentale dell'episodio con un tema noto alla tradizione novellistica, sì da far pensare a una possibile attribuzione allo S. - fatto conto della sua notoria abilità nel contraffare le persone e della sua amicizia per Simone Donati - di un fatto inventato di sana pianta ma ritenuto vero da Dante.
In particolare R. Altrocchi, occupandosi del Légataire universel di J.F. Regnard (1655-1709), indicò un racconto riguardante Antioco Theos re di Siria, narrato da Appiano, e altre possibili fonti, ma senza essere in grado di pervenire a conclusioni certe. D'altronde, come ha sottolineato il Parodi, la curiosa storia non risulta essere divenuta oggetto di novella scritta che nel sec. XVI, a opera di Marco Cademosto da Lodi e di Nicolao Gramucci. Assai interessanti sono le consonanze indicate da M. Finzi: il racconto di Elio Lampridio, citato da Benvenuto, riguardante Plaudina moglie di Traiano, la quale, " morto il marito, subornò un tale ch'entrò nel letto del morto, ed istituì erede dell'impero quell'Adriano che tanto amava ", i fatti citati da Carpzovio, da Giulio Claro, da Menochio. Ma bisognerà tener conto dell'improbabilità dell'accoglimento, da parte di D., di una mera diceria e delle possibilità di verifica che il poeta aveva di un fatto non remoto e riguardante una famiglia a lui notissima, quella dei Donati. Sì che non sembra arrischiato accostarsi all'opinione di M. Barbi, al quale " la natura dei particolari nei vari commenti " fece credere " a un fatto reale raccontato diversamente, non a motivi d'una novella precedente applicati a un caso vero " (A proposito di Buoso Donati, p. 138). E ciò non equivale evidentemente a escludere che un tema vivo nella tradizione novellistica, magari orale (posto che lo fosse ai tempi di D.), abbia suggerito allo S. e a Simone Donati la gherminella che effettivamente misero in atto.
Altra questione che ha interessato i dantisti e che il Barbi ha definitivamente risolto è quella inerente all'identità del Buoso Donati citato da Dante. Poiché un Simone e un Buoso di Forese Donati sono menzionati e detti fratelli nella stima dei danni subiti dai guelfi, parve a taluni interpreti che la truffa dello S. dovesse essere stata ordita con la complicità e a vantaggio del fratello di Buoso, appunto Simone, e ciò nonostante l'attestazione degli antichi commentatori, che parlano di Buoso Donati zio o padre del congiunto desideroso d'impossessarsi della sua eredità. Il Torraca poi, fondandosi sul fatto che a nessun titolo Simone avrebbe potuto rivendicare l'eredità del fratello, avendo questo eredi diretti, avanzò l'ipotesi che il complice di Gianni S. fosse non Simone ma il figlio di Buoso, Taddeo. Senonché il Barbi, adducendo probanti testimonianze documentarie, dimostrò che il Buoso citato da D. non doveva essere identificato col Buoso figlio di Forese e fratello di Simone, sibbene con altro più vecchio Buoso Donati, figlio di Vinciguerra, fratello di Forese e zio di Simone e di Buoso di Forese. L'identificazione è favorita dal fatto che Simone (che è poi il padre di Corso, di Forese e di Piccarda) poteva ben aspirare a divenire erede dello zio, vedovo e senza prole. Né è di ostacolo l'accennata discrepanza fra gli antichi commentatori, dei quali alcuni parlano di Buoso zio, altri di Buoso padre di Simone, essendo del tutto ammissibile uno scambio fra patruus e pater. C'è inoltre un dato cronologico determinante: mentre Buoso di Vinciguerra morì verso la metà del sec. XIII, Buoso di Forese figura tra coloro che nel febbraio del 1280 giurarono la pace del cardinale Latino, quando cioè Gianni S. era già morto, dal momento che nello stesso documento compare un " Bettinus condam domini Iohannis de Cavalcantibus ", senza dubbio figlio del falsario.
L'episodio di Gianni S. è collocato in un contesto caratterizzato da una mirabile coerenza stilistica, cui il poeta perviene avvalendosi di un perfetto magistero d'arte, nonostante l'eterogeneità dei personaggi che popolano la decima bolgia, mitologici, biblici, storici, antichi e moderni, e la singolarità degli accostamenti: fra i quali è tipico quello della mitica e tragica Mirra allo S., quasi contemporaneo del poeta, protagonista di un fatto pertinente alla cronaca cittadina, macabro sì ma in chiave comica. Nella parlata di Griffolino i due personaggi, in partenza così lontani tra di loro, risultano avvicinati senza sforzo in virtù di un raffinato procedimento rettorico (" calcolo binario " lo definisce il Sanguineti), che evidenzia - e sottolinea mediante l'annominatio - la comune natura della colpa di cui si sono macchiati (falsificando sé in altrui forma, Mirra; falsificare in sé Buoso Donati, lo S., vv. 41-44), pur se diversamente peccaminoso sia il fine che la falsificazione perpetrata dall'uno e dall'altro perseguiva, e cioè, rispettivamente, il soddisfacimento di una passione incestuosa (che divenne / al padre, fuor del dritto amore, amica) e la stesura di un testamento che, pur falso, ha piena validità legale (testando e dando al testamento norma), in vista di un compenso. Sì che risulta giustificata la preliminare presentazione dei due (due ombre smorte e nude, / che mordendo correvan di quel modo / che 'l porco quando del porcil si schiude), la cui pazzia bestialmente furiosa, che altera e deforma sia l'aspetto fisico che l'equilibrio psichico, vuol esser considerata come convincente corrispettivo di colpe che implicano la frodolenta alterazione e deformazione della volontà di terzi (rispettivamente di Cinira che amava di naturale amore un'altra donna, e di Buoso che aveva disposto altrimenti delle proprie sostanze). È poi opportuno osservare che l'accennato impiego delle risorse di un'abile e scaltrita rettorica, come contribuisce a dare potente unità a un insieme di elementi in partenza vistosamente difformi, accentua e favorisce l'atteggiamento distante e sprezzante assunto dal poeta nel corso degli episodi e degl'incontri che si succedono nel canto. V. anche BUOSO.
Bibl. - P. Toldo, La frode di G.S., in " Giorn. stor. " XLVIII (1906) 113-123; R. Altrocchi, The Story of Dante's G.S. and Regnard's Légataire Universel, in " PMLA " XXIX (1914) 200-204 (recens. di E.G. Parodi, in " Bull. " XXIV [1917] 187-188); M. Barbi, A proposito di Buoso Donati ricordato nel canto XXX dell'Inferno, in " Bull. " XXIII (1916) 126-142 (rist. in Problemi I 305-322); M. Finzi, I falsari nell'Inferno dantesco, in " Giorn. d. " XXVII (1924) 218-227; G. Contini, Sul XXX dell'Inferno dantesco, in " Paragone " 44 (1953) 3-13 (rist. in Lett. dant. 585-594, ora in Varianti e altra linguistica, Torino 1970, 447-457); E. Sanguineti, Interpretazione di Malebolge, Firenze 1961, 342-345; E. Bigi, Il c. XXX dell'Inferno, in Lect. Scaligera I 1067-1071.