SACCHETTI, Giannozzo
– Nacque intorno al 1340 dal fiorentino Benci del Buono, appartenente a una famiglia di antica tradizione guelfa, e da Maria figlia di Francesco, uno speziale veneziano attivo a Ragusa e socio in affari di Benci.
Benci, mercante e prestatore di professione, visse a Ragusa – dove nacque Franco (v. la voce in questo Dizionario), fratello maggiore di Giannozzo – e poi a Venezia, fino almeno al 1343 (Krekić, 1999, pp. 44-46). Non è dunque da escludere che Giannozzo sia nato in una delle due città dell’Adriatico, anziché a Firenze.
A Firenze si trovava sicuramente, ancora puer, alla morte del padre, nel 1347. Due anni più tardi compariva, insieme ai fratelli Franco e Andreuolo, nella gabella dei contratti per il popolo di S. Apollinare. Nel 1352, sempre insieme ai fratelli, riceveva una donazione (probabilmente legata all’eredità del padre) da Domenico Guidalotti e da Noddo d’Andrea, e nel 1354 era citato in un atto del notaio Nastagio Pucci come procuratore della madre Maria.
Non è chiaro quando cominciarono i contrasti con la famiglia. Intorno al 1362, dopo la morte prematura di Andreuolo, i suoi «consaguinei» affidarono i beni di Giannozzo al fratello Franco, per impedire che il primo, «iuvenis et dilapidator, [...] dilapidaret ipsa bona vel venderet seu dissiparet» (cit. in Li Gotti, 1947, p. 78). Se era nel gioco e negli oggetti di lusso che sperperava il suo patrimonio, non sappiamo quale mestiere egli intanto esercitasse (Marchionne di Coppo Stefani lo definì «buono intagliatore di priete»).
Certamente l’interdizione contribuì a rendere particolarmente tesi i rapporti con il fratello maggiore; e al 1363-64 sembra risalire la risposta di Giannozzo a una canzone di Franco, polemica nei confronti delle nuove fogge adottate dai giovani nel vestire. Nella risposta Giannozzo criticava il moralismo del fratello, intrecciando alla polemica generazionale un dissenso di natura politica e una presa di distanza dall’ipocrisia della classe dirigente fiorentina (Dornetti, 1980, pp. 593 s.).
Nel 1366 sposò Margherita di Francesco Peruzzi, da cui ebbe quattro figli (Stefano e Francesco, morti dopo il 1395, e Costanza e Caterina, che entrarono entrambe, nel 1384, nel monastero di S. Maria degli Scalzi); alla famiglia della moglie, e in particolare al cognato Andrea (detto il Siepe), si legò presto più che alla propria.
Nel 1369 fu inviato dal Comune, come ambasciatore, a Milano e forse a Brescia. A Milano sarebbe tornato nel 1376, ospite di Bernabò Visconti, e nel gennaio dell’anno seguente fu nominato ambasciatore con incarichi militari a Siena, Chiusi «et alias partes» (Li Gotti, 1947, pp. 66 s.). In tale occasione incontrò forse Caterina da Siena, che aveva conosciuta, con ogni probabilità, durante il soggiorno di lei a Firenze nel 1374. In ogni caso, in quegli anni la sua irrequietezza trovò un’espressione religiosa nell’adesione agli insegnamenti di Caterina e nell’appartenenza a una comunità che sotto la guida di un frate, Andrea d’Ognissanti, si riuniva a Fiesole, dove i suoi membri – stando al ritratto negativo di Marchionne – «dormieno in terra, e male mangiavano e peggio beeano» (Cronaca fiorentina..., a cura di N. Rodolico, 1903, p. 347).
Nel 1377, oppresso dai debiti, si rifugiò nella villa di famiglia a Marignolle, da dove inviò una accorata lettera al cognato Andrea Peruzzi (O. Sacchetti, Introduzione, in G. Sacchetti, Le rime edite e inedite, a cura di O. Sacchetti, 1948, p. 18). Il 15 febbraio 1379 dettò un primo testamento, tentando di rivolgere i suoi creditori contro Franco, che a suo dire gli aveva sottratto «contra omnem iustitiam [...] florenos aureos tria milia vel circa» (cit. in Li Gotti, 1947, p. 78). L’espediente non sortì il suo effetto, e nell’aprile di quell’anno Giannozzo fu arrestato e rinchiuso alle Stinche per debiti. L’8 maggio 1379, da Roma, Caterina da Siena scrisse a Bartolo Usimbardi e al sarto Francesco di Pipino, esortandoli a confortare l’amico incarcerato.
Liberato poco dopo, trovò riparo in Veneto presso Carlo di Durazzo, che – inviato in Italia, in funzione antiveneziana, da Luigi d’Ungheria – aveva posto allora sotto assedio Treviso. I contatti con i concittadini esiliati l’anno precedente, e in particolare con Benedetto Peruzzi, lo indussero a partecipare a un complotto volto a rovesciare, con l’appoggio di Carlo, il governo fiorentino. Tornato in patria con due lettere destinate ad accreditarlo per l’organizzazione dell’impresa, il 12 ottobre fu arrestato con l’accusa di tradimento (e di falsificazione delle lettere di Carlo, che Firenze non intendeva inimicarsi). Condannato a morte, fu giustiziato il 15 ottobre del 1379 – mentre il principale corresponsabile, Bonifacio Peruzzi, fu soltanto multato. Il giorno prima dettò un secondo testamento, nel quale tentò di salvaguardare gli interessi della moglie e dei figli (Li Gotti, 1947, pp. 82-85).
La durezza della pena fu dovuta probabilmente a un insieme di fattori: i cattivi trascorsi, il più illustre nome di Peruzzi e, non ultima, l’approvazione del fratello Franco, che in consiglio giudicò Giannozzo «mortis supplicio dignus» (Diario d’Anonimo fiorentino, a cura di A. Gherardi, 1876, pp. 260 s.). Quanto ai cattivi rapporti tra i due fratelli, d’altronde, proprio con Giannozzo è forse da identificare lo sciocco protagonista del Pataffio – una bizzara operetta attribuibile a Franco (Della Corte, 2003, pp. 58-60).
Di Giannozzo sono noti undici componimenti – sei canzoni, due sonetti, due laude-ballate e una frottola – testimonianza della produzione poetica di un «geniale dilettante» (Ciociola, 1995, p. 364). Il carattere frammentario e occasionale della sua attività poetica spiega il fatto che egli non ne abbia mai raccolto i frutti, sparsi in almeno trentasei codici (per Spogliati, anima mia, ai testimoni segnalati da Tiziana Arvigo, si aggiunga Siviglia, Biblioteca Capitular y Colombina, ms. 325 (7-1-9), cc. 93r-98r). L’ispirazione morale, oltre che nella risposta al fratello, torna nelle due canzoni, databili al 1365, in morte di Nicola Acciaiuoli (contro la regina Giovanna di Napoli) e consolatoria del figlio e del nipote di lui, e si intreccia a quella religiosa nella canzone e nei due sonetti (Mettete dentro gli spezzati remi il più celebre) nei quali ricorre l’immagine della barca sconvolta dalle onde come simbolo della fragilità della condizione umana, così come nella canzone in morte della moglie (che in realtà gli sopravvisse), che rovescia lo smarrimento stilnovistico di fronte allo splendore della donna nell’angoscia per lo spettacolo di decomposizione del cadavere di lei. La dimensione religiosa prevale, infine, nelle due laude Maria dolze, che fai? e Spogliati, anima mia, nelle quali le arditezze stilistiche e sintattiche e la predilezione per gli ossimori di Iacopone si incontrano con gli insegnamenti di Caterina da Siena (a cura di F. Palermo, 1857, pp. 27-59; Dornetti, 1984, pp. 187 s.), dando vita a un discorso mistico arduo e a tratti oscuro, che ha portato ad associare Giannozzo al cosiddetto movimento del libero spirito (Guarnieri, 1965, pp. 458 s.; e le importanti considerazioni critiche di Miccoli, 1974, pp. 943 s.).
Opere. Dopo il parziale ma meritorio lavoro di Giuseppe Corsi (Rimatori del Trecento, a cura di G. Corsi, Torino 1969, pp. 365-408), dell’intero corpus delle Rime è disponibile ora un’edizione critica – a cura di T. Arvigo, Bologna 2005 – che rende ormai obsoleta la precedente raccolta a cura di Oretta Sacchetti (Roma 1948). Precedentemente, si veda almeno, per il commento, le Rime di Dante Alighieri e di G.S., a cura di F. Palermo, Firenze 1857.
Fonti e Bibl.: Archivio di Stato di Firenze, Balie, 13, c. 45; Esecutore di giustizia, n. 830, cc. 234, 237; Firenze, Biblioteca nazionale centrale, Collezione Passerini, 191/31; Poligr. Gargani, 1771, nn. 52, 54-56, 61; 1772, nn. 218, 242-258; Diario d’Anonimo fiorentino, a cura di A. Gherardi, in Cronache dei secoli XIII e XIV, Firenze 1876, pp. 260 s., 402-404; Cronaca fiorentina di Marchionne di Coppo Stefani, a cura di N. Rodolico, in RIS, XXX, I, Città di Castello 1903, rubr. 821, pp. 347 s., rubr. 995, pp. 440 s.; Caterina da Siena, Lettere, a cura di L. Ferretti, V, Siena 1918, pp. 345 s.
N. Rodolico, La democrazia fiorentina nel suo tramonto, Bologna 1905, pp. 331-336; I. Taurisano, S. Caterina da Siena e G. S., in Memorie domenicane, LVII (1940), pp. 220-235; E. Li Gotti, Un caso di coscienza: Giannozzo contro Franco Sacchetti, in Id., Restauri trecenteschi, Palermo 1947, pp. 61-85; Id., Ritratto di G. S., ibid., pp. 86-90; R. Guarnieri, Il movimento del Libero spirito. Testi e documenti, in Archivio italiano per la storia della pietà, IV (1965), pp. 458 s.; G. Miccoli, La storia religiosa, in Storia d’Italia, a cura di R. Romano, C. Vivanti, II, 1, Dalla caduta dell’Impero romano al secolo XVIII, Torino 1974, pp. 943 s.; V. Dornetti, Religiosità e impegno politico nella poesia di G. S., in Humanitas, XXXV (1980), pp. 593-603; Id., Aspetti e figure della poesia minore trecentesca, Padova 1984, pp. 182-188; C. Ciociola, Poesia gnomica, d’arte, di corte, allegorica e didattica, in Storia della letteratura italiana, diretta da E. Malato, II, Il Trecento, Roma 1995, pp. 327-454 (in partic. pp. 364-366); B. Krekić, Sul retroscena familiare di Franco Sacchetti. Il veneziano «Franciscus Speciarius» ed il fiorentino «Bencius del Buono» a Ragusa nella prima metà del Trecento, in Studi veneziani, n.s., XXXVII (1999), pp. 15-49; F. Della Corte, Proposta di attribuzione del Pataffio a Franco Sacchetti, in Filologia e critica, XXVIII (2003), pp. 41-69; F. Sacchetti, Il Pataffio, ed. critica a cura di F. Della Corte, Bologna 2005.