CONTARINI, Gianpietro
Autore di una narrazione dello scontro turcoveneta dall'"origine e... cause" immediate, nel 1569, al tripudio per il clamoroso trionfo di Lepanto, la sua figura sfugge; mancano, infatti, puntelli biografici per delinearla con contorni non del tutto evanescenti.
D'altro canto la fortuna editoriale dello scritto, uno dei più tempestivi sulla vittoria e fonte, quindi, dell'idea circolatane nell'opinione pubblica europea, induce a spremere ogni, sia pure esigua, traccia indiziaria e stimola, se non altro, a rimuovere malintesi e fraintendimentì che, stranamente, hanno congiurato a rendere ancora più improbabile il profilo del C., a confonderlo ulteriormente. Data l'importanza della sua operetta storiografica, vale la pena, quanto meno, fissare i punti certi eliminando le inesattezze, quali quella dì chiamarlo Giambattista (come in Lépante..., a cura di M. Lesure, Mesnil sur l'estrée 1972, p. 268) oppure Piermaria. Così, inspiegabilmente, facendolo altresì vivere tra il 1546 e il 1610, Marco Foscarini, lo storico settecentesco della cultura veneziana; donde la secca e ovvia rettifica di Cicogna rimarcante che "l'autore è Giampietro non Piermaria". E come "Giovan Pietro quondam Giovan Battista" lo registra, in effetti, Giovanni Paolo Gasperi, un altro erudito del '700; non sappiamo, però, quanto sia esatto il nome del padre e, inoltre, laddove Gasperi aggiunge che il C. "muore a 64 anni", pare affibbiargli l'arco cronologico del Piermaria di Foscarini. Sicuro, invece, che il C. "non fu patrizio", come asseriscono concordi Gasperi e Giovanni Degli Agostini, anche questo studioso settecentesco della letteratura veneziana, il quale, peraltro, nei suoi appunti l'aveva qualfficato come "patrizio", cancellando in seguito l'erronea definizione. Con tutta probabilità la confusione inizia con Agostino Superbi, laddove, sbagliando nome, cita un nobile o Pietro Paolo... soggetto di molta vaglia et letterato ornato di lettere latine et historico degno", autore, appunto, dell'Historia "et altro", non meglio precisato (Trionfo... d'heroi, III, Venetia 1629, p. 102). Successivamente, forse da lui tratto in inganno, il Cappellari Vivaro, nel Campidoglio veneto - ove, inoltre, accenna ad un "Giovanni Pietro Contarini" che "scrisse diligentemente le guerre turchesche sino l'anno 1575" (errore, tale termine, palese) - si sofferma su "Pietro Paolo Contarini", primogenito di Alessandro di Paolo, il quale, "ornatissimo di lettere latine et fondato nell'historia" sarebbe nato nel 1546 (e morto, secondo le aggiunte alle Genealogie marciane di Barbaro, nel 1601) e avrebbe scritto "elegantemente la guerra con Selini imperatore de' Turchi sino alla giornata del 1571", dato, quest'ultimo, valido, invece, per Giaripietro Contarini.
Ad Apostolo Zeno, comunque, spetta la decisa esclusione, fatta propria dal Gasperi e dal Degli Agostini, del C. dall'ordine patrizio. "Non è stato gentiluomo veneziano", scrive, il 21 dic. 1735, a Giusto Fontanini, adducendo a prova che con tale contrassegno non figura in Sansovino e che "in un necrologio" in suo possesso dei patriZI scomparsi tra il 1530 e il 1616 è assente "il nome del suddetto Giampiero". Il C., dunque, fu sì "veneziano, ma non gentiluomo, come alcuni hanno creduto", ribadirà lo Zeno annotando la Biblioteca fontaniniana. Ipotizzabile, allora, l'appartenenza del C. al ceto cittadino, ove sono accertabili, nel '500, rami contariniani. Un Zuan Antonio Contarini di Marco diventa, ad esempio, il 26 apr. 1559, ordinario di Cancelleria (cfr. il marciano Mss. It., VII, 1667 [= 8459], Elenco ordinari..., cc. 7v, 18v). E risulta, pure, esistere, proprio nel secondo '500, un Giovan Pietro Contarini che non è escluso coincida - e, in tal caso, va, però, corretto il nome del padre fornito dal Gasperi - col Contarini. Sarebbe, allora, il figlio, forse naturale, d'un nobile Bernardo che avrebbe avuto dalla moglie Andriana Trevisan almeno tre figli legittimi (Bernardo, Giovanni Battista e Giovanni Andrea).
Unico dato eloquente e inoppugnabile l'Historia delle cose successe dal principio della guerra mossa da Selim ottomano a' Venetiani fino al dì della gran giornata vittoriosa contra Turchi descritta... [dettagliatamente e] fedelmente da M. Gio. Pietro Contarini venetiano (Venetia 1572), sola direzione percorribile con sicurezza quella dei suo successo di stampa.
Non risolto l'enigma della vita, rimane, in compenso, dipanabile la vicenda delle edizioni e delle traduzioni. Dedicata a Giovanni Grimani (lo stesso cui il friulano Giovan Battista Scarsaborsa dedica il suo poemetto epico in esametri latini De felicissima adversus Turcas navali victoria ad Echinadas libri tres, Venetiis 1573), a tangibile testimonianza della "servitù", che a lui lo lega (forse non si tratta solo di dichiarata reverenza, ma anche di un qualche rapporto di dipendenza o, almeno, di un'implicita richiesta di sistemazione), l'operetta suona, anche per questo, un po' asimmetrica. Dedicatari non sono il doge o un grande protagonista veneziano dell'immane scontro o la Serenissima o un suo organo; lo scritto è offerto al discusso e discutibile patriarca d'Aquileia. Un po' anomala pure l'insistenza, più che sul valore veneziano, sullo sforzo della Cristianità tutta e, più ancora, sul possente intervento assecondante della provvidenza. La tremenda sconfitta inflitta al Turco "alli scogli delle Cruzolari", teatro della più grande battaglia navale che il mondo abbia mai conosciuto, è infatti frutto de "l'immenso della prudentia e bravura di tanti prencipi, gentiluomini e soldati" radunatisi "in questa giustissima guerra"; ma va precisato che "questa sacra vittoria è piena più dell'immensa forza e miracoloso misterio di Cristo figliuol di Dio a favor de' suoi cristiani". Una nota, questa, piuttosto in sordina nel tambureggiamento propagandistico di diretta impronta lagunare, laddove il C. appare più sensibile all'afflato crociato ispirante l'appello di Pio V, più lambito dalle suggestioni provenienti da Roma che vibrante di patriottico orgoglio. Anche se il frontespizio lo proclama "venetiano", il C. è idealmente al di fuori d'un orizzonte meramente lagunare, si colloca, sia pure ellitticamente, in una prospettiva più ampia, esprime, sia pure indirettamente e, forse, più istintivamente che consapevolmente, un punto di vista universalistico e provvidenzialistico ad un tempo. La stessa atroce tragedia della caduta di Famagosta cui il provveditore, convocato a Messina, non aveva recato soccorso quando ancora sussisteva possibilità, rifornendola, di salvarla dalla morsa nemica, si riscatta e si giustifica una volta riassorbita nel disegno superiore presiedente agli eventi. Il mancato intervento in sua difesa viene quindi approvato: sarebbe stato deviante e ritardante rispetto allo sbocco, risolutivo e valido per la Cristianità nel suo assieme, presso le Curzolari. "Lodare si può Iddio d'ogni impedimento", quindi anche degli ostacoli frapposti ad un massiccio ausilio alla piazza assediata, "fin qui occorso", poiché tutto s'è risolto "a beneficio de' cristiani" non essendo dubbio che l'invio alla volta di Famagosta di 25 0 30 galere avrebbe distolta la flotta dalla determinazione d'impegnarsi, con pieno dispiegamento di forze, nella ricerca della "giornata" decisiva. "Sì che - conclude il C. - mettasi silentio a tutti, e lodisi Iddio di quanto fin qui ha donato", quasi replicando ruvidamente ai serpeggianti malumori nei confronti della sacra lega, troppo poco attenta agli specifici interessi di Venezia. Si esulti, invece, per la vittoria. Donde l'immagine finale della città travolta dall'"allegrezza", tutta esplosione di "giubilosi gridi di vittoria", tutta risuonante di "suoni di campane", tutta invasa da una folla festante che si rovescia nelle strade e s'abbraccia felice. Si riconosca a Dio la "tanta et sì larga sua ricevuta grazia". Informato e particolareggiato, attento agli schieramenti ("antiguardia", "corno sinistro", "battaglia reale", "corno destro", "retroguardia"), non per questo il C. annega nella meticolosità delle notizie la sua interpretazione. Anzi le valorizza e, se è il caso, le inventa a tal fine. Prima dello scontro, ad esempio, fa dire ad un comandante nemico che essi, i Turchi, al contrario dei cristiani, non bestemmiano, si portano "amore l'un l'altro", sono "in unione e riverentia" reciproca. Una forza compatta, dunque, che la Cristianità degenere e divisa ha vinto per volontà divina. Ma la vittoria - è sottinteso - implica il dovere della purificazione, incita alla rigenerazione. Presentandola come "grazia", il C. la satura di significati pressantemente ammonitori. Mentre ognuno dei collegati valorizza i propri meriti, il C. ricorda come essi siano stati strumento vindice della provvidenza. Attraversata da inquietudini e sottesa di fermenti estranei alla sistemazione storiografica - limpidamente, ma anche angustamente politica - che della guerra col Turco darà Venezia specie colla salda ed elegante monografia parutiana di qualche anno dopo, la Historia resta, tuttavia, opera, per quanto sintomatica, modesta, a volte piattamente cronachistica. Nella descrizione, però, della battaglia di Lepanto la prosa del C. ha un'impennata, si movimenta coloristicamente, e il C., lungi dallo slittare in una plateale esaltazione della carneficina, è percorso da un brivido di pietà e commozione che non distingue il fedele dall'infedele, il vincitore dal vinto.
Uscita nel 1572 a Venezia, pei tipi di Francesco Rampazetto, e da questo riedita, nello stesso anno, coll'aggiunta di un'incisione in rame evidenziante il luogo e la disposizione della battaglia, l'Historia viene pubblicata, sempre nel 1572, anche a Milano dai tipografi Pietro e Francesco Tini. Ad ulteriore conferma d'una destinazione non circoscritta a lettori veneti, il testo del C. esce pure, "ex italico sermone in latinuin conversus" a Basilea, "per Petrum Pernam", nel 1573. Traduttore ne è il luterano Giovanni Nicolò Stupani (1542-1610; trattasi del medico e docente universitario e filosofo nonché cultore e traduttore di Machiavelli, sul quale cfr. S. Bertelli - P. Innocenti, Bibl. machiavelliana, Verona 1979, pp. LIX, 62 s., 71, 73, 76 s.), che, dedicandola all'abate di St. Blasien, forse azzarda un'avance verso i cattolici, mostrando, allora, d'intendere l'Historia capace di coinvolgere tutti i cristiani, al di là delle loro separazioni. Certo è bene accolta dai non cattolici se, sempre a Basilea e sempre nel 1573 (l'anno di stampa indicato in Schottenloher è 1574: potrebbe trattarsi d'una riedizione) e sempre presso lo stesso editore ("bei Peter Perna"), essa appare volta in tedesco dal lessicografo Georg Henisch, arricchita da un'incisione in legno illustrante "die Seeschlacht" e con, in più, la dichiarazione che si deve alla penna del C., "einen Rathsverwandten zu Venedig", gabbato così per importante uomo politico della Serenissima. Una fortuna esorbitante il pur vivace ambiente svizzero ché la Historische Beschreiburng del C., già vom... Stupano ins Latein, jetz aber durch Heinricum Habermehl in die deutsche Sprach transferirt, esce, bellamente ignorando la traduzione di Henisch e presentandosi come la prima in tedesco, a Dresda, nel 1599, "durch H. Schütz". V'è, infine, la ristampa dell'originale italiano a Venezia, presso la tipografia diGiovanni e Battista Combi, nel 1645; obliterate le iniplicanze universalistiche, gli editori, dedicandola alla Repubblica, vogliono suoni bencaugurante per l'appena iniziata guerra di Candia.
Riandando alla seconda edizione veneziana, quella con la tavola in rame, si apre - sempre che questa si debba al C. - uno spiraglio per connotarlo meno evasivamente. Il C. sarebbe anche cartografo. Come tale, in effetti, lo registrano i repertori. Ma erra, senz'altro, Tooley laddove, qualificandolo "painter" oltre che "cartographer", e facendolo nascere nel 1549e morire nel 1601, lo confonde grossolanamente coi pittore, di una certa fama e di rango cittadino, veneziano Giovanni Contarini che nulla autorizza ad ispessire d'esperienze cartografiche (si veda il recentissimo profilo a questo dedicato da A. Bristot in Saggi e mem. di storia dell'arte, XII [1980], pp. 31-77). Condividibile, invece, Bonacker che, appunto, definisce il C. cartografo pure "Geschichtsschreiber". Il C., dunque, è anche l'autore d'una carta di Candia e, soprattutto, d'una Elegantissima totius Europae ac Partis Asiae nec non littorum Afficae descriptio (dalla "Grotlandia" al Nordafrica, dall'Atlantico al Caspio e al Golfo Persico) stampata in sedici fogli nel 1564, reperibile tanto alla British Library quanto all'Alessandrina di Roma (quivi con la collocazione Rari 215);e copia, a detta di Ruge, v'era pure nella Biblioteca statale di Breslavia; e pure l'inventario del 1595 della Kunstkammer di Dresda attesta la sua circolazione e diffusione. E, stando almeno ad una lettera da Roma, del 24 dic. 1589, di Filippo van Winghe ad Abramo Ortelio, sarebbe stata ristampata nel 1572 sempre in sedici fogli.
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