Giappone
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(XVII, p. 1; App. I, i, p. 668; II, i, p. 1049; III, i, p. 750; IV, ii, p. 59; V, ii, p. 435)
Geografia umana ed economica
di Claudio Cerreti
Benché al censimento del 1995 la popolazione del G. avesse quasi raggiunto 125,6 milioni di ab. (saliti nel 1998, secondo stime delle Nazioni Unite, a 126,6 milioni), l'incremento demografico ha mostrato negli anni più recenti un ulteriore rallentamento rispetto al passato: il tasso di natalità, infatti, è sceso sotto il 10‰ (9,7 nel 1996), mentre quello di mortalità è leggermente risalito (7,2‰) per effetto del progressivo invecchiamento della popolazione. Nella distribuzione territoriale degli abitanti continuano a manifestarsi le vistose difformità tradizionalmente presenti: gli scostamenti rispetto alla densità media del paese (339 ab./km²) oscillano tra i 72 ab./km² dell'isola di Hokkaidō (e i valori di poco più elevati nella parte settentrionale di Honshū) e le diverse centinaia di ab./km² di alcune prefetture della parte meridionale di Honshū e delle isole meridionali di Shikoku e Kyūshū (anche a prescindere dall'area metropolitana di Tōkyō, che supera largamente i 5000 ab./km²). Lo squilibrio demografico fra regioni settentrionali e centro-meridionali, pertanto, non solo non si è sanato, ma appare addirittura in qualche caso accentuato.
Allo sbilanciamento del quadro insediativo continua a corrispondere una sperequazione molto profonda nell'ambito dell'apparato infrastrutturale e produttivo, che a sua volta continua ad alimentare flussi migratori interni tutt'altro che irrilevanti. La principale destinazione di questi flussi è rappresentata come sempre dalle grandi aree metropolitane, in primo luogo Tōkyō; mentre Yokohama ha largamente superato i 3 milioni di ab., Ōsaka e Nagoya i 2, e diverse altre città (Sapporo, Kyōto, Kōbe, Fukuoka, Kawasaki, Hiroshima, Kitakyūshū) il milione, risulta tuttavia da tempo evidente che l'urbanizzazione incessantemente in atto in G. non riguarda tanto le singole città, quanto piuttosto una vastissima area 'megalopolitana' che abbraccia gran parte della sezione centro-meridionale del paese estendendosi in lunghezza per un migliaio di chilometri. All'interno di quest'area, a causa dello sviluppo di specifiche e complesse dinamiche di deconcentrazione demografica (v. urbanizzazione, in questa Appendice), le città medie e piccole e diversi insediamenti un tempo rurali presentano tassi di crescita superiori a quelli delle grandi città; al tempo stesso, è sempre all'interno di quest'area che le attività agricole hanno conosciuto il maggiore sviluppo produttivo e che vengono salvaguardate zone di interesse naturalistico o paesaggistico.
Un così straordinario e vasto addensamento di persone e di attività ha richiesto un'intensificazione dell'uso del suolo, in ambito urbano e rurale, portando fra l'altro a una infrastrutturazione (vie di comunicazione in primo luogo) assai elaborata, sebbene sostanzialmente fragile, come è apparso drammaticamente evidente in occasione del terremoto che ha colpito la città di Kōbe nel gennaio 1995, i cui effetti hanno in pratica diviso a metà il paese. L'evento non ha peraltro frenato l'impegno nel settore delle comunicazioni; fra le realizzazioni recenti va ricordata l'autostrada di attraversamento della baia di Tōkyō (1997), che comporta i due tunnel sottomarini più lunghi del mondo. La concentrazione demografica e produttiva si rivela ancora più forte se si considera che la sola area metropolitana di Tōkyō ospita la maggioranza assoluta degli impianti industriali e produce circa un terzo del PIL del paese. In sostanza, l'intensificazione dell'uso dello spazio si è realizzata nell'area che consentiva la maggiore redditività degli investimenti, trascurando qualsiasi intervento efficace di redistribuzione e aggravando, così, gli squilibri territoriali.
Condizioni economiche
Negli anni Novanta, l'evoluzione dell'economia giapponese, pur sempre saldamente al secondo posto mondiale per prodotto realizzato e strutturalmente molto robusta, ha conosciuto un andamento più incerto che nei tre decenni precedenti, con un preoccupante momento di ristagno nel 1993; che non si tratti solo di una fase strettamente congiunturale sembrerebbe confermato dalle serie turbolenze che hanno interessato il sistema finanziario del G. tra il 1997 e il 1998. Le attività primarie continuano a contrarsi e la quota di PIL dovuta alle attività terziarie progredisce assai lentamente rispetto alle altre economie avanzate; il settore industriale pertanto mantiene notevole importanza, sebbene cominci a mostrare gli effetti (spesso negativi) della ristrutturazione in atto a livello mondiale e, in particolare, nell'Asia orientale e sud-orientale.
In larga misura, si tratta di problemi che hanno origine nelle particolari caratteristiche dell'interscambio commerciale giapponese, da lungo tempo 'eccessivamente' positivo, soprattutto nei confronti degli Stati Uniti, che richiedono con insistenza misure atte a un riequilibrio. Eccedenze commerciali anche più rilevanti si registrano nelle relazioni tra il G. e altri paesi, prevalentemente asiatici. L'adesione alla WTO (World Trade Organization), la rinuncia ad alcune misure protezionistiche e la rivalutazione dello yen hanno diminuito di fatto la competitività dei prodotti giapponesi all'estero e anche sul mercato interno. Di conseguenza, sono state avviate forme di delocalizzazione industriale verso altri paesi asiatici (sia di segmenti del ciclo di produzione, sia di tecnologia produttiva) che hanno portato alla chiusura di impianti nel paese, alla nascita di flussi di importazione di beni un tempo prodotti dal G. stesso, alla comparsa verso la metà degli anni Novanta di una inedita, debole ma significativa, disoccupazione, a forme di mobilità dei lavoratori (anch'essa tradizionalmente assente dal panorama economico giapponese), a una riduzione della spesa sociale, a crescenti investimenti di capitali giapponesi in altri contesti geografici. Questo insieme di processi, con il crescente distacco della popolazione dalla vita politica interna e con il manifestarsi di una progressiva omologazione del modello di vita giapponese a quello occidentale, sembra peraltro in grado di mettere in crisi anche l'assetto sociale del paese, nonostante la persistenza di comportamenti culturali tradizionali.
Come in altre economie avanzate, l'aspetto più rilevante di quella giapponese è la crescita del settore finanziario: già dagli anni Ottanta, il sistema bancario giapponese per valori gestiti supera quello statunitense e la borsa di Tōkyō è una delle principali piazze finanziarie del mondo (a Tōkyō sono concentrate per l'80% circa le attività finanziarie giapponesi). Lo sviluppo dell'economia finanziaria e soprattutto la proiezione esterna dei capitali giapponesi sembrano i tratti distintivi attuali e del prossimo futuro, anche se non appare plausibile che l'industria locale (automobilistica, elettronica ed elettrotecnica, ottica, per ricordare solo alcuni dei settori trainanti) sia destinata nel breve-medio periodo a contrarsi significativamente.
Il processo di proiezione esterna dell'economia giapponese si esercita prevalentemente nell'area Asia-Pacifico, più o meno in corrispondenza di quella che era stata progettata, dai geopolitici nipponici di anteguerra, come 'area di coprosperità asiatica' e in competizione sempre più serrata con gli Stati Uniti da una parte e con la Cina dall'altra. Va peraltro sottolineata la diversa convinzione con cui sono stati effettuati gli investimenti giapponesi in Asia: vigorosissimi e di antica data in Corea del Sud, nell'Indonesia, a Taiwan, a Hong Kong, a Singapore, nelle Filippine; molto più cauti e tardivi in Vietnam o in Cina.
In questa prospettiva, parecchi problemi chiedono una soluzione definitiva, a cominciare dall'atteggiamento che, sia in G., sia nei paesi un tempo occupati o colonizzati in quella stessa area, si continua a nutrire nei confronti del passato storico, un passato che ancora trova giustificazioni più o meno revisioniste fra intellettuali e politici giapponesi, mentre non può che frenare la disponibilità degli altri paesi dell'Asia orientale nei confronti del Giappone. Va ricordato anche il problema già accennato del disavanzo commerciale nei confronti del G., che rappresenta fin d'ora un elemento di evidente dipendenza e induce i paesi dell'area a diversificare il proprio commercio estero. D'altro canto, e paradossalmente, un maggiore impegno geopolitico è richiesto al G., oltre che dall'indebolimento della Russia (con cui si sta trattando la restituzione di una parte delle isole Curili, argomento in passato tassativamente escluso dai sovietici), anche da quegli stessi paesi asiatici oggi pervasi dai capitali giapponesi e preoccupati di una possibile eccessiva ingerenza politica nipponica, ma, al tempo stesso, preoccupati anche della crescita politica ed economica della Cina e della presenza, sempre massiccia, degli Stati Uniti.
Come per il recente passato, dunque, la posizione internazionale del G. appare certamente garantita dalla sua preminenza economico-finanziaria, ma più che in passato sembra oggi prossimo il momento in cui il G. dovrà rinunciare (e le discussioni politiche degli ultimi anni Novanta sembrano andare in questa direzione) a una presenza unicamente economica, per recuperare una quota crescente di autonomia, svincolandosi dall'ombrello protettivo degli Stati Uniti anche in campo militare e diplomatico.
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Politica economica e finanziaria
di Giuseppe Smargiassi
Gli anni Novanta rappresentano per l'economia del G. un periodo di transizione nel corso del quale i fattori che avevano contribuito alla straordinaria crescita iniziata negli anni Cinquanta perdono progressivamente la loro carica propulsiva. I processi di internazionalizzazione della produzione e la globalizzazione dei mercati finanziari hanno messo in discussione gli elementi costitutivi del modello di sviluppo giapponese, aprendo una fase contrassegnata da un forte rallentamento della crescita economica e dall'emergere della debolezza strutturale del sistema finanziario.
La peculiarità del modello di sviluppo giapponese nasce da una combinazione di fattori istituzionali, regole di comportamento, politiche statali di intervento e di indirizzo che hanno conferito all'economia del G. un elevato dinamismo e una notevole capacità di assorbimento degli shock economici. Sotto il profilo produttivo il sistema delle imprese si è progressivamente polarizzato in una struttura duale costituita, da un lato, dal tessuto delle piccole e medie imprese, operanti in prevalenza su di un mercato interno fortemente regolamentato e protetto e, dall'altro, dai grandi gruppi industriali, orientati sui mercati esteri e organizzati nella forma di conglomerati (Keiretsu) che raggruppano, attraverso complessi intrecci azionari, società commerciali, imprese produttive, compagnie di assicurazione e banche. Nel sistema giapponese, il finanziamento della produzione è soggetto alla guida amministrativa del Ministero del Commercio Internazionale e dell'Industria e del Ministero delle Finanze che autorizzano la concessione del credito da parte delle banche in modo da favorire lo sviluppo di quelle industrie ritenute strategiche. Il sistema finanziario, nonostante alcuni parziali tentativi di liberalizzazione avviati negli anni Ottanta, ha mantenuto un elevato livello di regolamentazione che ha permesso alle autorità di utilizzare le transazioni in titoli e valute per controllare il cambio dello yen in modo da accrescere la competitività delle esportazioni. Le politiche ufficiali di allocazione del credito hanno così incoraggiato un deflusso di capitali verso i paesi dell'Europa occidentale e gli Stati Uniti tale da rendere il G. il principale fornitore di liquidità internazionale.
Le caratteristiche di fragilità e inefficienza del sistema bancario giapponese sono emerse in occasione della forte espansione monetaria promossa dalla Banca del Giappone nella seconda metà degli anni Ottanta. La crescita della massa monetaria, che ha dato luogo a un rapido sviluppo degli scambi in titoli finanziari e in attività immobiliari, ben presto si è trasformata in un'autentica bolla speculativa, caratterizzata dalla vertiginosa ascesa dei prezzi di azioni, terreni e beni immobili, da una corrispondente espansione dei prestiti bancari, concessi dietro garanzia dei titoli stessi e dall'ulteriore incremento in valore di questi ultimi attraverso una spirale di crescente intensità. Alla fine del 1989, il volume delle attività speculative aveva permesso alla borsa di Tōkyō (Kabutocho) di superare Wall Street in termini di capitalizzazione.
Quando nel 1990-91 la Banca del Giappone ha avviato una stretta monetaria per raffreddare la speculazione, le quotazioni in borsa e sul mercato immobiliare sono crollate, lasciando nel portafoglio di banche e compagnie di assicurazione che si erano maggiormente esposte nella concessione dei prestiti una massa enorme di crediti inesigibili e di mutui non più coperti da valori ipotecari. A partire dal 1992 l'economia giapponese è entrata in una fase di stagnazione, caratterizzata da una crescita del reddito prossima allo zero, da un forte rallentamento dei consumi interni, dalla caduta verticale degli indici di borsa e da una pesante crisi del sistema bancario. Il governo è intervenuto finanziando consistenti programmi di spesa che prevedevano incentivi e aiuti alle imprese e la realizzazione di opere pubbliche. Malgrado le ingenti risorse di bilancio stanziate, queste misure sono risultate poco efficaci a causa dell'elevata propensione al risparmio della popolazione, che ha mantenuto bassa la crescita interna dei consumi, e dell'eccesso di capacità produttiva che ha ostacolato le decisioni di investimento privato.
I piani di spesa governativi, invece, hanno esercitato un'azione negativa sul bilancio pubblico, che a partire dal 1993 ha fatto registrare continui saldi negativi. Sul piano dei conti con l'estero, le partite correnti, favorite dalla stagnazione della domanda interna, hanno raggiunto nel 1994 il valore record di 130 miliardi di dollari, suscitando un apprezzamento dello yen nei confronti del dollaro che ha avuto rilevanti ripercussioni sul piano interno. Infatti, la sopravvalutazione della moneta, spingendo i salari su livelli incompatibili con il mantenimento delle condizioni di redditività delle imprese (specie di quelle operanti sul mercato interno), ha ridotto gli spazi per la ripresa economica. Inoltre, l'apprezzamento dello yen ha accelerato il trasferimento all'estero da parte delle grandi imprese di impianti e stabilimenti produttivi (hollowing out) verso quelle aree, come la Cina e i paesi dell'Asia sud-orientale, che si caratterizzano per la loro rilevanza di mercati di sbocco (questi paesi assorbono complessivamente oltre il 40% delle esportazioni del G.) e per l'enorme disponibilità di manodopera a basso costo. Il trasferimento all'estero della capacità produttiva ha avuto conseguenze di rilievo sull'organizzazione industriale, poiché oltre a creare per la prima volta problemi di deindustrializzazione e di crescita della disoccupazione (che ha superato il tasso del 3% a partire dal 1994, un valore ancora basso in rapporto alle altre economie industrializzate ma in aumento rispetto agli anni Ottanta), ha allentato i rapporti che legano i produttori ai fornitori nazionali nell'ambito dei Keiretsu, incrinando uno dei meccanismi che hanno garantito un'elevata flessibilità all'economia giapponese. Anche il surplus corrente del G., in diminuzione dopo il 1994, ha risentito della delocalizzazione industriale, poiché una quota crescente di produzione trasferita all'estero ha iniziato a muoversi lungo circuiti commerciali che non passano più necessariamente attraverso la madrepatria. Va peraltro aggiunto che l'internazionalizzazione del sistema industriale è un fenomeno ancora limitato, avendo riguardato, fino al 1995, circa il 9% della capacità produttiva del G., contro il 28% degli Stati Uniti e il 25% della Germania.
Nel settembre 1995, in seguito al protrarsi della stagnazione economica, la Banca del Giappone ha aumentato l'offerta di moneta, portando il tasso di sconto ufficiale allo 0,5%, uno dei livelli più bassi mai raggiunti dal dopoguerra. L'espansione monetaria ha allargato il differenziale dei tassi di interesse giapponesi rispetto a quelli statunitensi, aprendo una fase di discesa dello yen che dal cambio di 80-85 yen per dollaro della fine del 1995 si è portato a un cambio di 120-125 yen per dollaro nell'ultimo trimestre del 1997. La svalutazione dello yen ha dato un nuovo slancio alle esportazioni e sospinto la crescita del PIL nel 1996 al tasso del 5,1%, il più elevato nell'ambito dei paesi maggiormente industrializzati. La ripresa economica, tuttavia, si è rilevata transitoria. All'inizio del 1997 il nuovo governo di R. Hashimoto, nel tentativo di rallentare la rapida ascesa del deficit pubblico, ha varato un pacchetto di provvedimenti di finanza pubblica che, per il suo carattere fortemente restrittivo, ha frenato la fragile ripresa economica.
L'austera manovra fiscale, che prevedeva l'aumento dell'IVA dal 3 al 5% e l'abolizione di parte degli sgravi fiscali esistenti, ha allentato i tenui effetti delle politiche espansive di bilancio sulla crescita interna, imbrigliando l'economia in un circolo vizioso. Il peggioramento delle aspettative economiche, infatti, ha depresso il debole mercato azionario, accelerando la caduta dei titoli in borsa che si protraeva quasi ininterrottamente dal 1994. La diminuzione dei valori mobiliari ha aggravato la situazione patrimoniale delle banche (titolari di circa il 42% dei titoli scambiati in Borsa) e accentuato il razionamento del credito. Tutto ciò si è tradotto in un rallentamento dei consumi e della produzione, nell'ulteriore riduzione dei prezzi azionari e degli attivi bancari e nella conseguente restrizione dell'offerta di credito lungo una spirale negativa al ribasso. La situazione è precipitata tra l'ottobre e il novembre del 1997, quando, anche per effetto della crisi finanziaria e dei cambi che si è manifestata in alcuni paesi dell'Asia meridionale (Indonesia, Filippine, Thailandia, Corea del Sud), la Borsa di Tōkyō ha perso in pochi giorni quasi il 10% del suo valore, dimezzando la sua capitalizzazione rispetto al dicembre del 1987, e riducendosi in termini dimensionali a circa un terzo della Borsa di Wall Street.
Il nuovo rallentamento dell'economia (cresciuta dell'1,4% nel 1997, secondo le stime dell'OCSE) ha messo in evidenza come il G. sia rimasto intrappolato in una morsa deflazionistica che le tradizionali manovre espansive di politica economica non sono state in grado di allentare. La politica monetaria, infatti, non è riuscita a stimolare la crescita degli investimenti privati, sia perché il basso livello dei consumi interni non la giustificava, sia perché le piccole e medie imprese non sono riuscite a ottenere credito da un sistema bloccato nella sua attività di intermediazione da sofferenze che, secondo stime ufficiali, hanno superato i 600 miliardi di dollari nel 1997. La politica fiscale e i programmi di spesa in opere pubbliche hanno invece incontrato un serio limite alla loro espansione nella continua ascesa del deficit di bilancio e dello stock del debito pubblico. Quest'ultimo, in particolare, si è avvicinato nel 1997 alla soglia del 100% del PIL. L'unico fattore di crescita del reddito è rimasto lo sviluppo delle esportazioni le cui possibilità di espansione sono però diminuite. La crisi finanziaria dei paesi dell'Asia sud-orientale, infatti, non solo ha ridotto gli sbocchi nella più importante area di mercato per le esportazioni giapponesi, ma ha anche inasprito le condizioni di concorrenza in conseguenza delle svalutazioni che si sono verificate in quella stessa area. Per queste ragioni le autorità giapponesi hanno cercato di favorire il deprezzamento dello yen insistendo nella conduzione di una politica monetaria fortemente espansiva. Ciò ha però aggravato le tensioni con l'Unione Europea e soprattutto con gli Stati Uniti, il cui deficit commerciale nei confronti del G. ha evidenziato una crescita notevolissima tra il 1997 e il 1998.
Allo scopo di fronteggiare i crescenti squilibri, il governo ha promosso un programma di deregolamentazione del sistema finanziario, liberalizzando completamente i controlli valutari e i movimenti di capitale nell'aprile del 1998, e approvando, nello stesso periodo, una legge che garantisce maggiore autonomia alla Banca centrale.
L'obiettivo del programma, che prevede entro il 2002 l'eliminazione delle barriere tra banche e Borsa, e la liberalizzazione delle commissioni di intermediazione, è quello di stimolare i processi di ristrutturazione, diversificazione e riorganizzazione delle istituzioni finanziarie e bancarie giapponesi attraverso l'apertura alla concorrenza estera. In questa prospettiva, per la prima volta in cinquant'anni, il governo ha deciso di consentire il fallimento di istituzioni finanziarie particolarmente compromesse, come la Yamaichi (quarta società finanziaria del G.) e la banca Hokkaido Takushoku. La fiducia riposta nelle forze di mercato non ha però impedito al governo giapponese di continuare a sostenere il sistema bancario con la concessione di prestiti subordinati, l'acquisto di azioni privilegiate e altre misure a carico del bilancio pubblico.
Nel marzo del 1998, le difficoltà inerenti la crescita della domanda interna e nuove minacce di recessione hanno spinto il governo ad adottare un insieme di misure di sostegno all'economia di dimensioni tali (16.000 miliardi di yen) da configurarsi come il più grande intervento di finanza pubblica mai realizzato dal dopoguerra. Tuttavia, per tutto il 1998 la situazione economica è rimasta critica. Il PIL è diminuito di quasi il 3% e il tasso di disoccupazione ha superato il 4%, il massimo storico dell'ultimo ventennio (v. .).
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Storia
di Franco Mazzei
Agli inizi degli anni Novanta uno stereotipo molto diffuso in Occidente presentava il G. come 'gigante economico-nano politico'. In realtà il G. da tempo non era più 'nano politico': esso produceva ormai più del 15% del prodotto lordo mondiale, condizionava qualsiasi accordo sulla concertazione economica internazionale, era il maggiore creditore netto del mondo (possedeva il 40% del debito pubblico statunitense) e il massimo paese donatore. Mentre è indubbio che, sul piano politico-militare, dalla fine del secondo conflitto mondiale il G. abbia svolto e continuato a svolgere un ruolo politico di basso profilo, largamente inferiore allo straordinario potenziale economico di cui da tempo disponeva, vero è anche che lo stereotipo succitato rifletteva l'inadeguatezza delle tradizionali categorie analitiche: nel secondo dopoguerra il ruolo politico del paese trasse forza e strumenti dalla sfera economica più che da quella diplomatica e militare.
Per definire il ruolo del G. in questa fase storica, più appropriata è forse la nozione di 'potenza civile': una potenza che univa un'economia altamente competitiva in campo internazionale a una cultura politica astensionista in politica estera, a una posizione militare passiva e, in materia di sicurezza, a una condizione di dipendenza nei confronti di un alleato forte come gli Stati Uniti. Con la fine del bipolarismo il G. sembrava chiamato ad assumere un ruolo più attivo nella comunità internazionale, anche se in una situazione più difficile che in passato: ai tradizionali vincoli di politica interna (la profonda e diffusa interiorizzazione del pacifismo, peraltro imposto dagli occupanti americani con la clausola dell'art. 9 della Costituzione) ed estera (in primo luogo, la perdurante ostilità dei vicini paesi asiatici, ove non era del tutto sopito il terribile ricordo del feroce passato coloniale e militarista nipponico) si univano le nuove difficoltà derivanti dalla crisi del sistema politico e dalle difficoltà economiche in cui il G. era invischiato alla vigilia del nuovo millennio. Nonostante ripetute e confuse modificazioni interne ai partiti, alle soglie del Duemila il mondo politico giapponese appariva infatti scarsamente rinnovato. Né la riforma elettorale del 1994, che favoriva le grandi formazioni politiche, né i tentativi di limitare l'enorme potere della burocrazia avevano dato i risultati sperati. L'unico cambiamento di rilievo consistette nel fatto che dal 1993 la contrapposizione politica non si svolse più tra un partito conservatore egemone e il Partito socialista appoggiato da piccoli partiti centristi, ma tra un grande partito conservatore - il vecchio Partito liberaldemocratico uscito indenne dalla tempesta, grazie anche all'insperato appoggio dei socialisti - e ben tre partiti conservatori o di centro. Tale tormentata fase politica presentava sorprendenti analogie con quella che precedette la formazione del Partito liberaldemocratico nel 1955, quando occorsero dieci anni per creare un sistema partitico stabile, capace poi di reggere il paese per circa quarant'anni.
Alla fine degli anni Novanta, insomma, il tradizionale e peculiare modello politico-sociale nipponico sembrava attraversato da una crisi profonda. Nonostante la loro forza e solidità tradizionali, il sistema di organizzazione della produzione (il cosiddetto toyotismo), e più in generale la forma 'comunitaristica' del capitalismo giapponese, di fronte alla mutata situazione interna e internazionale, mostravano forti limiti e inadeguatezze: gli azionisti rivendicavano una riforma del modello di impresa capace di offrire un maggior potere di controllo e di indirizzo, le imprese sollecitavano una riduzione del potere della burocrazia ministeriale e finanziaria nelle modalità di finanziamento degli investimenti, e più in generale l'opinione pubblica chiedeva una limitazione dell'egemonia burocratica sulla vita politica del paese. Il passaggio da uno Stato burocratico a uno Stato di diritto, dalla sovranità della pubblica amministrazione a quella dei cittadini, sul modello delle grandi democrazie occidentali, a molti appariva inderogabile di fronte alla crisi del tradizionale sistema di valori che aveva accompagnato le profonde trasformazioni socioeconomiche degli ultimi decenni: in particolare i giovani, allevati nella ricchezza materiale e nel consumismo, mostravano una distanza sempre maggiore dalla moralità tradizionale e dal senso di lealtà verso il gruppo di appartenenza, mentre acquisivano valori e comportamenti legati a una mentalità edonistica.
Una grave recessione economica si era innescata con l'esplodere della 'bolla' speculativa, ovvero di quella espansione senza precedenti del mercato mobiliare e immobiliare cui, nel corso degli anni Ottanta, si era fatto ricorso anche per far fronte agli effetti potenzialmente devastanti del continuo apprezzamento dello yen rispetto al dollaro a partire dagli accordi del Plaza del 1985, in cui fu concertata la svalutazione del dollaro tra i cinque paesi più industrializzati. Nel 1997, per la prima volta dal 1974, il PIL aveva registrato una diminuzione dello 0,8% - inversione di tendenza confermata negli anni successivi - mentre gravi problemi investivano il sistema finanziario (molte istituzioni si erano trovate oberate da crediti inesigibili), e il sistema produttivo - basato sull'impiego a vita, sull'avanzamento della carriera in base all'anzianità di servizio e sul sindacato aziendale - cominciava a risentire della più generale crisi del sistema di valori tradizionale: tutto ciò contribuiva a rendere meno solide antiche certezze all'interno e ad appannare all'estero l'immagine di un paese considerato modello di efficienza e di ordine.
Gli anni Novanta videro la fine del sistema politico che per lungo tempo aveva garantito al G. crescita economica e stabilità, definito dai politologi one and half party: un partito conservatore egemone, il Jimintō (Partito liberaldemocratico), e una pluralità di partiti d'opposizione, guidati dal Partito socialista, non in grado di imporre l'alternanza. Tra il 1992 e il 1993, con la crisi del Partito liberaldemocratico (partito che dal 1955 aveva governato il paese costituendo con la burocrazia e con i vertici del mondo economico il cosiddetto triangolo di ferro), iniziò una lunga e caotica fase di mutamenti interni al sistema dei partiti, costellata da continue scissioni e riaggregazioni nell'affannosa ricerca di un nuovo equilibrio di tipo bipolare che appariva difficile da raggiungere. Momento iniziale di questa tormentata fase di transizione politica fu la caduta del gabinetto di K. Miyazawa (giugno 1993): preceduta da una serie di scandali in cui risultarono coinvolti numerosi leader liberaldemocratici, la caduta fu determinata dalla scissione dal Partito liberaldemocratico di un consistente gruppo di parlamentari, guidato da I. Ōzawa, in seguito a contrasti personali tra i capi delle fazioni (habatsu) che da sempre avevano rappresentato il dato strutturale più rilevante del partito e che, fino alla metà degli anni Ottanta, avevano garantito dinamicità al sistema politico.
In seguito alle elezioni del luglio 1993 per il rinnovo della Camera dei rappresentanti (in cui i liberaldemocratici scesero dal 46,1% dei seggi al 36,6%), il Partito liberaldemocratico fu messo in minoranza da una coalizione 'arcobaleno' comprendente tutte le altre forze politiche (a eccezione del Partito comunista che, isolato a sinistra, riuscì ad allargare la propria nicchia in quanto partito antisistema), accomunate dal solo obiettivo di costituire un fronte unito contro il Partito liberaldemocratico. Della coalizione facevano parte il Partito socialista (il grande nemico storico dei liberaldemocratici) e ben tre partiti neoconservatori formati da transfughi del Partito liberaldemocratico, fra cui il Partito del rinnovamento costituito da Ōzawa. A quest'ultimo, promotore di riforme neoliberiste e fautore di una politica estera attiva anche militarmente, i socialisti preferirono M. Hosokawa, ex liberaldemocratico che nel 1992 aveva dato vita al Nuovo partito del Giappone, considerato dall'opinione pubblica il possibile protagonista di una 'moralizzazione' e di una svolta politica.
Osteggiato fortemente dalla potente burocrazia contraria alla sua politica di deregolamentazione, Hosokawa affrontò il problema della riforma elettorale, approvata nel gennaio 1994, ma nell'aprile venne accusato di illeciti finanziari e costretto alle dimissioni. Il gabinetto di T. Hata, imposto da Ōzawa dopo la caduta di Hosokawa, durò appena 59 giorni, a causa di un'improvvisa e clamorosa inversione di marcia dei socialisti, decisi a formare un governo di coalizione con gli eterni nemici, i liberaldemocratici (considerati meno pericolosi del neoliberista e decisionista Ōzawa). La 'strana alleanza' appariva un espediente tattico dei due grandi partiti del dopoguerra per gestire essi stessi la transizione, superando i profondi contrasti del passato che vertevano soprattutto su questioni di politica estera. Con il gabinetto del socialdemocratico T. Murayama, che ottenne la fiducia il 25 luglio 1994, alla vigilia del vertice del G7 di Napoli, i socialisti tornavano al potere dopo 47 anni. Tuttavia, le concessioni politiche al Partito liberaldemocratico - a cominciare dal Trattato di sicurezza nippo-statunitense e dall'invio di forze giapponesi nelle operazioni di pace dell'ONU - indebolirono fortemente l'identità del Partito socialista e ridussero drasticamente la sua stessa base elettorale. Per converso, i liberaldemocratici gettavano le basi per vincere il grande scontro elettorale dell'ottobre 1996, le prime elezioni della Camera dei rappresentanti secondo la nuova legge elettorale, in base alla quale veniva ridotto il numero dei membri della Camera dei rappresentanti (da 511 a 500), e introdotto il sistema proporzionale per il 40% dei deputati; venivano inoltre ridisegnati i collegi elettorali per ridimensionare l'incidenza del voto delle aree rurali - tradizionalmente conservatrici - e veniva infine adottato un sistema che limitava l'ammontare del finanziamento privato ai partiti.
Nel marzo 1995, un attentato con gas nervino nella metropolitana di Tōkyō aveva causato 12 morti e più di 5000 feriti. La responsabilità dell'atto terroristico fu attribuita alla setta religiosa Aum Shinrikyō creata da S. Asahara che, in seguito a un secondo attentato il mese successivo, fu arrestato e processato. L'attentato aveva in parte acuito la sfiducia dell'opinione pubblica verso la classe politica, in difficoltà di fronte alla crisi del paese e in larga parte coinvolta in episodi di corruzione e malgoverno, così che nell'aprile 1995, in occasione delle elezioni amministrative, a Tōkyō e a Ōsaka avevano vinto due celebrità televisive, presentatesi come candidati indipendenti. Nelle elezioni per il rinnovo parziale della Camera dei consiglieri del luglio dello stesso anno, la percentuale dei votanti raggiunse appena il 45%. Dei 126 seggi in palio (la metà del totale dei membri della Camera alta), 49 andarono al Partito liberale, 16 ai socialisti, 3 al partito Shintō-Sakigake (Partito della nuova iniziativa, nato nel 1993 da una scissione del Partito liberaldemocratico). Con 40 seggi e il 30% dei suffragi, notevole fu l'affermazione di un nuovo partito conservatore, il Partito della nuova frontiera (Shinshintō), creato da Ōzawa nel dicembre 1994 con la fusione di ben nove formazioni politiche tra cui il Kōmeitō (Partito del governo pulito), braccio politico della potente organizzazione buddista Sōka Gakkai (Società della creazione dei valori). La sconfitta spinse alcuni membri del Partito liberaldemocratico a mettere in discussione la leadership del presidente Y. Kōno, sostituito nel settembre 1995 da R. Hashimoto. Nell'ottobre dello stesso anno il ministro della Giustizia fu costretto alle dimissioni per aver ricevuto finanziamenti illeciti da un gruppo buddista; la stessa sorte toccò in novembre al direttore generale dell'Agenzia per il management, che aveva espresso opinioni 'revisionistiche' sul dominio coloniale giapponese in Corea.
In questo clima di instabilità politica, acuita dagli scandali in cui erano state coinvolte molte delle istituzioni finanziarie del paese, il governo Murayama cadde nel gennaio 1996, e fu sostituito da un nuovo governo di coalizione guidato da Hashimoto. Tra le iniziative del gabinetto Hashimoto vanno segnalate misure, peraltro rivelatesi di scarsa efficacia, che miravano al risanamento del settore finanziario in crisi, all'allargamento della domanda interna e a un maggiore controllo del potere politico sulla burocrazia ministeriale, screditata da una serie di scandali (particolarmente grave fu quello relativo agli emoderivati contaminati dal virus dell'AIDS che aveva contagiato 1800 emofiliaci).
Nel grande scontro elettorale dell'ottobre 1996 netta fu la vittoria dei conservatori di Hashimoto (239 seggi) sullo Shinshintō di Ōzawa (156 seggi) e, soprattutto, disastrosa fu la disfatta del Partito socialista (ribattezzato Partito socialdemocratico) che pagò a caro prezzo la coalizione con il Partito liberaldemocratico (15 seggi). Sorprendente fu invece l'affermazione del Partito liberale (Minshūtō): costituito un mese prima delle elezioni da Y. Hatoyama e N. Kan, entrambi ex appartenenti al Sakigake, esso risultò la terza forza politica con 52 seggi. I comunisti, con 26 seggi, si rafforzarono sottraendo voti all'elettorato socialista deluso dalla svolta conservatrice del loro partito; gli indipendenti ottenevano 9 seggi, il Sakigake 2, la Lega per la riforma democratica 1. Tutto sommato, a parte il declino del Partito socialista (che, tornato sotto la presidenza di T. Doi, non accettò l'invito del Partito liberaldemocratico di entrare in un nuovo governo dichiarandosi disposto solo a un appoggio critico), il vero perdente fu Ōzawa, al quale tra l'altro non si perdonava il decisionismo cui aveva da sempre improntato la sua leadership, tanto che il suo ex collaboratore, T. Hata, decise, nel dicembre 1996, di abbandonare lo Shinshintō, creando le premesse per una nuova riorganizzazione dei partiti. I risultati elettorali portarono alla formazione di un nuovo gabinetto, guidato da Hashimoto, che nell'aprile 1997 riuscì a ottenere l'appoggio dello stesso Shinshintō per far approvare dalle due Camere una legge che riduceva la presenza militare statunitense nel paese. Nell'estate 1998 Hashimoto fu costretto a dimettersi in seguito alla pesante e imprevista sconfitta riportata nelle elezioni per il rinnovo parziale della Camera dei consiglieri. Mentre il Partito socialdemocratico usciva definitivamente dalla maggioranza, ponendo così formalmente fine alla discussa alleanza con il Partito liberaldemocratico durata quattro anni, nel luglio 1998 si insediava a capo di un nuovo governo il leader della maggiore fazione liberaldemocratica, K. Ōbuchi, politico di tipo tradizionale, privo di carisma ma abile nel garantire un armonico funzionamento del gruppo e nel creare consenso.
Le prime iniziative del nuovo gabinetto riguardarono l'economia: furono varate una riforma bancaria (ottobre 1998) e misure di incentivazione alle imprese e ai lavori pubblici (novembre). Per rafforzare Ōbuchi fu nel frattempo portata a termine un'intesa fra il Partito liberaldemocratico e quello liberale che, nel gennaio 1999, iniziò la propria partecipazione al governo.
Sul piano internazionale, gli anni Novanta, con la frammentazione politica e l'eterogeneità culturale seguite alla fine del bipolarismo, costituirono per il G. una difficile sfida. In più occasioni, critiche erano state mosse dall'opinione pubblica alla politica di dipendenza dagli Stati Uniti perpetuata dalla classe dirigente: così era accaduto per la quota ingente versata a Washington, dopo forti pressioni esterne, per finanziare la Guerra del Golfo (una guerra 'non capita' dall'opinione pubblica nipponica) e per la sofferta approvazione da parte della Dieta, nel giugno 1992, della legge che consentiva al paese di partecipare alle operazioni di sicurezza dell'ONU in Cambogia, e successivamente in Mozambico, con un proprio contingente incaricato di compiti logistici e non di combattimento. Si affermava al contempo nel paese una spinta verso una scelta 'regionalistica', sostenuta prevalentemente da uno schieramento trasversale caratterizzato da una comunanza generazionale dei suoi membri, nati dopo la guerra ed estranei quindi alla sindrome della dipendenza dagli Stati Uniti. I fautori dell'opzione regionalistica sostenevano la necessità di un 'rientro in Asia' a fronte del declino degli Stati Uniti come potenza egemone e, di converso, dell'affermarsi dell'Asia orientale (confuciana) come uno dei poli economicamente più dinamici del pianeta, a prescindere dalla crisi che dal luglio 1997 aveva sconvolto le economie di alcuni paesi della regione (Thailandia, Indonesia, Corea del Sud). Si trattava di un insieme di paesi che presentavano una certa omogeneità dal punto di vista culturale e sociale, tutti inquadrati in formazione di 'volo di anatre selvatiche' dietro il G., che ne era il capofila, ognuno pronto a sfruttare in sequenza il rispettivo vantaggio comparato in base a parametri quali il livello tecnologico e il costo della manodopera. Era, d'altronde, in questa prospettiva che era partita la proposta del premier della Malaysia, Mahathir Mohamad, di costituire, in alternativa all'APEC (Asia-Pacific Economic Cooperation), un East Asian Economic Caucus, da cui sarebbero stati esclusi gli Stati Uniti e gli altri paesi 'bianchi' del Pacifico. Insomma, una sorta di 'Asia degli Asiatici'. A spingere il G. verso una soluzione regionalistica contribuiva anche il timore per il formarsi altrove di spazi economici troppo protetti (UE, NAFTA) e, soprattutto, dotati di ciò che al G. mancava: materie prime, sicurezza alimentare totale e forze armate in grado di intervenire su vasta scala. Ma numerosi erano gli ostacoli alla realizzazione di questa opzione: i sentimenti antigiapponesi dei paesi vicini, attenuati ma non scomparsi; i contrasti commerciali sempre più accentuati; il fatto che la regione avesse regimi politici eterogenei e fosse gravemente esposta a tensioni e incertezze politiche, a potenziali conflitti territoriali (Corea, Taiwan, Isole del Mar della Cina) e di guerriglia (Filippine, Birmania); ma soprattutto il timore giapponese del vuoto strategico che sarebbe derivato dal disimpegno statunitense dall'Asia orientale.
Si profilava infine anche una scelta di progressiva rimilitarizzazione del paese: un'opzione logica dal punto di vista della dottrina tradizionale e facile da realizzare dal punto di vista tecnico e tecnologico, data la posizione avanzata, e in alcuni settori addirittura d'avanguardia, che il G. deteneva, ma a cui si contrapponeva la profonda ostilità a una militarizzazione del paese da parte del popolo giapponese, l'unico sul pianeta ad aver subito il trauma atomico.
La scelta, per il G., sembrava dunque tornare al dilemma fra una politica regionalistica e il tradizionale rapporto di dipendenza dagli Stati Uniti, anche se, in questo secondo caso, sembrava comunque improrogabile un'assunzione, segnatamente nella regione asiatica del Pacifico, di responsabilità politiche commisurate al suo potenziale economico. Ma per diventare una potenza asiatica il G. aveva bisogno di una legittimazione politica che non poteva venire che dalla Cina. A sua volta la Cina, per il proprio sviluppo economico, aveva bisogno della cooperazione giapponese in termini di investimenti, assistenza tecnologica, aiuti. I due paesi si trovavano dunque a dover scegliere tra la contrapposizione e la cooperazione.
bibliografia
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