Vedi Giappone dell'anno: 2012 - 2013 - 2014 - 2015 - 2016
Il Giappone, terza economia del mondo e seconda nel periodo 1990-2012, è una delle potenze regionali dell’Asia, grazie alla capacità di influenzare i paesi del Sud-Est asiatico, e con legami internazionali tali da assolvere un rilevante ruolo nella comunità internazionale. Nel quadro delle dinamiche regionali, tuttavia, il Giappone risente ancora del fatto di essere stato una potenza occupante in alcune aree (principalmente nelle due Coree e in alcune regioni cinesi). Dalla fine della Seconda guerra mondiale, dopo essere stato sconfitto dalle potenze alleate, il Giappone è stato cooptato dagli Stati Uniti all’interno delle dinamiche geopolitiche e strategiche del blocco occidentale e ha costituito uno dei punti di riferimento fondamentali in Asia per Washington.
Occupato dagli Stati Uniti fino al 1952, il paese ha adottato una linea pacifista, fissandola nell’articolo 9 della sua Costituzione, approvata nel 1947. In tale articolo si esprime la condanna degli atti di aggressione e la rinuncia alla costituzione di un esercito autonomo. Per più di quarant’anni il Giappone ha mantenuto lo status di seconda potenza economica al mondo dopo gli Stati Uniti. Anche per questo, Tokyo ha rivendicato, e continua a rivendicare, una sempre maggiore indipendenza nella gestione della propria politica estera, anche alle luce dei suoi interessi nella regione asiatica.
I rapporti con la Cina sono ambivalenti: da un lato Pechino è il primo partner commerciale del Giappone, dall’altro la Cina compete con Tokyo per questioni d’influenza regionale ed è animata da un’ostilità che deriva dal periodo dell’occupazione giapponese. Più di recente, è cresciuta la tensione per alcune dispute territoriali che coinvolgono i due paesi. In particolare, la recente zona aerea di controllo, dichiarata dalla Cina e comprendente anche le contese Isole Senkaku/Diaoyu è stata duramente contestata dal primo ministro Shinzo Abe, in carica dal dicembre 2012, che mantiene posizioni molto dure nei confronti di Pechino. La coalizione del Partito liberaldemocratico (Jiyū-Minshutō, Ldj) può contare su una base solida nel parlamento e si prevede che manterrà alta la tensione sui conflitti marittimi. Il sostegno statunitense si è rivelato ancora una volta fondamentale: gli Usa si sono subito schierati a fianco del Giappone per arginare l’iniziativa cinese. Il Giappone ha però contrasti di lunga data anche con la Corea del Sud sulle Isole Dokdo e con la Russia sulle Curili. Da un lato, le tensioni con i paesi vicini sono legate a ragioni storiche e ideologiche mai sopite e risalenti alla Seconda guerra mondiale; dall’altro, le relazioni economiche e l’interscambio commerciale contribuiscono a mitigare tali tensioni e a riavvicinare il Giappone ai suoi vicini continentali, come ben dimostrano i colloqui trilaterali tra Tokyo, Pechino e Seul ricominciati nell’autunno del 2015.
Sul fronte interno, il governo di Shinzo Abe ha dimostrato un certo grado di iniziativa: la politica economica adottata dall’esecutivo, ribattezzata Abeconomics, si è rivelata relativamente efficace, anche se persistono i problemi tipici dell’economia giapponese, in particolare l’enorme debito pubblico del paese.
Il Giappone è formalmente una monarchia costituzionale, in cui il capo è l’imperatore Akihito, in carica dal 1989. L’imperatore ha un ruolo esclusivamente cerimoniale e il potere esecutivo è affidato al governo, guidato dal primo ministro. Il sistema istituzionale giapponese prevede una struttura bicamerale per il legislativo, la Dieta, composta dalla camera dei rappresentanti e dalla camera dei consiglieri. La Camera dei rappresentanti ha poteri maggiori: composta da 475 membri, eletti a suffragio universale ogni quattro anni, conferisce e toglie la fiducia al governo. La Camera dei consiglieri è invece composta da 242 membri eletti ogni sei anni, con la metà dei membri rinnovata ogni tre anni.
A dominare lo scenario politico dell’ultimo mezzo secolo è stato il Partito liberal-democratico, ininterrottamente in carica tra il 1955 e il 2009, quando il Partito democratico giapponese (Minshu-tō, Dpj) è riuscito a prevalere nelle elezioni per la camera dei rappresentanti e a scalzare i liberal-democratici dalla guida dell’esecutivo. Nel dicembre 2012, però, l’ex primo ministro Yoshihiko Noda ha sciolto la camera dei rappresentanti, convocando elezioni anticipate. Dalle elezioni è emerso ancora una volta vincitore il Partito liberal-democratico guidato dal nazionalista Shinzo Abe, riconfermato anche alle elezioni anticipate del dicembre 2014. Dal 2006 il sistema politico giapponese ha registrato una forte instabilità, manifestatasi con l’avvicendamento di sei diversi primi ministri in sei anni, dopo lo stabile periodo di governo di Junichiro Koizumi (2001-06).
Il Giappone è tra i primi paesi al mondo per densità demografica. Con un territorio di poco superiore a quello italiano, ha più del doppio degli abitanti. Più di un terzo della popolazione risiede nella grande area di Tokyo, l’area metropolitana più popolosa al mondo. La zona è caratterizzata da un’elevatissima densità di abitanti (circa 2500 persone per km2), sette volte superiore alla media nazionale; il suo pil è di poco inferiore a quello francese. I giapponesi sono la popolazione più vecchia del mondo davanti a Germania e Italia e dietro al Principato di Monaco. Inoltre il paese detiene anche il primato relativo alla quota di persone che hanno superato i sessantacinque anni (25,8%) e gli ottanta (7,9%), mentre sconta uno dei tassi di fecondità più bassi al mondo (1,4 figli per donna).
La rilevanza di questi dati emerge ancora più chiaramente se analizzata in prospettiva storica: se per un paese industrializzato è comune avere circa un 20% della popolazione con più di sessanta anni, l’incremento percentuale verificatosi in Giappone nel corso di trent’anni richiede normalmente un secolo. Alla fine della Seconda guerra mondiale, l’età mediana giapponese era la metà di quella attuale e, fino alla metà degli anni Settanta, il tasso di fecondità superava il 2%, il che permetteva una certa stabilità demografica. Nel quinquennio 2005-10 si è assistito alla prima contrazione della popolazione, con una riduzione dello 0,07% (91.000 persone). È previsto un decremento ancora più rapido nei prossimi decenni. Un simile trend demografico è carico di implicazioni, innanzitutto di natura economica. Una delle più immediate è la crescente incidenza delle pensioni sulla spesa pubblica: oggi non supera il 20% del pil, ma si stima che nel 2035 potrebbe oltrepassare il 35%.
Un altro dato che caratterizza la società giapponese è la fortissima omogeneità linguistica, culturale e storica: il 99,4% della popolazione è giapponese e condivide un forte orgoglio e sentimento di unità nazionale. L’unico gruppo etnico distinto è quello ainu, che conta 25.000 persone ed è concentrato quasi esclusivamente sull’isola di Hokkaido e sulle isole Curili.
Nonostante il buon indice di Transparency International riguardo alla corruzione percepita, lo stretto legame tra i mondi industriale, burocratico e politico, ossia il cosiddetto ‘triangolo di ferro’, è all’origine di stretti rapporti trasversali a livello personale. Pur avendo, poi, firmato la ‘Convenzione contro la corruzione’ delle Nazioni Unite, Tokyo non ha ancora proceduto alla sua ratifica.
Quanto al settore dei media, nonostante i cinque maggiori quotidiani giapponesi siano i più venduti nel mondo, anche la libertà di stampa è minacciata dalla prassi del governo di utilizzare i club della stampa (kisha kurabu) per assicurarsi il controllo dell’informazione. Entrare a far parte di questi ultimi rappresenta l’aspirazione massima per i giornalisti giapponesi. Trovandosi all’interno delle strutture pubbliche, questi club hanno l’esclusiva su molte informazioni ufficiali, fornite direttamente da esponenti politici, ma non sviluppano un autonomo giornalismo d’inchiesta.
Altre libertà sono invece maggiormente tutelate: Internet è libero. La Costituzione garantisce poi la piena libertà di associazione e di religione. I sindacati sono indipendenti ed è previsto il diritto di sciopero, fatta eccezione per i componenti delle forze di polizia e dei vigili del fuoco. Sebbene la Costituzione tuteli la parità di genere, le donne sono frequentemente discriminate sul lavoro.
Fino alla crisi internazionale del 2009, il Giappone è stato la seconda economia del mondo in termini di pil. Nonostante nel 2010 sia stato superato dalla Cina, rimane tuttora uno tra i primi paesi al mondo quanto a pil pro capite. Per dare una stima della sua influenza nelle organizzazioni economiche internazionali, basti dire che la sua quota nel Fondo monetario internazionale è inferiore soltanto a quella degli Stati Uniti. Tuttavia, la crisi globale ha colpito duramente l’economia, facendo precipitare il pil del 5,5% nel 2009 e provocando un incremento della disoccupazione, che ha raggiunto un picco del 5,6% nell’estate 2009 (dato inferiore, tuttavia, a quello di quasi tutti gli altri paesi a capitalismo avanzato). La crisi, unita alla bassa natalità strutturale del Giappone e alle forti restrizioni verso l’immigrazione straniera, ostacola l’espansione della forza lavoro necessaria alla ripresa economica. Le strutture della forza lavoro stanno inoltre vivendo un momento di transizione, improntato a una maggiore diffusione degli impieghi part-time e della flessibilità. Un altro peso che grava sul futuro dell’economia giapponese è il livello del debito pubblico: è il più alto al mondo, e supera il 245% del pil. Ciò ha conseguenze negative sulle politiche fiscali, dal momento che una grossa fetta del bilancio statale è destinata al pagamento del passivo accumulato, mentre la Banca centrale non può attuare politiche monetarie espansive per il livello dei tassi di interesse. Questi ultimi sono prossimi allo zero per scongiurare un’altra grande paura del Giappone: la deflazione. Dopo il 2009, l’economia non ha ripreso coerentemente a crescere: il +4,7% del 2010 è stato contraddetto dal -0,4% del 2011 e dal 1,7% del 2012. Nel 2013 si è avuto un aumento dell’occupazione e del settore industriale, ma nel 2014 il pil è diminuito nuovamente dello 0,1%. Gli effetti della tanto pubblicizzata Abenomics hanno iniziato a intravedersi solamente nel 2015 anno in cui l’economia ha registrato una leggera ripresa. Sul lungo periodo, la scommessa vinta da Tokyo per le Olimpiadi del 2020 creerà nuove occasioni per convogliare investimenti e dare fiducia ai consumi. Pesa comunque sul futuro del paese il problema dell’invecchiamento della popolazione.
Il deprezzamento dello yen, che si è avuto per tutto il 2015, sembra destinato a continuare, sebbene più lentamente. Gli effetti negativi sono stati numerosi, a cominciare dalle importazioni inderogabili per il Giappone. Ma ce ne sono stati di positivi, come l’incentivo dato alle esportazioni. Il commercio ha risentito dello tsunami del 2011: era già stato danneggiato dalla depressione del 2009 e soltanto recentemente sembra in ripresa, con un’accelerazione nel 2014-15. Nel 2015, i principali partner per le esportazioni sono stati Usa (19%); Cina (18%) e Corea del Sud (7%). Per quanto concerne le importazioni, il Giappone dipende dall’estero per settori critici, come quello energetico. Cresce anche il flusso proveniente dalla Cina: il 22% di Pechino marca una differenza con il secondo posto di Washington (9%) e il terzo di Canberra (5%). In effetti, il trend che negli ultimi 25 anni ha garantito una bilancia commerciale positiva si è invertito sino a far diventare il Giappone un paese in deficit. La crescente importanza della Repubblica Popolare Cinese risale al 2008 e, dato che l’attuale amministrazione ha posizioni molto dure sui territori contesi, il fattore economico e finanziario potrebbe costituire una certa importanza nelle relazioni bilaterali. Tuttavia, l’impatto del commercio estero sul pil è del 28,3% nel 2013 e, anche prima della crisi, non superava il 31,8% (2008).
Il dato centrale della politica energetica del Giappone è rappresentato dalla sua forte dipendenza dalle importazioni: solo l’11% del fabbisogno di energia è soddisfatto dalle risorse interne. Se a ciò si aggiunge che il Giappone è il terzo consumatore mondiale di petrolio (dopo Cina e Stati Uniti), il terzo importatore netto di greggio e il primo importatore assoluto di gas liquefatto e carbone, appare chiara la necessità di adottare strategie per ridurre la dipendenza e la vulnerabilità che ne deriva. Negli scorsi decenni il governo giapponese ha cercato di ridurre il consumo di petrolio e ha conseguito l’obiettivo, dal momento che la percentuale di greggio all’interno del mix energetico del paese è passata dal 70% degli anni Settanta all’attuale 43,6%. Inoltre, il paese mantiene un buono stock di riserve, quantificabili in 590 milioni di barili di petrolio, ovvero, dato il livello del consumo medio, sufficienti a soddisfare la domanda per circa quattro mesi e mezzo. In più, le compagnie giapponesi nel campo dell’energia investono massicciamente all’estero, soprattutto in Medio Oriente e negli stati del Sud-Est asiatico, sulla base di un elevato know how a livello ingegneristico e grazie al primato detenuto dal Giappone come primo esportatore al mondo di attrezzature per l’industria energetica. Infine, negli ultimi decenni il Giappone ha anche investito nella costruzione di un consistente parco di centrali nucleari.
In seguito al terremoto che ha colpito il paese l’11 marzo 2011 e il successivo danneggiamento della centrale di Fukushima, il Giappone ha perso la sua capacità nucleare fino al maggio 2012. Da allora, soltanto due reattori hanno ripreso a funzionare. Per compensare, gli operatori giapponesi hanno fatto ricorso in modo massiccio al gas naturale importato. Prima del disastro, il nucleare rappresentava il 26% delle fonti di produzione dell’elettricità. Nel 2013, complice anche il deprezzamento dello yen, le dieci maggiori utilities del paese hanno subito perdite nette per circa 30 miliardi di dollari. Sotto il profilo ambientale il Giappone è celebre per aver ospitato nel 1997 i lavori che hanno condotto al Protocollo di Kyoto sulla riduzione delle emissioni di gas serra. La performance del paese relativa all’inquinamento assume connotati opposti a seconda che si guardi all’inquinamento totale o a quello pro capite: sotto il primo aspetto il Giappone è il sesto stato al mondo per emissioni di CO2, con più di un miliardo di tonnellate ogni anno; sotto il secondo si attesta su standard leggermente inferiori a quelli di paesi come Norvegia e Danimarca, noti per essere particolarmente attenti all’ambiente.
Ufficialmente il Giappone non possiede un vero e proprio esercito, ma solo forze di ‘autodifesa’, e tale disposizione è stata fissata nella Carta costituzionale. Shinzō Abe è dichiaratamente intenzionato a cambiare la Costituzione, ma non è in grado di assicurarsi la maggioranza di due terzi necessaria in entrambe le camere. Nel 2015 il premier è comunque riuscito a far approvare un provvedimento storico che autorizza le forze armate a partecipare ad “azioni di difesa collettiva” e modifica le regole di ingaggio. Già nel 1992, la Dieta aveva approvato una legge che oggi permette di inviare militari nell’ambito di missioni multilaterali internazionali, sebbene con regole d’ingaggio limitate. La legge è stata approvata dopo la prima Guerra del Golfo del 1990-91, nella quale Tokyo si limitò a contribuire attraverso aiuti finanziari. Nel 1992 il Giappone ha inviato soldati nell’ambito della missione delle Nazioni Unite in Cambogia. Nel 2004, su richiesta di Washington, Tokyo ha spedito un contingente di circa 600 soldati in Iraq, scelta particolarmente controversa poiché non si trattava di una missione delle Nazioni Unite, ma di un vero e proprio teatro di guerra.
Il dibattito interno circa l’opportunità di costituire una vera e propria struttura militare ha a che fare con l’area di influenza giapponese nel Mar Cinese Orientale e nel Mar Cinese Meridionale. Il contrasto con Pechino sulle Isole Senkaku (Diaoyu in cinese), le cui acque circostanti potrebbero nascondere importanti riserve di gas e petrolio, hanno portato nel 2012 all’acquisto di tre dei cinque isolotti da parte del governo giapponese e della municipalità di Tokyo. Alle vive proteste della Cina è seguita, alla fine del novembre 2013, la dichiarazione di Pechino di un’area di controllo aereo che comprende il gruppo insulare conteso. Alla visita e alla mediazione del vicepresidente Joe Biden, nel dicembre 2013, è seguita l’apertura di negoziazioni nel settembre 2014, per stabilire una linea di comunicazione speciale onde evitare lo scoppio di nuovi incidenti. I negoziati sono tuttora in corso.
Il contrasto con Seoul riguarda invece le Isole Takeshima (Dokdo in coreano e Liancourt in inglese) e ha carattere meno acceso, sebbene gli annunci di dialogo bilaterale non abbiano per ora avuto seguito. Le linee guida del programma nazionale di sicurezza approvate dal governo nel dicembre 2010, con durata decennale, prevedono uno spostamento di alcune importanti risorse militari giapponesi dal nord al sud del paese, per fronteggiare un eventuale pericolo proveniente dalle isole Curili. A questo scopo il governo giapponese ha previsto maggiori investimenti nelle forze navali e aeree, diminuendo quelli diretti alle truppe di terra. Lo stesso programma prevede un rafforzamento delle difese anti-missilistiche, allo scopo di contrastare eventuali attacchi da parte della Corea del Nord.
Gli Usa hanno un ruolo decisivo per il mantenimento dello status quo nelle acque asiatiche e rappresentano il principale partner delle importazioni giapponesi. Nel periodo della creazione dell’area cinese di controllo, caccia americani hanno sorvolato la zona, confermando il ruolo degli Stati Uniti nella regione. L’alleanza, risalente al Trattato di San Francisco (1951) e all’Accordo di difesa e mutua cooperazione (1960), non impedisce un crescente dibattito attorno alla base di Okinawa e al rinnovo delle autorizzazioni. La politica di Abe è decisamente favorevole a puntare in questa direzione, come sembrerebbe indicare il nuovo accordo di cooperazione militare del 2015.
A livello interno, il Giappone ha a che fare con una delle organizzazioni criminali più grandi del mondo in termini numerici: la cosiddetta Yakuza. Con questo termine si individua un’organizzazione, anche detta comunemente ‘mafia giapponese’, le cui attività illecite vanno dal controllo della prostituzione a quello del gioco d’azzardo, fino all’esercizio del racket. Secondo alcune stime la Yakuza, che a sua volta è divisa in vari gruppi, conta più di 100.000 membri ed è attiva non soltanto in Giappone, ma estende il suo raggio d’azione anche ad altri paesi dell’area e perfino agli Stati Uniti. In quest’ultimo caso, la sua presenza è rilevante soprattutto nelle Hawaii, utilizzata come una sorta di base intermedia tra il Giappone e gli stessi Stati Uniti. Oltre a essere dediti ad attività criminali, i membri della Yakuza giapponese sono spesso presenti nella società, come accaduto ad esempio in occasione dell’ultimo terremoto del 2011, dopo il quale l’organizzazione ha messo a disposizione alloggi per gli sfollati e ha inviato beni di prima necessità alle popolazioni maggiormente colpite dalla tragedia. Nel 1992 il governo giapponese ha provveduto a emanare delle leggi speciali volte a sradicare il fenomeno della criminalità organizzata, ma ad oggi i gruppi della Yakuza sono ancora molto attivi e godono in alcuni casi del sostegno di quei cittadini che vedono nell’organizzazione una forma di protezione.
In seguito alla vittoria elettorale del dicembre 2012, il neo premier Shinzō Abe ha avviato un ambizioso piano di politiche economiche riguardanti misure monetarie, fiscali e riforme strutturali – le cosiddette ‘tre frecce’ - che ha assunto il nome di Abenomics. Da quasi vent’anni infatti la crescita del Giappone era bloccata da un forte debito pubblico e dall’inarrestabile invecchiamento della popolazione (anche a causa di un’immigrazione pressoché inesistente), a cui si è progressivamente unita la concorrenza cinese. Dal punto di vista monetario l’obiettivo è il mantenimento del tasso d’inflazione al 2%: il governo l’ha perseguito attraverso massicci acquisti di obbligazioni da parte della Banca centrale. L’intervento in materia fiscale prevede invece lo stimolo dell’economia senza però provocare l’aumento del debito pubblico. Il debito, pur essendo il più alto tra i paesi industrializzati - 245% sul pil – rimane gestibile in quanto è al 90% interno al paese. La tassa sui consumi interni è stata alzata all’8% nel 2014 ma un ulteriore aumento previsto per il 2015 è stato posposto al 2017, nel tentativo di risollevare la domanda interna. Per quanto riguarda l’aspetto più importante dell’Abenomics, ossia le riforme strutturali, esse sono fondamentali per consolidare il parziale successo delle prime due ‘frecce’, e per rendere sostenibile la crescita di medio periodo. Con la ‘terza freccia’ il governo si propone di smantellare parte dell’imponente sistema burocratico giapponese, fatto di consuetudini, regole e procedure che rallentano il processo decisionale, e che spesso favoriscono forme più o meno marcate di corruzione. Al contempo le tasse per le imprese sono state ridotte dal 35% al 30% e nel corso del 2015 sono state pianificate la riforma del mercato del lavoro, del settore agricolo e del sistema sanitario pubblico. L’obbiettivo complessivo è l’eliminazione del disavanzo pubblico entro il 2020. Allo stato attuale delle cose, sebbene siano stati raggiunti buoni risultati dal punto di vista delle prime due frecce, le riforme strutturali, in particolare quella del lavoro, procedono a rilento. Nel complesso però, nonostante gli indicatori economici di breve periodo abbiano registrato solo un leggero miglioramento, le prospettive di medio-lungo periodo del paese sono migliorate e sembrerebbero indicare la riuscita della strategia del premier giapponese. Tra il 2014 e il 2015 l’inflazione ha toccato livelli che non si registravano dal 2008 e per il 2017 dovrebbe avvicinarsi al target del 2%. La crescita del pil è positiva anche se ridotta (poco più dell’1% nel 2016-2017). In queste condizioni il consolidamento dei conti pubblici e la riduzione del debito rimangono molto difficili e rischierebbero di compromettere la fragile ripresa, molto dipenderà dalla capacità del premier di rimanere coerente con i suoi obiettivi e continuare sulla strada delle riforme.
Dal 1955 al 2009 il Giappone ha visto governi a costante conduzione liberal-democratica: il Partito liberal-democratico si era affermato come la maggiore forza politica del paese, raccogliendo attorno a sé gran parte dell’élite burocratica giapponese. Nel 1998 un gruppo di politici riformisti che facevano parte di varie fazioni dell’opposizione ha dato vita al Partito democratico, per creare una forza di opposizione che potesse realmente competere con il dominio politico del Partito liberal-democratico. A differenza di quest’ultimo, composto essenzialmente da burocrati, il nuovo partito ha accolto tra le sue file anche personalità della società civile, come giornalisti, avvocati e membri di organizzazioni non governative. Il Partito democratico ha avuto una rapida crescita dei consensi e nel 2007 ha ottenuto per la prima volta la maggioranza dei voti alle elezioni per il rinnovo della metà dei membri della Camera dei consiglieri. La vittoria politica è stata raggiunta alle elezioni del 2009, nelle quali ha conquistato 308 seggi su 480, relegando per la prima volta nella storia del Giappone il Partito liberal-democratico al secondo posto. Yukio Hatoyama è così divenuto primo ministro, cui sono succeduti Naoto Kan nel 2010 e Yoshihiko Noda nel 2011. La parentesi al governo del Partito democratico si è chiusa nel dicembre 2012, con lo scioglimento della Camera bassa e l’indizione di elezioni anticipate, che hanno riconsegnato il paese al Partito liberaldemocratico.
L’11 marzo 2011, alle ore 14:46, il Giappone è stato colpito da un violento terremoto di magnitudo 9 sulla scala Richter. Poiché l’epicentro era al largo delle coste, si è generato un maremoto con onde a 750 chilometri orari, alte fino a 40 metri. Nonostante le attrezzature antisismiche, l’eccezionalità dell’evento ha causato 15.000 morti e 10.000 dispersi. Le centrali nucleari del paese sono state pericolosamente danneggiate: 14 reattori si sono spenti grazie alle barre di controllo, ma il processo di sicurezza, che avrebbe dovuto raffreddarle, è stato compromesso dal maremoto, provocando esplosioni e fughe di materiale radioattivo. I danni sono stati stimati a più di 230 milioni di dollari dalla Banca mondiale. In soccorso del Giappone si è mossa una missione internazionale composta da Australia, Corea del Sud, Nuova Zelanda, Regno Unito e Stati Uniti. Inoltre, gran parte della comunità internazionale ha inviato aiuti. Il governo giapponese ha stanziato 67 miliardi di dollari per le aree colpite e altri 17,7 miliardi per possibili emergenze future legate al terremoto. Il mondo rimase colpito dall’apparente rapidità del ritorno all’ordine. In realtà, due anni dopo, benché quasi tutte le macerie fossero state rimosse, la vera ricostruzione era in ritardo. In più, molti abitanti vivevano ancora in alloggi temporanei e soffrivano di pesanti disturbi post-traumatici da stress.
Il 5 ottobre del 2015 - dopo lunghi negoziati - il Giappone, gli Stati Uniti e altri dieci paesi dell’area del Pacifico hanno siglato un accordo per ridurre le barriere al libero commercio tra loro. Il trattato, chiamato Trans-Pacific Partnership (Tpp), ha una portata storica in quanto avrà effetti su oltre il 40% dei flussi commerciali mondiali e coinvolgerà due delle più grandi economie al mondo. Fortemente appoggiato dal primo ministro Abe, tale accordo è particolarmente importante per Tokyo: tra le molte categorie di prodotti per cui prevede la progressiva abolizione delle barriere doganali, vi è infatti quella degli autoveicoli. Per i produttori giapponesi ciò costituirà un grosso vantaggio: fino ad oggi, infatti, le importazioni di autovetture dal Giappone negli Stati Uniti erano soggette a onerosi dazi doganali. La sigla dell’accordo rientra nella strategia di Abe per il rilancio dell’economia del paese: per il Giappone il commercio con i paesi partner della Tpp costituisce circa il 28% del commercio totale. Inoltre, se da un lato la partnership favorirà l’export, dall’altro le industrie giapponesi potranno acquistare più facilmente i beni intermedi necessari per le loro produzioni nei paesi partner. L’abolizione delle barriere doganali sui prodotti agricoli e sul bestiame (costituite da una stringente legge sulla food security) è stata oggetto di forti critiche da parte di agricoltori e allevatori, ma il premier ha dichiarato che ciò contribuirà a migliorare la competitività dei produttori giapponesi e avrà l’effetto di abbassare i prezzi di tali prodotti per i consumatori. L’accordo, infine, ha anche una forte valenza politica e contribuisce a rafforzare ulteriormente il legame con gli Stati Uniti.
Approfondimento
Shinzo Abe è tornato a guidare il Giappone nel Dicembre del 2012. Dopo soli due anni la sua leadership è stata rafforzata dal ricorso alle elezioni anticipate. Nei tre anni alla guida del governo Abe ha impresso una notevole accelerazione al processo di evoluzione della politica estera e di sicurezza giapponesi. Questo cambiamento coinvolge tre dimensioni. La prima riguarda la normalizzazione della politica di sicurezza, ovvero il progressivo superamento dei limiti istituzionali che hanno caratterizzato il pacifismo giapponese nel dopoguerra. La seconda concerne il rapporto con gli Stati Uniti. La terza le relazioni tra Tokyo e il resto dell’Asia Orientale.
Sul fronte del processo di normalizzazione Abe ha promosso il concetto di “pacifismo attivo”. Secondo questo principio il Giappone non dovrebbe limitarsi ad astenersi da ogni tipo di ricorso alla forza e comportarsi da “consumatore di sicurezza”. Al contrario, dovrebbe diventare un “contributore attivo” per la pace e la stabilità in Asia e a livello globale.
Ciò conduce a diversi sviluppi rilevanti. In primo luogo vengono ampliate le possibilità di azione delle forze di auto-difesa giapponesi. Dal Giugno del 2014 una reinterpretazione dell’Articolo 9 della costituzione ammette l’impego delle forze armate per fini di “auto-difesa collettiva” (ovvero contribuire alla difesa di un paese alleato nel caso in cui la sicurezza del Giappone sia minacciata).
Inoltre, la prima National Security Strategy, pubblicata nel Dicembre 2013, dichiara che il compito delle forze armate, oltre all’auto-difesa, è anche quello di esercitare deterrenza, ovvero impedire ad altre nazioni, la Cina in primo luogo, di porre una minaccia all’integrità dei confini territoriali e marittimi del paese.
Nel 2014 sono stati compiuti altri importanti passi verso il progressivo superamento dei limiti istituzionali creati nel dopoguerra. Il governo Abe ha modificato i Tre Principi di Esportazione delle Armi, uno dei cardini del pacifismo post-bellico. Nel 1967 il governo aveva dichiarato illegale la vendita di armi o tecnologie militari a qualsiasi paese comunista, sotto embargo Un, o “con la probabilità di essere coinvolto in un conflitto”. Nel 1976, questo divieto era stato trasformato in un divieto assoluto. Nel 2014 il governo Abe è tornato alla versione originale. Ciò significa che Tokyo, sotto l’agenda del pacifismo pro-attivo, può fornire tecnologie militari a paesi terzi e collaborare a progetti militari congiunti, quali F-35 e difesa anti-missile.
Abe ha anche promosso la creazione di un consiglio di sicurezza nazionale sul modello americano, con l’obiettivo di accentrare il processo decisionale e di pianificazione strategica nel settore della sicurezza, togliendo così potere alle burocrazie ministeriali.
Questa dichiarata espansione dei compiti delle forze di auto-difesa è stata associata ad un aumento delle spese militari che hanno superato i 45 miliardi di dollari l’anno. Il budget della difesa giapponese rimane in ogni caso al di sotto del 1% del pil e di molto inferiore - sia in termini totale sia in termini di aumento annuale - a quello cinese, che supera i 150 miliardi e cresce in media di 10% all’anno.
La normalizzazione della politica di sicurezza è associata al consolidamento dell’alleanza con gli Stati Uniti. Nel 2015, Tokyo e Washington hanno approvato le nuove linee guida per l’alleanza, documento che definisce i compiti dei due alleati e delle rispettive forze armate, modificate in precedenza solo nel 1978 e nel 1997. Il documento prevede maggiore collabozione in aree diverse dalla pura difesa del Giappone tra le quali peacekeeping, deterrenza, sicurezza marittima, sorveglianza e condivisione di intelligence.
Per adempiere agli impegni presi con le linee guida il governo Abe ha promosso una serie di ulteriori cambiamenti legislativi, quali la nuova legge sul segreto di stato che favorisce la protezione di dati sensibili, la cooperazione nell’ambito di produzione congiunta di tecnologie militari e la condivisione di intelligence con paesi alleati.
La terza dimensione rilevante per la politica estera di Abe è il rapporto con l’Asia. Mentre il Dpj durante il triennio 2009-2012 aveva tentato di costruire un riavvicinamento con Pechino, Abe ha promosso un ‘ri-orientamento verso sud’. Ciò ha condotto a una partnership con l’Australia nel settore della difesa e ad un rinnovato attivismo nei confronti dell’Asean, in primo luogo Vietnam e Filippine, ovvero gli stati che si sentono più minacciati dall’ascesa cinese.
In conclusione, Abe ha impresso una decisa accelerazione ad un processo evolutivo in corso dalla fine della guerra fredda. Tuttavia, nessuno di questi cambiamenti, per quanto significativi a livello internazionale e contestati a livello domestico, comporta un ritorno al militarismo o all’imperialismo. Il Giappone sta più semplicemente diventando un paese impegnato nel garantire stabilità e sicurezza in Asia Orientale.
di Matteo Dian