Vedi Giappone dell'anno: 2012 - 2013 - 2014 - 2015 - 2016
Il Giappone, terza economia del mondo e quarta nel periodo 1990-2012, è una delle potenze regionali dell’Asia, grazie alla capacità di influenzare i paesi del Sud-Est asiatico e con legami internazionali tali da assolvere un rilevante ruolo nella comunità internazionale. Nel quadro delle dinamiche regionali, tuttavia, il Giappone risente ancora del fatto di essere stato una potenza occupante in alcune aree (principalmente nelle due Coree e in alcune regioni cinesi). Dalla fine della Seconda guerra mondiale, dopo essere stato sconfitto dalle potenze alleate, il Giappone è stato cooptato dagli Stati Uniti all’interno delle dinamiche geopolitiche e strategiche del blocco occidentale e ha costituito uno dei punti di riferimento fondamentali in Asia per Washington. Occupato dagli Stati Uniti fino al 1952, il paese ha adottato una linea pacifista, fissandola nell’articolo 9 della sua Costituzione, approvata nel 1947. In tale articolo si esprime la condanna degli atti di aggressione e la rinuncia alla costituzione di un esercito autonomo. Per più di quarant’anni il Giappone ha mantenuto lo status di seconda potenza economica al mondo dopo gli Stati Uniti. Anche per questo, Tokyo ha rivendicato, e continua a rivendicare, una sempre maggiore indipendenza nella gestione della propria politica estera, anche alle luce dei suoi interessi nella regione asiatica.
I rapporti con la Cina sono ambivalenti: da un lato Pechino è il primo partner commerciale del Giappone, dall’altro la Cina compete con Tokyo per questioni d’influenza regionale ed è animata da un’ostilità che deriva dal periodo dell’occupazione giapponese. Più di recente, è cresciuta la tensione per alcune dispute territoriali che coinvolgono i due paesi. In particolare, la recente zona aerea di controllo, dichiarata dalla Cina e comprendente anche le contese Isole Senkaku/Diaoyu è stata duramente contestata dal primo ministro Shinzo Abe, in carica dal dicembre 2012, che mantiene posizioni molto dure nei confronti di Pechino. La coalizione del Partito liberaldemocratico (Jiyū-Minshutō, Ldj) può contare su una base solida nel parlamento e si prevede che manterrà alta la tensione sui conflitti marittimi. Il sostegno statunitense si è rivelato ancora una volta fondamentale: gli Usa si sono subito schierati a fianco del Giappone per arginare l’iniziativa cinese. Il Giappone ha però contrasti di lunga data anche con la Corea del Sud sulle Isole Dokdo e con la Russia sulle Curili. La percezione giapponese e dei suoi antagonisti su tali questioni si lega agli esiti della Seconda guerra mondiale e alle definizioni territoriali di quel periodo.
Anche sul fronte interno, il governo di Shinzo Abe ha dimostrato un certo grado di iniziativa. In particolare, la politica economica adottata dall’esecutivo, ribattezzata Abeconomics, si è rivelata particolarmente incisiva. Tuttavia, sono ancora persistenti i problemi tipici dell’economia giapponese – in particolare, il rapporto fra debito e pil.
Il Giappone è formalmente una monarchia costituzionale, in cui il capo è l’imperatore Akihito, in carica dal 1989. L’imperatore ha un ruolo esclusivamente cerimoniale e il potere esecutivo è affidato al governo, guidato dal primo ministro. Il sistema istituzionale giapponese prevede una struttura bicamerale per il legislativo, la Dieta, composta dalla camera dei rappresentanti e dalla camera dei consiglieri. La camera dei rappresentanti ha poteri maggiori: composta da 480 membri, eletti a suffragio universale ogni quattro anni, conferisce e toglie la fiducia al governo. La camera dei consiglieri è invece composta da 242 membri eletti ogni sei anni, con la metà dei membri rinnovata ogni tre anni.
A dominare lo scenario politico dell’ultimo mezzo secolo è stato il Partito liberal-democratico, ininterrottamente in carica tra il 1955 e il 2009, quando il Partito democratico giapponese (Minshu-tō, Dpj) è riuscito a prevalere nelle elezioni per la camera dei rappresentanti e a scalzare i liberal-democratici dalla guida dell’esecutivo. Nel dicembre 2012, però, l’ex primo ministro Yoshihiko Noda ha sciolto la camera dei rappresentanti, convocando elezioni anticipate. Dalle elezioni è emerso ancora una volta vincitore il Partito liberal-democratico guidato dal nazionalista Shinzo Abe, riconfermato anche alle elezioni anticipate del dicembre 2014. Dal 2006 il sistema politico giapponese ha registrato una forte instabilità, manifestatasi con l’avvicendamento di sei diversi primi ministri in sei anni, dopo lo stabile periodo di governo di Junichiro Koizumi (2001-06).
Il Giappone è tra i primi paesi al mondo per densità demografica. Con un territorio di poco superiore a quello italiano, ha più del doppio degli abitanti. Più di un terzo della popolazione risiede nella grande area di Tokyo, l’area metropolitana più popolosa al mondo. La zona è caratterizzata da un’elevatissima densità di abitanti (circa 2500 persone per km2), sette volte superiore alla media nazionale; il suo pil è di poco inferiore a quello francese. I giapponesi sono la popolazione più vecchia del mondo davanti a Germania e Italia e dietro al Principato di Monaco. Inoltre il paese detiene anche il primato relativo alla quota di persone che hanno superato i sessanta anni (29,7%) e gli ottanta (6,1%), mentre sconta uno dei tassi di fecondità più bassi al mondo (1,4 figli per donna).
La rilevanza di questi dati emerge ancora più chiaramente se analizzati in prospettiva storica: se per un paese industrializzato è comune avere circa un 20% della popolazione con più di sessanta anni, l’incremento percentuale verificatosi in Giappone nel corso di trent’anni richiede normalmente un secolo. Alla fine della Seconda guerra mondiale, l’età mediana giapponese era la metà di quella attuale e, fino alla metà degli anni Settanta, il tasso di fecondità superava il 2%, il che permetteva una certa stabilità demografica. Nel quinquennio 2005-10 si è assistito alla prima contrazione della popolazione, con una riduzione dello 0,07% (91.000 persone). È previsto un decremento ancora più rapido nei prossimi decenni. Un simile trend demografico è carico di implicazioni, innanzitutto di natura economica. Una delle più immediate è la crescente incidenza delle pensioni sulla spesa pubblica: oggi non supera il 20% del pil, ma si stima che nel 2035 potrebbe oltrepassare il 35%.
Un altro dato che caratterizza la società giapponese è la fortissima omogeneità linguistica, culturale e storica: il 99,4% della popolazione è giapponese e condivide un forte orgoglio e sentimento di unità nazionale. L’unico gruppo etnico distinto è quello ainu, che conta 25.000 persone ed è concentrato quasi esclusivamente sull’isola di Hokkaido e sulle isole Curili.
Nonostante il buon indice di Transparency International riguardo alla corruzione percepita, lo stretto legame tra i mondi industriale, burocratico e politico, ossia il cosiddetto ‘triangolo di ferro’, è all’origine di stretti rapporti trasversali a livello personale. Pur avendo, poi, firmato la Convenzione contro la corruzione delle Nazioni Unite, Tokyo non ha ancora proceduto alla sua ratifica.
Quanto al settore dei media, nonostante i cinque maggiori quotidiani giapponesi siano i più venduti nel mondo, anche la libertà di stampa è minacciata dalla prassi del governo di utilizzare i club della stampa (kisha kurabu) per assicurarsi il controllo dell’informazione. Entrare a far parte di questi ultimi rappresenta l’aspirazione massima per i giornalisti giapponesi. Trovandosi all’interno delle strutture pubbliche, questi club hanno l’esclusiva su molte informazioni ufficiali, fornite direttamente da esponenti politici, ma non sviluppano un autonomo giornalismo d’inchiesta.
Altre libertà sono invece maggiormente tutelate: Internet è libero. La Costituzione garantisce poi la piena libertà di associazione e di religione. I sindacati sono indipendenti ed è previsto il diritto di sciopero, fatta eccezione per i componenti delle forze di polizia e dei vigili del fuoco. Sebbene la Costituzione tuteli la parità di genere, le donne sono frequentemente discriminate sul lavoro.
Fino alla crisi internazionale del 2009, il Giappone è stata la seconda economia del mondo in termini di pil. Nonostante nel 2010 sia stato superato dalla Cina, rimane tuttora uno tra i primi paesi al mondo quanto a pil pro capite. Per dare una stima della sua influenza nelle organizzazioni economiche internazionali, basti dire che la sua quota nel Fondo monetario internazionale è inferiore soltanto a quella degli Stati Uniti. Tuttavia, la crisi globale ha colpito duramente l’economia, facendone precipitare il pil del 5,3% nel 2009 e provocando un incremento della disoccupazione, che ha raggiunto un picco del 5,6% nell’estate 2009 (dato inferiore, tuttavia, a quello di quasi tutti gli altri paesi a capitalismo avanzato). La crisi, unita alla bassa natalità strutturale del Giappone e alle forti restrizioni verso l’immigrazione straniera, ostacola l’espansione della forza lavoro necessaria alla ripresa economica. Le strutture della forza lavoro stanno inoltre vivendo un momento di transizione, improntato a una maggiore diffusione degli impieghi part-time e della flessibilità. Un altro peso che grava sul futuro dell’economia giapponese è il livello del debito pubblico: è il più alto al mondo, e supera il 243% del pil. Ciò ha conseguenze negative sulle politiche fiscali, dal momento che una grossa fetta del bilancio statale è destinata al pagamento del passivo accumulato, mentre la Banca centrale non può attuare politiche monetarie espansive per il livello dei tassi di interesse. Questi ultimi sono prossimi allo zero – caso unico al mondo – per scongiurare un’altra grande paura del Giappone: la deflazione. Dopo il 2009, l’economia non ha ripreso coerentemente a crescere: il +5% del 2010 è stato contraddetto dal -1% del 2011 e dal 2% del 2012. Nel 2013 si è avuto un aumento dell’occupazione e del settore industriale, ma nel 2014 la crescita si è fermata allo 0,9%, entrando nuovamente in recessione a fine anno. Su questo andamento sembra influire la politica di tassazione dei consumi, che il governo intende mantenere, giudicando l’economia abbastanza forte da assorbirla. Uno dei maggiori punti di forza risiede nelle entrate derivanti dagli investimenti esteri, sia diretti sia di portafoglio, e nella capacità di mantenersi ai vertici tecnologici, grazie alla priorità strategica assegnata alla ricerca e allo sviluppo. Sul lungo periodo, la scommessa vinta da Tokyo per le Olimpiadi del 2020 creerà nuove occasioni per convogliare investimenti e dare fiducia ai consumi.
Il deprezzamento dello yen, che si è avuto per tutto il 2014, sembra destinato a continuare, sebbene più lentamente. Gli effetti negativi sono stati numerosi, a cominciare dalle importazioni inderogabili per il Giappone. Ma ce ne sono stati di positivi, come l’incentivo dato alle esportazioni. Il commercio ha risentito dello tsunami del 2011: era già stato danneggiato dalla depressione del 2009 e soltanto recentemente sembra in ripresa, con un’accelerazione nel 2014-15. Nel 2014, i principali partner per le esportazioni sono stati Usa (19%); Cina (18%) e Corea del Sud (8%). Per quanto concerne le importazioni, il Giappone dipende dall’estero per settori critici, come quello energetico. Cresce anche il flusso proveniente dalla Cina: il 22% di Pechino marca una differenza con il secondo posto di Washington (9%) e il terzo di Canberra (6%). In effetti, il trend che negli ultimi 25 anni ha garantito una bilancia commerciale positiva si è invertito sino a far diventare il Giappone un paese in deficit. La crescente importanza della Repubblica Popolare Cinese risale al 2008 e, dato che l’attuale amministrazione guidata da Shinzo Abe ha posizioni molto dure sui territori contesi, il fattore economico e finanziario potrebbe costituire una certa importanza nelle relazioni bilaterali. Tuttavia, l’impatto del commercio estero sul pil è del 28,3% nel 2013 e, anche prima della crisi, non superava il 31,8% (2008), mentre nel 1999 incideva per il 16,4%.
Il dato centrale della politica energetica del Giappone è rappresentato dalla sua forte dipendenza dalle importazioni: solo l’11% del fabbisogno di energia è soddisfatto dalle risorse interne. Se a ciò si aggiunge che il Giappone è il terzo consumatore mondiale di petrolio (dopo Cina e Stati Uniti), il terzo importatore netto di greggio e il primo importatore assoluto di gas liquefatto e carbone, appare chiara la necessità di adottare strategie per ridurre la dipendenza e la vulnerabilità che ne deriva. Negli scorsi decenni il governo giapponese ha cercato di ridurre il consumo di petrolio e ha conseguito l’obiettivo, dal momento che la percentuale di greggio all’interno del mix energetico del paese è passata dal 70% degli anni Settanta all’attuale 45%. Inoltre, il paese mantiene un buono stock di riserve, quantificabili in 590 milioni di barili di petrolio, ovvero, dato il livello del consumo medio, sufficienti a soddisfare la domanda per circa quattro mesi e mezzo. In più, le compagnie giapponesi nel campo dell’energia investono massicciamente all’estero, soprattutto in Medio Oriente e negli stati del Sud-Est asiatico, sulla base di un elevato know how a livello ingegneristico e grazie al primato detenuto dal Giappone come primo esportatore al mondo di attrezzature per l’industria energetica. Infine, negli ultimi decenni il Giappone ha anche investito nella costruzione di un consistente parco di centrali nucleari.
In seguito al terremoto che ha colpito il paese l’11 marzo 2011 e il successivo danneggiamento della centrale di Fukushima, il paese ha perso la sua capacità nucleare fino al maggio 2012. Da allora, soltanto due reattori hanno ripreso a funzionare. Per compensare, gli operatori giapponesi hanno fatto ricorso in modo massiccio al gas naturale importato. Prima del disastro, il nucleare rappresentava il 26% delle fonti di produzione dell’elettricità. Nel 2013, complice anche il deprezzamento dello yen, le dieci maggiori utilities del paese hanno subito perdite nette per circa 30 miliardi di dollari. Sotto il profilo ambientale il Giappone è celebre per aver ospitato nel 1997 i lavori che hanno condotto al Protocollo di Kyoto sulla riduzione delle emissioni di gas serra. La performance del paese relativa all’inquinamento assume connotati opposti a seconda che si guardi all’inquinamento totale o a quello pro capite: sotto il primo aspetto il Giappone è il quinto Stato al mondo per emissioni di CO2, con più di un miliardo di tonnellate ogni anno, mentre sotto il secondo si attesta su standard leggermente inferiori a quelli di paesi come Norvegia e Danimarca, noti per essere particolarmente attenti all’ambiente.
Ufficialmente il Giappone non possiede un vero e proprio esercito, ma solo forze di ‘autodifesa’, e tale disposizione è stata fissata nella carta costituzionale. Shinzo Abe è dichiaratamente intenzionato a cambiare la Costituzione, ma non è in grado di assicurarsi la maggioranza di due terzi necessaria in entrambe le camere. Già nel 1992 la Dieta aveva approvato una legge che oggi permette di inviare militari nell’ambito di missioni multilaterali internazionali, sebbene con regole d’ingaggio limitate. La legge è stata approvata dopo la prima Guerra del Golfo del 1990-91, per la quale Tokyo si limitò a contribuire attraverso aiuti finanziari. Nel 1992 il Giappone ha inviato soldati nell’ambito della missione delle Nazioni Unite in Cambogia. Nel 2004, su richiesta di Washington, Tokyo ha spedito un contingente di circa 600 soldati in Iraq, scelta particolarmente controversa poiché non si trattava di una missione delle Nazioni Unite, ma di un vero e proprio teatro di guerra.
Il dibattito interno circa l’opportunità di costituire una vera e propria struttura militare ha a che fare con l’area di influenza giapponese nel Mar Cinese Orientale e nel Mar Cinese Meridionale. Il contrasto con Pechino sulle Isole Senkaku (Diaoyu in cinese), le cui acque circostanti potrebbero nascondere importanti riserve di gas e petrolio, hanno portato nel 2012 all’acquisto di tre dei cinque isolotti da parte del governo giapponese e della municipalità di Tokyo. Alle vive proteste della Cina è seguita, alla fine del novembre 2013, la dichiarazione di Pechino di un’area di controllo aereo che comprende il gruppo insulare conteso. Alla visita e alla mediazione del vicepresidente Joe Biden, nel dicembre 2013, è seguita l’apertura di negoziazioni nel settembre 2014, per stabilire una linea di comunicazione speciale onde evitare lo scoppio di nuovi incidenti.
Il contrasto con Seoul riguarda invece le Isole Takeshima (Dokdo in coreano e Liancourt in inglese) e ha carattere meno acceso, sebbene gli annunci di dialogo bilaterale del 2006 non abbiano avuto seguito. Le linee guida del programma nazionale di sicurezza approvate dal governo nel dicembre 2010, con durata decennale, prevedono uno spostamento di alcune importanti risorse militari giapponesi dal nord al sud del paese, per fronteggiare un eventuale pericolo proveniente dalle isole Curili. A questo scopo il governo giapponese ha previsto maggiori investimenti nelle forze navali e aeree, diminuendo quelli diretti alle truppe di terra. Lo stesso programma prevede un rafforzamento delle difese anti-missilistiche, allo scopo di contrastare eventuali attacchi da parte della Corea del Nord.
Gli Usa hanno un ruolo decisivo per il mantenimento dello status quo nelle acque asiatiche e rappresentano il principale partner delle importazioni giapponesi. Nel periodo della creazione dell’area cinese di controllo, caccia americani hanno sorvolato la zona, confermando il ruolo degli Stati Uniti nella regione. L’alleanza, risalente al Trattato di San Francisco (1951) e all’Accordo di difesa e mutua cooperazione (1960), non impedisce un crescente dibattito attorno alla base di Okinawa e al rinnovo delle autorizzazioni. La politica di Abe è decisamente favorevole a puntare in questa direzione e Martin Dempsey, capo di stato maggiore congiunto degli Usa, ha riaffermato pubblicamente nell’aprile 2013 il sostegno di Washington nei confronti di Tokyo.
A livello interno, il Giappone ha a che fare con una delle organizzazioni criminali più grandi del mondo in termini numerici: la cosiddetta Yakuza. Con questo termine si individua un’organizzazione, anche detta comunemente ‘mafia giapponese’, le cui attività illecite vanno dal controllo della prostituzione a quello del gioco d’azzardo, fino all’esercizio del racket. Secondo alcune stime la Yakuza, che a sua volta è divisa in vari gruppi, conta più di 100.000 membri ed è attiva non soltanto in Giappone, ma estende il suo raggio d’azione anche ad altri paesi dell’area e perfino agli Stati Uniti. In quest’ultimo caso, la sua presenza è rilevante soprattutto nelle Hawaii, utilizzata come una sorta di base intermedia tra il Giappone e gli stessi Stati Uniti. Oltre a essere dediti ad attività criminali, i membri della Yakuza giapponese sono spesso presenti nella società, come accaduto ad esempio in occasione dell’ultimo terremoto del 2011, dopo il quale l’organizzazione ha messo a disposizione alloggi per gli sfollati e ha inviato beni di prima necessità alle popolazioni maggiormente colpite dalla tragedia. Nel 1992 il governo giapponese ha provveduto a emanare delle leggi speciali volte a sradicare il fenomeno della criminalità organizzata, ma ad oggi i gruppi della Yakuza sono ancora molto attivi e godono in alcuni casi del sostegno di quei cittadini che vedono nell’organizzazione una forma di protezione.
In seguito alla vittoria elettorale del dicembre 2012, il neo premier Shinzo Abe ha avviato un ambizioso piano di politiche economiche riguardanti misure monetarie, fiscali e riforme strutturali – le cosiddette ‘tre frecce’ in giapponese - che ha assunto il nome di Abenomics. Da quasi vent’anni infatti la crescita del Giappone era bloccata da un forte debito pubblico e dall’inarrestabile invecchiamento della popolazione (anche a causa di un’immigrazione pressoché inesistente), a cui si è progressivamente unita la concorrenza cinese. Dal punto di vista monetario l’obiettivo è il mantenimento del tasso d’inflazione al 2%, e il governo l’ha perseguito attraverso massicci acquisti di obbligazioni da parte della Banca centrale. L’intervento in materia fiscale prevede invece lo stimolo dell’economia senza però provocare l’aumento del debito pubblico. Il debito, pur essendo il più alto tra i paesi industrializzati - 225% sul pil – rimane gestibile in quanto è al 90% interno al paese. La tassa sui consumi interni è stata alzata all’8% nel 2014, e si prevede che subirà un ulteriore aumento nel corso del 2015. Per quanto riguarda l’aspetto più importante dell’Abenomics, ossia le riforme strutturali, esse sono fondamentali per consolidare il parziale successo delle prime due ‘frecce’, e per rendere sostenibile la crescita di medio periodo. Con la ‘terza freccia’ il governo si propone di smantellare parte dell’imponente sistema burocratico giapponese, fatto di consuetudini, regole e procedure che rallentano il processo decisionale, e che spesso favoriscono forme più o meno marcate di corruzione. Al contempo le tasse per le imprese, già ridotte al 35%, dovrebbero diminuire ulteriormente al 30%, e nel corso del 2015 sono state pianificate la riforma del mercato del lavoro, del settore agricolo e del sistema sanitario pubblico. L’obbiettivo complessivo è l’eliminazione del disavanzo pubblico entro il 2020. Allo stato attuale delle cose, sebbene siano stati raggiunti buoni risultati dal punto di vista delle prime due frecce, rimangono dubbi riguardo alle decisive riforme strutturali. Sebbene mostrino una volontà senza precedenti del governo nazionale nel riformare il sistema economico giapponese, le riforme sembrano complessivamente mancare di precise scadenze e strategie per la loro messa in atto. Infine la crescita economica, che sembrava aver lanciato segnali promettenti nel 2012, ha subito un nuovo rallentamento nel 2014. La recessione tecnica registrata a fine dicembre 2014 ha portato Abe ad indire nuove elezioni per ottenere conferma del mandato, nonostante le difficoltà economiche.
Dal 1955 al 2009 il Giappone ha visto governi a costante conduzione liberal-democratica: il Partito liberal-democratico si era affermato come la maggiore forza politica del paese, raccogliendo attorno a sé gran parte dell’élite burocratica giapponese. Nel 1998 un gruppo di politici riformisti che facevano parte di varie fazioni dell’opposizione ha dato vita al Partito democratico, per creare una forza di opposizione che potesse realmente competere con il dominio politico del Partito liberaldemocratico. A differenza di quest’ultimo, composto essenzialmente da burocrati, il nuovo partito ha accolto tra le sue file anche personalità della società civile, come giornalisti, avvocati e membri di organizzazioni non governative. Il Partito democratico ha avuto una rapida crescita dei consensi e nel 2007 ha ottenuto per la prima volta la maggioranza dei voti alle elezioni per il rinnovo della metà dei membri della camera dei consiglieri. La vittoria politica è stata raggiunta alle elezioni del 2009, nelle quali ha conquistato 308 seggi su 480, relegando per la prima volta nella storia del Giappone il Partito liberal-democratico al secondo posto. Yukio Hatoyama è così divenuto primo ministro, cui è succeduto Naoto Kan nel 2010 e Yoshihiko Noda nel 2011. La parentesi del Partito democratico si è chiusa nel dicembre 2012, con lo scioglimento della camera bassa e l’indizione di elezioni anticipate, che hanno riconsegnato il paese al Partito liberaldemocratico.
L’11 marzo 2011, alle ore 14:46, il Giappone è stato colpito da un violento terremoto di magnitudo 9 sulla scala Richter. Poiché l’epicentro era al largo delle coste, si è generato un maremoto con onde a 750 chilometri orari, alte fino a 40 metri. Nonostante le attrezzature antisismiche, l’eccezionalità dell’evento ha causato 15.000 morti e 10.000 dispersi. Le centrali nucleari del paese sono state pericolosamente danneggiate: 14 reattori si sono spenti grazie alle barre di controllo, ma il processo di sicurezza, che avrebbe dovuto raffreddarle, è stato compromesso dal maremoto, provocando esplosioni e fughe di materiale radioattivo. I danni sono stati stimati a più di 230 milioni di dollari dalla Banca mondiale. In soccorso del Giappone si è mossa una missione internazionale composta da Australia, Corea del Sud, Nuova Zelanda, Regno Unito e Stati Uniti. Inoltre, gran parte della comunità internazionale ha inviato aiuti. Il governo giapponese ha stanziato 67 miliardi di dollari per le aree colpite e altri 17,7 miliardi per possibili emergenze future legate al terremoto. Il mondo rimase colpito dall’apparente rapidità del ritorno all’ordine. In realtà, due anni dopo, benché quasi tutte le macerie fossero state rimosse, la vera ricostruzione era in ritardo. In più, molti abitanti vivevano ancora in alloggi temporanei e soffrivano di pesanti disturbi post-traumatici da stress.
Dalla fine della Seconda guerra mondiale gli Stati Uniti hanno mantenuto una presenza militare in Giappone che ha superato i 40.000 soldati. Le relazioni tra Tokyo e Washington sono incentrate da un lato sulle questioni della sicurezza e della difesa, e dall’altro sui legami commerciali (nel 2011 il volume complessivo del commercio bilaterale ha raggiunto i 260 miliardi di dollari). Per il Giappone, la presenza statunitense costituisce una garanzia di sicurezza rispetto alle possibili minacce regionali, che arrivano da Corea del Nord e Cina. Allo stesso tempo, per gli Stati Uniti la presenza in Giappone rappresenta il caposaldo della strategia di sicurezza in Asia orientale. Washington e Tokyo hanno firmato un accordo di sicurezza nel 1960, che regola e determina la presenza statunitense in Giappone. Tuttavia, negli ultimi anni in Giappone ha avviato un dibattito circa la presenza dei militari statunitensi sull’isola di Okinawa. L’isola è stata amministrata direttamente da Washington fino al 1972, anno in cui è tornata sotto la sovranità giapponese. A oggi, più della metà degli oltre 40.000 militari statunitensi presenti in Giappone sono concentrati sull’isola, che rappresenta solo l’1% del territorio totale giapponese. Nel 2006 gli Stati Uniti e il Giappone hanno raggiunto un accordo circa lo spostamento dei militari di stanza a Futenma, una base aerea di Okinawa, verso altre basi del territorio giapponese. Durante la campagna elettorale del 2009 il Partito democratico ha vinto anche grazie alla promessa di rivedere l’accordo, allo scopo di trasferire tutti i soldati americani dall’isola di Okinawa. La questione ha rischiato di incrinare la relazione tra Tokyo e Washington, dal momento che per gli Stati Uniti la posizione di Okinawa è strategica e difficilmente sostituibile con altre basi (per esempio l’isola statunitense di Guam), poiché è equidistante da molti teatri importanti come Taiwan, la Cina e la penisola coreana. Nonostante le promesse elettorali, una volta eletto, l’allora primo ministro Hatoyama ammise che fosse irrealistico pensare a uno spostamento del contingente di Futenma al di fuori dell’isola. Sebbene ciò abbia contribuito a rinsaldare i legami con Washington, la gestione ambivalente della questione ha concorso alle dimissioni di Hatoyama nel 2010.
Il 1° luglio 2014 il governo guidato da Abe ha annunciato di voler reinterpretare l’Articolo 9 sulla rinuncia al diritto alla guerra in modo da consentire alle forze armate giapponesi – le Forze di Autodifesa, nate nel 1954 – di rendere esecutivo il diritto all’autodifesa collettiva del territorio giapponese.
Contrariamente a quanto molti politici e accademici (allarmisti) cinesi hanno suggerito, questa reinterpretazione dell’Articolo 9 della Costituzione non è sinonimo della progressiva riaffermazione del militarismo giapponese, ma, al contrario, prova che le politiche sulla sicurezza di Tokyo rimarranno strettamente orientate alla difesa. Fino ad ora l’Articolo 9 – che in senso stretto non permette al Giappone di avere un esercito (per questa ragione il corpo militare giapponese è chiamato ‘Forze di Autodifesa’) – vietava il diritto all’autodifesa collettiva come formulata nel Capitolo VII dello Statuto delle Nazioni Unite – il diritto a difendere militarmente le forze armate di altri paesi in operazioni militari bilaterali o multilaterali.
La reinterpretazione dell’Articolo 9 non porterà alla possibilità che il Giappone colpisca basi militari oltreoceano né che sviluppi capacità di condurre spedizioni che possano impegnare le forze armate nel paese in combattimenti ad alta intensità in Asia Orientale o altrove. Infatti, «nelle nuove condizioni per la mobilitazione difensiva, le Forze di Autodifesa saranno spedite a sostenere gli alleati sotto attacco solo a condizione che l’attacco costituisca una chiara minaccia per il Giappone. La ‘vera’ autodifesa collettiva, invece, è un diritto che consente alle nazioni di considerare un attacco su un alleato o uno stato partner che non rappresenta nessun pericolo per se stessi come se lo fosse e rispondere dunque con l’uso della forza», scrive Corey Wallace. A meno che Tokyo non decida di adottare un quadro normativo che consenta all’esercito giapponese di rendere esecutivo il diritto all’autodifesa collettiva, intervenendo con l’esercito per difendere i soldati di altri paesi per motivi altri che non la difesa del territorio giapponese, alle Forze di Autodifesa non sarà consentito neanche in futuro di combattere in territorio straniero se impegnate in missioni di pace o umanitarie. Al contrario, quando impegnate all’estero in situazioni come le Operazioni di Pace dell’Un, le forze armate giapponesi potrebbero addirittura chiedere protezione militare di eserciti di altri paesi. Nel 2004 e 2005, ad esempio, l’accampamento giapponese nel sud dell’Iraq fu protetto da contingenti australiani e olandesi a causa delle restrizioni (molto) severe sull’uso della forza militare dei soldati giapponesi. Sebbene la reinterpretazione e la revisione della Costituzione sia una delle priorità della politica di Abe sin dalla sua salita al potere nel dicembre 2012, la questione dell’autodifesa collettiva è stata nel programma politico giapponese degli ultimi venti anni. Le sempre più frequenti intrusioni cinesi nelle acque territoriali giapponesi nel Mar cinese orientale hanno dato infatti al governo un numero sufficiente di ‘case study’ per spiegare agli elettori in maniera plausibile il perché è necessario concedere ai militari giapponesi di fare le stesse cose che i loro colleghi in altri paesi ‘normali’ fanno in patria e promuovere politiche di sicurezza all’estero e di difesa che trasformino il Giappone da paese ‘passivamente pacifista’ a ‘attivamente pacifista’.
E’ certo che Abe e gli altri nazionalisti e revisionisti giapponesi vogliano di più che solo una mera reinterpretazione costituzionale, ma sono stati obbligati ad accettare una reinterpretazione piuttosto che una revisione costituzionale (in pratica, la revisione dell’Articolo 9 sulla rinuncia alla guerra) che i propugnatori della difesa nazionale avevano in mente. Infatti, anche i politici nazionalisti e revisionisti giapponesi più irriducibili sono dovuti venire a patti con il fatto che la revisione costituzionale – per i motivi spiegati sopra – non accadrà nel breve termine.
I timori di Pechino e Seoul che la reinterpretazione dell’Articolo 9 possa rappresentare la re-militarizzazione delle politiche sulla sicurezza giapponesi potrebbero avere qualche consenso a buon mercato all’interno dei due paesi, ma non hanno nulla a che vedere con come (realisticamente) la posizione difensiva di Tokyo cambierà nei prossimi anni. Infatti, conclude Simon Chelton, l’ex addetto alla difesa britannico a Tokyo, i recenti cambiamenti nelle politiche giapponesi per la difesa legano il Giappone ai suoi alleati e paesi partner e riduce ulteriormente ogni possibilità di una linea militare aggressiva.
Le preoccupazioni cinesi sull’autodifesa collettiva giapponese nel frattempo sono molto sentite in patria. Se ad accompagnare la reinterpretazione costituzionale ci sarà un quadro normativo adatto, le Forze di autodifesa giapponesi, che riceveranno un budget annuale di quasi 50 miliardi di dollari (sicuramente abbondante per un paese ufficialmente pacifista), e la guardia costiera potrebbero essere autorizzate a difendere i soldati americani per difendere congiuntamente i territori giapponesi nel Mar cinese orientale. Certamente una cooperazione bilaterale di questo tipo sarebbe accaduta comunque – con o senza la reinterpretazione costituzionale – nel caso di uno scontro militare Sino - giapponese nel Mar cinese orientale. Tuttavia, la conferma ufficiale che gli eserciti giapponese e americano possano difendersi l’un con l’altro per contrastare un eventuale tentativo cinese di conquista delle isole Senkaku nel Mar cinese orientale, territori controllati dal Giappone, ha fatto crescere l’allarme a Pechino.
L’allarme, tuttavia, è causato non tanto dalla volontà di Tokyo di piantare la bandiera giapponese e dichiarare formalmente la sovranità sulle isole Senkaku, quanto piuttosto da come la capacità di Tokyo di contribuire attivamente alla difesa dei territori controllati dal Giappone possa intralciare le politiche di Pechino di tentare di stabilire il già menzionato ‘doppio controllo’ sulle isole contese, attraverso l’intrusione nelle acque territoriali giapponesi intorno alle isole.