GIAROLA, Antonio, detto il Cavalier Coppa
Figlio di Giacomo, nacque a Verona intorno al 1597.
I tentativi, peraltro suggeriti con cautela (Guzzo, p. 99), di identificare il padre con un Giacomo Giarola di Guaresco risultano poco convincenti. Il fatto che questi fosse uno "scutellarius" - ciò che potrebbe giustificare l'origine, ancora oscura, del soprannome del G. - non colma le difficoltà presentate dai documenti: se non bastassero incongruenze di tipo cronologico, si deve aggiungere che il G. non risulta mai tra i figli di questo artigiano veronese, residente nella parrocchia di S. Nicolò, più volte ricordati nei registri cittadini. È forse più ragionevole pensare che i Giarola "scutellari" fossero una delle famiglie con un cognome diffuso a Verona, e comune a formaggiai, lapicidi, pittori.
Della prima formazione che il G. dovette avere in patria non si ha alcuna notizia. Il suo destino seguì però ben presto quello di altri artisti suoi concittadini che, come Pasquale Ottino, Marcantonio Bassetti e Alessandro Turchi, si trasferirono a Roma intorno alla metà del secondo decennio del Seicento, alla ricerca di novità rispetto alla cultura pittorica tardomanierista propugnata in patria dagli epigoni della bottega di Felice Brusasorci.
Gli Stati d'anime della parrocchia romana di S. Maria del Popolo, agli anni 1617 e 1619 (gli atti del 1618 sono mutili) annotano in casa di Carlo Saraceni, insieme con Giambattista Parentucci da Camerino e Giovanni Cleo, ovvero Jean Le Clerc, un Antonio Girella pittore veronese, identificabile con il G., destinatario, come Le Clerc, di un lascito nel testamento di Saraceni, redatto a Venezia il 13 giugno 1620 poco prima della sua morte. Il G. infatti utilizzò costantemente nelle sue opere le delicate atmosfere proprie della declinazione saraceniana del naturalismo caravaggesco, giungendo a riproporre, nei propri dipinti, tipi e formule compositive, relative a particolari, ma finanche complessive, visti e studiati nella bottega romana del maestro veneziano, che fu in rapporti documentati, anche di collaborazione pittorica (sala regia del Quirinale, dove lavorò con Bassetti e Turchi), con gli altri veronesi presenti in città.
Non essendo più registrati a Roma nel 1620, è assai probabile che il G. e Le Clerc avessero seguito, se non preceduto, Saraceni a Venezia. È possibile inoltre che il G. avesse collaborato (forse fino a portarla a compimento) a una delle ultime commissioni del maestro, l'Annunciazione per la parrocchiale di Santa Giustina, nel Bellunese. Di quest'opera egli conservò memoria, forse anche grafica, per realizzare tempo dopo - intorno ai primi anni Quaranta (Mazza, 1996, p. 252) - la piccola scena di uguale soggetto e identica struttura compositiva inserita tra i quindici misteri posti a corona della Pala del Rosario per la parrocchiale di Santa Maria Villiana, frazione di Gaggio Montano, nell'Appennino bolognese.
Alla morte di Saraceni, il G. non dovette rimanere a Venezia, né tornò a Roma, dove non è più documentato. A cominciare da Malvasia (1678), le fonti riferiscono, senza ulteriori precisazioni, di un alunnato bolognese del G. presso Guido Reni e Francesco Albani. Quest'ultimo avrebbe favorito il proprio allievo introducendolo presso i signori di Mantova. È indubbio che il linguaggio pittorico del G. fosse fortemente influenzato dall'arte dei bolognesi, specialmente da Reni, ma non nella sua prima produzione. Poiché si deve, invece, ritenere il G. già padrone del mestiere all'inizio del terzo decennio, si è inclini oggi a interpretare le notizie riferite dalle fonti con qualche cautela e a ipotizzare un'attività di studio a Bologna sulle opere dei maestri felsinei, di Reni in particolare, piuttosto che una vera e propria frequentazione delle loro botteghe. Il Cristo crocifisso tra i ss. Francesco e Carlo Borromeo della parrocchiale di Mezzane, in provincia di Verona, dichiara infatti molto esplicitamente l'ascendenza saraceniana, ed è privo di riferimenti emiliani: elementi comuni anche alla Madonna e i ss. Caterina e Nicola, del Museo di Castelvecchio che si colloca dunque, come la pala di Mezzane, tra il 1620 e il 1621 (Marinelli, 1982, pp. 35 s.).
Il soggiorno bolognese dovette cadere a seguito di quello mantovano, collocabile nei primissimi anni Venti e documentato dalla citazione di Malvasia nonché da un'opera attribuibile al G., ancora oggi conservata in città, nel palazzo D'Arco. Si ignora la provenienza del piccolo dipinto, una Madonna con Bambino in gloria, s. Carlo Borromeo e il beato Luigi Gonzaga; ma la presenza di quest'ultimo denuncia con chiarezza una committenza mantovana. La tela di palazzo D'Arco mostra evidenti ascendenze saraceniane con richiami degni di particolare attenzione ai modi di Domenico Fetti, in città già dal 1614 con l'incarico di pittore di corte al servizio del nuovo duca di Mantova, Ferdinando Gonzaga. Fu forse grazie alla relazione di committenza intrattenuta da Saraceni a Roma con l'allora cardinale Ferdinando Gonzaga che il G. decise di recarsi a Mantova, convinto anche dalla straordinaria intensità e continuità di rapporti artistici che dal Quattrocento in poi la città aveva avuto con Verona.
Grazie alla formidabile raccolta di dipinti messa insieme dai Gonzaga, Mantova fu per gli artisti, specialmente per quelli provenienti dagli Stati vicini, e ancora per i primi trent'anni del Seicento, un centro di continua sperimentazione. Collaboratori dello stesso Fetti furono i veronesi Pietro Bernardi e Dioniso Guerri; inoltre, opere dei maestri bolognesi, da Ludovico Carracci a Lucio Massari, allo stesso Albani, cominciarono ad arrivare a Mantova già dal 1616. Fu in questo clima che il G. si trovò a operare, anche se per breve tempo. Abbastanza però per entrare in contatto con la pittura emiliana di stampo classicista. Dunque, a condurlo a Bologna fu forse l'esperienza mantovana, che non comportò, come si è sostenuto, la nomina del G. a cavaliere di Cristo: il suo nome non è infatti presente tra le liste dell'Ordine riservato alla stretta nobiltà (Marinelli, 1985, p. 75). La notizia è stata per la prima volta diffusa da Zannandreis (p. 264), il quale si dimostra fonte inattendibile per quanto riguarda alcuni dati della biografia del G., confondendo, sulla scorta di un equivoco ingenerato dagli indici all'opera di Luigi Lanzi, il G. con un Antonio Coppa. A quest'ultimo si riferisce infatti la notizia di un periodo milanese e della creazione di una fiorente bottega (Mazza, 1996, pp. 255 s.).
Il soggiorno bolognese è attestato dalle fonti, che attribuiscono concordemente al G. la realizzazione del Beato Bernardo Tolomei genuflesso davanti alla Vergine, eseguito per gli olivetani di S. Bernardo. Del dipinto, smarrito in seguito alla dispersione degli arredi della chiesa causata dalle soppressioni napoleoniche del 1797, si ha memoria anche tra le annotazioni di Antonio Masini, destinate a integrare la sua Bologna perlustrata, che lo ricordava eseguito dal G. alla data del 1624. Proprio in S. Bernardo si era conclusa qualche anno prima la vicenda decorativa che aveva visto attivi Ludovico Carracci, Alessandro Tiarini e Guido Reni, con le opere dei quali il G. ebbe dunque l'occasione di confrontarsi direttamente.
A partire dalla metà circa degli anni Venti, il G. dovette tornare a Verona, dove è documentato nel 1625. A questa data sono infatti registrati due pagamenti a suo nome, in acconto (22 aprile) e a saldo (15 luglio), per la realizzazione di una pala, una Madonna con i ss. Giacomo e Lazzaro (perduta), destinata all'altar maggiore della chiesa cittadina di S. Giacomo (Repetto Contaldo, p. 157).
Entro la fine del terzo decennio si deve collocare la Cena in Emmaus del seminario vescovile di Verona, unica opera firmata dall'artista (cavalier Coppa). Ancora forti sono i richiami al linguaggio caravaggesco di Saraceni; mentre sono improbabili, anche sul piano storico, le ipotizzate influenze dalla pittura di Bernardo Strozzi, smentite dalla critica soprattutto dopo la pulitura del 1974, e che avevano fatto datare il dipinto al 1630, quando il maestro genovese si trasferì a Venezia.
Alla presenza nella propria città il G. alternò frequenti soggiorni sia in provincia sia, soprattutto, in Emilia, dove mise a punto il proprio linguaggio, tra reminiscenze saraceniane e sempre più frequenti riferimenti a modelli reniani. Un'adesione che, come rivela il confronto con le sue opere mature, fu decisamente funzionale a risolvere quesiti di ordine compositivo, e destinata al citazionismo, nella riproposizione spesso fedele di prototipi ripresi dalle opere del maestro bolognese. Non è certo un caso che sia ricordata la sua attività come copista del Reni: il canonico Stefano Trentossi possedeva del G. il David con la testa di Golia, oggi nella Pinacoteca del capitolo canonicale di Verona, dal prototipo reniano (Marinelli, 1982, pp. 38 s.); e Bartoli (p. 227) citava in casa Patella a Rovigo una sua copia (perduta) della Fortuna tenuta per le chiome da Cupido.
È documentato che il G. fosse a Bologna quando, nel gennaio del 1636, ricevette dal Consiglio della città di Verona la commissione della Pala della peste per la cappella dell'Addolorata in S. Fermo, dove tuttora si trova insieme con il laterale, contemporaneo, con La Vergine intercede per le anime del Purgatorio (Repetto Contaldo, p. 170). Ex voto cittadino, la pala, che rappresenta Verona supplicante per la liberazione dalla peste del 1630, costituisce un momento fondamentale per la produzione del G., non solo per l'importanza della commissione, ma anche per l'indiscutibile riferimento ai modi bolognesi, dalla struttura compositiva all'atmosfera "chiarista", fino ai particolari dei volti dei cadaveri in primo piano. Fortemente reniani sono alcuni personaggi presenti nelle due tele con i Miracoli di s. Antonio (il Miracolo del piede risanato e il Miracolo della mula), oggi nella sagrestia della chiesa di S. Fermo, collocabili allo stesso momento, anche se qui si avverte ancora la presenza di uno schema compositivo saraceniano.
Notevoli analogie con i Miracoli presenta il Figliol prodigo dell'Accademia di scienze e lettere di Verona, proveniente dai depositi di Castelvecchio; a questa fase dovrebbe appartenere anche il S. Girolamo della parrocchiale di Rosegaferro, al confine con il Ducato di Mantova, come pure lo erano gli altri piccoli centri nei quali è ricordata l'attività del G. (un S. Antonio per i cappuccini di Peschiera, la Resurrezione di Cristo a Ponti sul Mincio, opere perdute).
Nel 1636 il G. è attestato a Modena. Questa data compare, a ricordo della consacrazione dell'altare, sulla cimasa dell'ancona che dipinse per la cappella del protonotario apostolico e decano della cattedrale Fabrizio Manzoli, eretta, nella chiesa del Voto, a seguito delle tristi vicende della peste (Benati, p. 41). La pala rappresenta la Purificazione della Vergine, con il bel ritratto del committente, e richiama la pressoché coeva produzione di Reni (dalla Circoncisione per S. Martino a Siena alla Purificazione per il duomo di Modena, oggi al Louvre); per la stessa cappella il G. realizzò contemporaneamente i tre dipinti del sottarco, con il Rimprovero di Cristo da parte dei genitori, la Fuga in Egitto, caratterizzata dall'interessante sottinsù determinato dal punto di vista fortemente ribassato dell'osservatore, e il Riposo nella fuga in Egitto. A seguire, tra il 1637 e il 1640, diede mano, sempre nella stessa chiesa, alla realizzazione di altre tre tele per il sottarco della cappella di Giovanni Torri, con soggetti cristologici (Cristo nell'orto degli ulivi, la Flagellazione, l'Incoronazione di spine): la drammaticità di queste tele insita nella narrazione è restituita attraverso un sapiente luminismo di reminiscenza caravaggesca che, nonostante il cattivo stato di conservazione, è ancora pienamente leggibile (Mazza, 1996, pp. 244 s.).
Nel corso degli anni Quaranta si moltiplicano le citazioni reniane. Al 1645, anno in cui il G. risulta attivo nel refettorio dei padri serviti di S. Maria della Ghiara a Reggio per un lavoro perduto (Malaguzzi Valeri), risale il grande dipinto posto nell'abside di S. Giuseppe di Sassuolo, città di residenza ducale. Commissionato da don Costanzo Teggia per decorare il nuovo presbiterio, eretto a ringraziamento per la propria, miracolosa, guarigione, il S. Giuseppe in gloria e i ss. Costanzo vescovo e Filippo Benizzi costituisce un caso esemplare per comprendere il modus operandi del G.: il santo protagonista è infatti una trascrizione, opportunamente modificata, dell'Assunta del Reni, realizzata per la parrocchiale di Castelfranco Emilia; il s. Costanzo deriva, senza la minima variazione, dal s. Petronio della Pala dei mendicanti della Pinacoteca di Bologna, come pure i tre putti. Una procedura piuttosto frequente, a partire da questo momento della sua produzione, e confermata dalla pala della parrocchiale di Soliera, ancora nel Modenese, con il Cristo crocifisso tra i ss. Filippo Neri, Francesco d'Assisi e Francesco Saverio: inutile sottolineare come in questo dipinto dei primissimi anni Cinquanta - le nuove cappelle furono edificate nel 1651 (Mazza, 1992, pp. 78 s.) - il Cristo richiami il modello di Reni a Reggio, nella chiesa di S. Stefano dal 1639; e come il S. Filippo Neri sia la riproposizione in controparte del fortunato prototipo reniano della chiesa S. Maria in Vallicella di Roma.
Ancora collocabile negli anni Cinquanta è l'Immacolata Concezione tra i ss. Sebastiano e Giovanni Evangelista, un tempo sull'altare maggiore della chiesa veronese di S. Giovanni in Foro (oggi sulla parete di fondo), che contribuì a diffondere, insieme con le altre pale di uguale soggetto, ricordate per le chiese cittadine di S. Maria Antica e delle Dimesse, l'iconografia reniana dell'Immacolata (Dal Pozzo, pp. 171, 229).
Sempre a questa fase risalgono il S. Giorgio e santi per S. Antonio al Corso di Verona, ora nella chiesa della Tomba di Adria (Moschini Marconi); il S. Lorenzo e santi, comparso a una esposizione giudiziaria a Forlì, ora di ubicazione ignota (Mazza, 1996, p. 246); il Martirio di s. Bartolomeo per l'omonima chiesa modenese dei gesuiti (posta sotto gli auspici e il patronato della casa d'Este), dove i tipi reniani creano uno stridente contrasto con la figura del santo, copiata dal celebre prototipo di J. de Ribera, noto attraverso numerose incisioni.
Nel 1652 don Ludovico Callegari faceva realizzare al G. la Madonna con Bambino e s. Giovannino in gloria e i ss. Vitale e Andrea, in origine sull'altare maggiore dell'antica e distrutta chiesa parrocchiale di Granarolo, e oggi in S. Vitale Martire. Avvicinabile a questo dipinto è lo studio per la testa del s. Andrea in collezione privata (Mazza, 1996, pp. 250-252).
Ultimo punto fermo per la conoscenza della tarda attività del pittore è la pala con Madonna con Bambino e i ss. Carlo e Antonio Abate, oggi in S. Lorenzo a Bagolino, in provincia di Brescia, ma proveniente dalla vicina prepositurale di S. Giorgio. Il dipinto venne realizzato per volere di Stefano Campedelli, residente a Verona, tra il 1659, quando il Consiglio comunale autorizzava l'esecuzione di un altare e della sua decorazione, e il 1662, data che compare ancora oggi sull'altare dedicato a S. Antonio Abate.
Almeno negli ultimi anni della sua attività, il G. fu iscritto all'Accademia veronese di pittura: il suo nome compare infatti in un foglio della Biblioteca civica di Verona che registra i membri di tale istituzione tra il 1670 e il 1675.
Il 23 giugno 1674 il G. dettava il suo testamento; il 28 giugno morì, e venne sepolto nella parrocchia di S. Quirico, dove, quattro anni prima, era stata sepolta la moglie Benedetta (Guzzo, p. 98).
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