CORREGGIO, Giberto da
Figlio di Gherardo, nacque a Correggio verso il 1410. Poco si sa della sua giovinezza: è noto solo che fu allievo di Vittorino da Feltre a Mantova. Le prime notizie sicure su di lui lo indicano tra i condottieri al soldo di Venezia nel 1447. Capitano dell'esercito guidato da Micheletto Attendolo Sforza contro il duca di Milano Filippo Maria Visconti, fu creato cavaliere, insieme con Tiberto Brandolini, Diotisalvi Lupo e Ludovico, Malvezzi, l'11 giugno 1447, durante la cerimonia svoltasi per festeggiare l'arrivo vittorioso delle truppe veneziane sotto le mura di Milano. Poco dopo, approfittando della morte dell'ultimo Visconti, avvenuta nell'agosto dello stesso anno, e dei conseguenti disordini verificatisi in tutta la Lombardia, il C. si impadronì di Brescello, che apparteneva ai Visconti dal 1432.
Terminata la condotta con Venezia, nel 1449 passò al soldo di Francesco Sforza, con uno stipendio di quattromila ducati d'oro. È questo il periodo di maggiore gloria per il C. come uomo d'arme. Lo Sforza gli affidò la difesa della città e del territorio di Parma, che aveva appena conquistato, e, subito dopo, lo inviò con 600 cavalieri e con fabbri per costruire macchine da guerra in difesa della città di Crema, assediata dai Veneziani. Sempre nel 1449, venne chiamato da Alessandro Sforza a Guardasone con 1000 cavalieri e 500 fanti per combattere le forze di Alfonso re di Napoli, condotte da Astorre da Faenza.
Il 12 maggio 1449, con rogito del notaio Baldassarre de' Negromonti, il C. stipulò un concordato con i fratelli Manfredo e Antonio, con il quale fu convenuto che tutte le città e le terre acquistate e da acquistarsi fossero per sempre inalienabili e indivisibili, che le rendite venissero ripartite in parti uguali e che l'amministrazione e il governo dei domini fossero affidati al C. come maggiore dei fratelli.
Nel 1450 Francesco Sforza, divenuto duca di Milano, intimò al C. di restituire tutto quello che aveva occupato dopo la morte di Filippo Maria Visconti e di riconoscere la sua superiore autorità. Il C. tentò di resistere all'ingiunzione e nel 1452 si pose al servizio di Alfonso re di Napoli contro lo Sforza, con stipendio di ottomila ducati l'anno: risale a questo periodo l'occupazione di Poviglio nel territorio di Parma. Inoltre, inviò il fratello Manfredo presso l'imperatore Federico III, che si trovava allora a Venezia, per offrirgli il feudo di Correggio a nome della famiglia e per riceverne l'investitura. L'imperatore, accettando di buon grado l'offerta, con diploma in data 25 maggio 1452, elevò Correggio a contea nobile in favore del C., dei suoi fratelli Manfredo e Antonio e del nipote Niccolò: l'investitura comprendeva 59 domini che, però, i Correggio avevano già allora in gran parte perduti.
Nel 1454 la pace di Lodi decise le sorti dei Correggio secondo il volere del duca di Milano: il trattato ingiunse loro di restituire tutti i territori che avevano occupato "trans cisque flumen Paduni in mantuano agro" e "in Parmensibus", e permetteva a Francesco Sforza di ricorrere alle armi se necessario. Il C. restituì quindi Novellara e Bagnolo ai Gonzaga, ma non volle acconsentire alle altre richieste. Così lo Sforza ordinò a Tiberto Brandolini di invadere con 6000 cavalieri le terre del C.: questo, ormai privo dell'appoggio veneziano e napoletano, finì per sottomettersi. Il 17 ott. 1454 lo Sforza concesse al C. l'investitura di Brescello, Scurano e Bazzano ed ottenne un giuramento di fedeltà, che ribadiva la sudditanza al duca senza tener conto dell'investitura imperiale.
Intanto, nell'agosto dello stesso anno, il conte di Pitigliano, Aldobrandino Orsini, aveva invaso il territorio della Repubblica di Siena. Il 20 settembre i Senesi assoldarono il C. con 1200 cavalieri e 300 fanti e affidarono il comando generale dell'esercito, al quale si era aggiunto un numeroso contingente inviato dai Veneziani, a Sigismondo Pandolfo Malatesta.
Il 19 dicembre il C., con lettere indirizzate al capitano del popolo Francesco Aringhieri e ai priori del Comune di Siena, oltre ad illustrare i progressi fatti dall'esercito senese in quei mesi e le conseguenti probabilità di vittoria, comunicò che il Malatesta aveva tolto l'assedio al castello di Sorano e stipulato una tregua con il nemico. E si giustificò per aver sottoscritto come testimone la tregua medesima, affermando di non aver saputo nulla fino al momento della ratifica e di non aver potuto rifiutare in quel momento "per bon respecto". I Senesi allora licenziarono il Malatesta e nominarono al suo posto il C., che godeva della piena fiducia del governo cittadino.
Come nuovo comandante, desiderando proseguire l'impresa lasciata interrotta dal Malatesta, provvide immediatamente a ricondurre le artiglierie contro il castello di Sorano. Durante il viaggio di trasferimento, nei pressi di Sovana, incontrò alcune squadre nemiche e le sconfisse: battutosi in duello con Giacomo Orsini, che le comandava, lo ferì a morte. Disposto il campo e le artiglierie intorno a Sorano, il C. riprese le operazioni di assedio e, sebbene non riuscisse ad impadronirsi del castello validamente munito e difeso, costrinse il conte di Pitigliano alla resa: nell'aprile 1455 l'Orsini scrisse ai priori del Comune di Siena, invocandone il perdono. La pace fu, ratificata poco dopo per intervento delle principali potenze italiane.
Nel giugno dello stesso anno Giacomo Piccinino si unì alle forze di Matteo da Capua e invase la Romagna, da cui poi passò nel territorio di Siena. Aveva allora inizio l'ultimo periodo della vita del C., infirmato dall'accusa di tradimento mossagli dalla Repubblica di Siena per i rapporti col Piccinino e per il suo ambiguo comportamento nella conduzione della guerra.
Inizialmente il C., che pensava di unirsi al Piccinino, aveva occupato con le sue truppe due terre della Repubblica, Vitozzo e Sovana. Ma i Senesi, pur non ignorando tali trattative, offrirono al C. il rinnovo della condotta e il comando generale dell'esercito. Il C. esitò a lungo, ma sia per le esortazioni del commissario senese al campo, Giacomo Guidini, sia, soprattutto, per una lettera minacciosa di Francesco Sforza in tal senso, si decise ad accettare dai Senesi una condotta di dieci mesi. Scoppiata la guerra, dopo fasi alterne, il Piccinino si scontrò con le forze confederate del duca di Milano e del papa a Castro e fu sconfitto. Di qui, per la via di Grosseto, raggiunse Castiglione della Pescaia, dove era protetto da Alfonso re di Napoli. Durante questi scontri, il C. era rimasto con il suo esercito nella Maremma senza combattere.
In una lettera inviata il 10 ag. 1455 ai priori del Comune di Siena dal campo presso Buriano, Roberto da Sanseverino e Corrado da Fogliano - comandanti delle forze di Francesco Sforza - evidenziavano il comportamento del C., il quale, pur avendo "una bella e fiorita compagnia", si teneva in disparte perché, non avendo i Senesi adempiuto alle promesse fattegli, non poteva né compiere il proprio dovere né supplire ai bisogni della sua gente. Pertanto esortavano la Repubblica a provvedervi e a non dare motivo al C. di allontanarsi dal campo con i suoi soldati o di occupare ostilmente qualche luogo dello Stato.
Questo atteggiamento attirò sulla sua persona la diffidenza dei Senesi, che si trasformò in sospetto e poi in definitiva certezza di essere stati traditi, quando vennero in possesso di una serie di lettere cifrate scambiate tra il comandante del loro esercito e il nemico. Quando il C. si recò a Siena, probabilmente per chiedere il denaro che gli era dovuto, il governo cittadino lo colpì. La sera del 6 sett. 1455 il C. giunse a palazzo pubblico e fu invitato a presentarsi agli officiali di Balia, che lo attendevano nella sala "del Papa", loro abituale luogo di riunione. Secondo alcuni cronisti, il C., alle domande che gli furono rivolte su quanto si verificava al campo diede risposte scortesi e superbe. Quando poi gli furono mostrate le lettere che aveva scambiato col Piccinino e gli fu rimproverata la mancata fedeltà, si alzò per allontanarsi, ma uno dei Quindici di balia - Ludovico Petroni - afferratolo per un braccio, gli disse che ben altra intenzione avevano nei suoi riguardi. Ad un segnale, entrarono nella stanza alcuni armati che trafissero il C., uccidendolo: il suo corpo fu gettato dalla finestra nella piazza sottostante. La notte stessa, gli officiali di Balia comunicarono l'uccisione alle principali potenze italiane, che chiesero fosse istruito un processo postumo.
In seguito alla presentazione di documenti autentici e di testimonianze orali, il podestà di Siena - Tommaso degli Spadantesti di Rimini - riconosciute come vere le accuse mosse al defunto, la sera del 20 sett. 1455 pronunciò la sentenza di condanna della sua memoria e di confisca dei beni in favore del Comune di Siena. Dagli atti del processo risulta che il C. aveva certamente tramato ai danni della Repubblica, ma che le sue intenzioni non erano state poi tradotte in pratica, probabilmente per timore della reazione del duca di Milano Francesco Sforza. D'altro canto i rapporti del C. con il Piccinino - iniziarono solo quando stava per concludersi la sua prima condotta senese ed ebbero inizialmente l'obiettivo di conquistare terre non già dei Senesi bensì dello Stato pontificio.
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