Gilda
(USA 1946, bianco e nero, 110m); regia: Charles Vidor; produzione: Virginia Van Upp per Columbia; soggetto: Jo Eisinger, dall'omonimo racconto di E.A. Ellington; sceneggiatura: Marion Parsonnet, Ben Hecht; fotografia: Rudolph Maté; montaggio: Charles Nelson; scenografia: Stephen Goosson, Van Nest Polglase; costumi: Jean-Louis; musica: Morris Stoloff, Doris Fisher, Allan Roberts.
Appena arrivato a Buenos Aires, Johnny Farrell, un giocatore d'azzardo, accetta di lavorare come ispettore nella bisca di Ballin Mundson, un sinistro personaggio che lo ha salvato da un agguato notturno. L'amicizia tra i due entra però in crisi dopo il matrimonio di Ballin con Gilda, una donna di grande fascino e bellezza che Farrell ha amato e verso la quale nutre un rancore profondo. Obbligato dallo stesso Ballin a vigilare personalmente sulla fedeltà di Gilda, Farrell ha ben presto modo di sperimentare il sentimento di amore-odio che lo lega alla ragazza, e di alimentare, di fronte alle continue provocazioni di lei, una forma di gelosia paranoica. Ballin, che in realtà usa il casinò come copertura alle attività di un gruppo di ex nazisti, dopo aver ucciso uno dei suoi complici tedeschi si finge morto per sfuggire alla polizia, non prima però di avere sorpreso Gilda nelle braccia di Farrell. Diventato direttore del casinò, Farrell sposa quindi Gilda, ma con l'unico intento di punirla delle sue presunte infedeltà. Costretto a chiudere il casinò per ordine della polizia, Farrell sfugge alla vendetta del redivivo Ballin, che viene ucciso da un intervento del barman, e capisce finalmente che i sentimenti di Gilda nei suoi confronti sono sinceri.
Secondo lungometraggio diretto da Charles Vidor con protagonista Rita Hayworth in coppia con Glenn Ford, dopo The Lady in Question (Seduzione, 1940) e prima di The Loves of Carmen (Gli amori di Carmen, 1948), Gilda è una delle pellicole di culto e di maggiore successo del cinema mondiale, assurta negli anni ad archetipo dell'immaginario collettivo, e al tempo stesso uno dei film che meglio testimoniano la capacità della Hollywood anni Quaranta di riflettere sui risvolti più amari e ambigui dei miti che contribuiva a produrre. Sfruttando l'allusività dei dialoghi e l'atmosfera inconfondibile della splendida fotografia di Rudolph Maté, Vidor si muove a mezza strada tra le suggestioni del melodramma e del noir, riuscendo a eludere, con un abile gioco di spostamenti e rimozioni, i vincoli di censura imposti dal codice Hays. Contenuti lasciati allo stato latente in film coevi emergono quindi in una chiave più esplicita nello svolgersi della trama insieme amorosa e criminosa, al punto che la sovrapposizione del sentimento dell'amore con quello dell'odio, esplicitata nelle relazioni tra i personaggi, si tinge (nelle valenze sadomasochiste o misogine dei rapporti interpersonali, nella sospetta impotenza dei personaggi maschili o, ancora, nel delinearsi di un'amicizia virile che sconfina nell'attrazione omosessuale) di connotazioni morbose e soprattutto paranoiche, dando luogo a una delle più feroci figurazioni del desiderio mai realizzate da Hollywood. Al di là della riconciliazione descritta nel forzato happy ending, il tema della lotta tra i sessi, nel decennio precedente funzionale al consenso sociale e ideologico (in particolare nell'ambito del genere commedia), si mostra definitivamente, in Gilda, come incerto correlato oggettivo e mitico di un mutato clima culturale e sociale. Lo stesso espediente del flashback attraverso la voce fuori campo, affidata a un narratore in apparenza padrone del proprio racconto ma in realtà psicotico e inattendibile, diventa, come accade in altri melodrammi e noir dell'epoca, misura dello scarto ironico tra l'istanza della narrazione e l'ambiguità delle immagini che dovrebbero sostenerla, spia di un disadattamento verso la 'visione' del presente, che è diretta conseguenza del problematico rapporto con un 'passato' al quale i personaggi, loro malgrado, non possono sfuggire.
Ma è nella figura della protagonista, nel mito della 'donna fatale' incarnato da Rita Hayworth alla più famosa delle sue interpretazioni, che l'enigma dell'immaginario trova il suo centro focale. Sin dalla domanda posta al primo apparire sulla scena del personaggio ("Gilda, are you decent?"), Vidor svela il suo intento di reinvestire l'attrazione e il terrore archetipico nei confronti dell'eterno femminino all'interno delle contraddittorie dinamiche spettatoriali innescate dallo star system. Per il suo essere insieme oggetto del desiderio e corpo che può esistere solo reclamando lo sguardo dell'altro, al tempo stesso materia immaginaria e pienamente carnale, Gilda non è solo lo specchio della cattiva coscienza maschile verso la donna, ma la reificazione definitiva della doppiezza del glamour cinematografico: sostanza che, non diversamente dal bastone con la lama retrattile del personaggio Ballin, "ha l'aria di essere una cosa ma sotto gli occhi ne diventa un'altra", e come tale, ha scritto Michael Wood, entità insieme "presentabile e non presentabile", capro espiatorio e luogo sia della colpa sia dell'innocenza (palese nella scena più famosa del film, lo spogliarello al ritmo della canzone Put the Blame on Mame), il sintomo più evidente della forza ma anche della fragilità di un sogno che non può essere sostenuto troppo a lungo. Il fascino di Gilda sta, infatti, nel suo contemporaneo assumere la 'realtà' e ineluttabilità del mito assieme alla resistenza a esso, nella frattura che si produce tra la 'persona' della donna e la splendida apparenza superficiale di una maschera dalla quale non ci si può liberare. Una contraddizione che l'attrice Hayworth visse tra l'altro sulla propria pelle. Non pienamente sfruttata in tutto il suo talento all'interno di questo stesso film (fu doppiata da Anita Ellis nelle parti cantate, a eccezione della magnifica scena in cui, alla chitarra, intona per la prima volta Put the Blame on Mame), non riuscì più, nel corso della sua carriera, a liberarsi del personaggio che l'aveva consegnata alla notorietà planetaria, rimanendo vittima della potenza di un mito che, non a caso, è stato negli anni più volte oggetto di citazioni e parodie.
Interpreti e personaggi: Rita Hayworth (Gilda), Glenn Ford (Johnny Farrell), George Macready (Ballin Mundson), Joseph Calleia (detective Maurice Obregon), Steven Geray (zio Pio, il barman), Joe Sawyer (Casey), Gerald Mohr (capitano Delgado), Robert E. Scott (Gabe Evans), Ludwig Donath, Lionel Royce (i tedeschi), Donald Douglas (Thomas Langford), Saul Martell (il piccolo uomo), George J. Lewis (Huerta), Rosa Rey (Maria, la cameriera di Gilda), Robert Stevens (Kellard), Sam Appel (croupier al blackjack), Alphonse Martell (croupier alla roulette), Ted Hecht (il riccone), Ramon Munox (giudice), Eduardo Ciannelli (Bendolin), Fernanda Eliscu (moglie di Bendolin), Oscar Loraine, Jean De Briac (i francesi), Forbes Murray, Sam Flint, Bob Board (gli americani), George Humbert (l'italiano), Herbert Evans (l'inglese), Frank Leyva (l'argentino), Ruth Roman, Argentina Brunetti, Jerry De Castro, Robert Tafur, Rodolfo Hoyos, Russ Vincent, Sam Ash, Nina Bara, Jack Del Rio, John Merton.
M. Wood, The Blame on Mame, in America in the Movies, New York 1975 (trad. it. Milano 1979).
Women in film noir, a cura di E.A. Kaplan, London 1980, (in partic. R. Dyer, Resistance through charisma: Rita Hayworth and 'Gilda', A. Martin, Gilda Didn't Do Any of Those Things You've Been Losing Sleep Over!).
M.A. Doane, 'Gilda': epistemology as striptease, in "Camera Obscura", Fall 1983 (trad. it. in Donne fatali. Cinema, femminismo, psicanalisi, Parma 1995).
L. Dittmar, From Fascism to the Cold War: Gilda's fantastic politics, in "Wide Angle", n. 3, 1988.
G. Forter, Going straight with Gilda, in "Qui parle: literature, philosophy, visual arts, history", n. 2, Spring 1991.
K. Lenz, Put the Blame on Gilda: Dyke Noir vs. Film Noir, in "Theatre studies", 1995.