Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
Una lettura originale del vitalismo bergsoniano, di Spinoza e Nietzsche, Gilles Deleuze perviene a una sorta di costruttivismo che porta a vedere la filosofia come costruzione di concetti capaci di una “cattura” del reale e di definire un’immagine del pensiero. La sua riflessione si realizza come affermazione della molteplicità e della “differenza” irriducibile dell’Essere, categoria che si dice univocamente di tutto quanto differisce.
Nato a Parigi il 18 gennaio 1925, Gilles Deleuze si forma alla Sorbona con Alquié, Hyppolite, Canguilhem (sotto la direzione del quale ha conseguito il Diplôme d’Études Supérieures con una tesi su Hume). Professore al liceo negli anni 1948-1957, tra il 1957 e il 1960 è assistente di Storia della filosofia alla Sorbona; dal 1969 insegna a Paris VIII. Sono, questi, anni caratterizzati, oltre che da un’intensa produzione teorica, dalla militanza politica, condotta a fianco di Michel Foucault e di Félix Guattari; con quest’ultimo firma numerose e importanti pubblicazioni dedicate a una critica politica della psicoanalisi che hanno una notevole diffusione negli ambienti dell’antipsichiatria. Ritiratosi dall’insegnamento nel 1987, muore suicida nel 1995, dopo avere subito una tracheotomia resasi necessaria per una grave affezione respiratoria di cui soffriva da anni. Comunemente annoverato tra quei filosofi che, come Derrida, Lévinas, Lyotard, hanno messo al centro della loro attenzione il concetto di differenza, Deleuze si colloca nella filosofia francese del Novecento in una posizione del tutto originale scavalcando la fenomenologia di Husserl e la filosofia di Heidegger e rifacendosi piuttosto, oltre che a Nietzsche e a Spinoza, ai quali ha dedicato alcuni dei suoi scritti più noti, alla tradizione del pensiero francese, come lo spiritualismo, Maine de Biran, Bergson, Simondon. La sua proposta teorica consiste nella costruzione di un’ontologia dinamica che si incentra sul divenire e sulla differenza nel momento stesso in cui risolve l’essere in un flusso plurale di forze. Tra le sue opere si ricordano: Empirisme et subiectivité (1953); Nietzsche et la philosophie (1962); Le bergsonisme (1966); Différence et répetition (1968); Logique du sens (1969); Cinema 1. L’image-mouvement (1983); Cinema 2. L’image-temps (1985); Foucault (1986); Le pli. Leibniz et le baroque (1988); Critique et clinique (1993); e, in collaborazione con Félix Guattari: L’Anti-Œdipe (1972); Kafka. Pour une littérature mineure (1975); Mille-Plateaux, (1980); Qu’est-ce que la philosophie? (1991).
Gilles Deleuze
L’arte di creare concetti
Il filosofo è l’amico del concetto, è in potenza di concetto. Ciò vuol dire che la filosofia non è una semplice arte di formare, inventare o fabbricare concetti, perché i concetti non sono necessariamente delle forme, dei ritrovati o dei prodotti. La filosofia, più rigorosamente, è la disciplina che consiste nel creare concetti. [...] I concetti non sono già fatti, non stanno ad aspettarci come fossero corpi celesti. Non c’è un cielo per i concetti; devono essere inventati, fabbricati o piuttosto creati e non sarebbero nulla senza la firma di coloro che li creano. [...]
La filosofia ha orrore delle discussioni, ha sempre altro da fare. Non sopporta il dibattito, ma non perché sia troppo sicura di sé: al contrario, sono le sue incertezze che la spingono verso altre e più solitarie vie. Eppure Socrate non faceva della filosofia una libera discussione fra amici? La conversazione degli uomini liberi non è forse il culmine della socievolezza greca? In realtà Socrate non ha mai smesso di rendere impossibile qualunque discussione, sia con il rigido scambio di domande e risposte, sia con il lungo rivaleggiare dei discorsi. Ha trasformato l’amico in amico del solo concetto, e il concetto nel monologo spietato che elimina uno dopo l’altro i rivali
G. Deleuze, Cos’è la filosofia?, www.filosofico.net
La pratica filosofica di Deleuze si realizza come una sorta di originale costruttivismo. La filosofia nasce dalla necessità di pensare – più che dal desiderio di farlo – e tale necessità dipende dall’incontro contingente e a volte violento con qualche cosa che si dà da pensare e che, pertanto, assume la valenza di un segno da interpretare. In questo contesto, la filosofia si configura come “creazione di concetti”.
Deleuze chiarisce che il concetto non va inteso semplicemente come una formulazione logico-linguistica che definisce il genere o l’universale astratto di ciò a cui si riferisce: esso, per Deleuze, non è una “nozione” né una “definizione” che dice l’essenza di qualcosa, ma è un percorso o, meglio, un “sorvolo”. Pensare significa sorvolare la complessità del mondo, un concetto si differenzia da un altro concetto a seconda di quanto riesce a captare di tale complessità.
Il rapporto tra un concetto e qualcosa che si incontra come segno non si definisce come “imitazione” – per cui il concetto sarebbe trascrizione dell’oggetto – né come “assimilazione” – per cui l’oggetto sarebbe esemplificazione empirica dell’universale – ma come “evoluzione a-parallela di due esseri che non hanno niente a che vedere l’uno con l’altro”. Questo incontro, che egli spesso definisce nei termini di un “blocco di divenire”, si svolge su un piano di immanenza che, nel tenere insieme le differenti articolazioni del concettuale e del reale salvaguardando la specificità di entrambi i flussi oltre che la loro interrelazione, esibisce la mappatura del proprio percorso. Deleuze parla quindi del piano di immanenza come di un’immagine del pensiero: un “sorvolo”, come detto, dell’oggetto che è, al contempo, un sistema di coordinate e dinamismi nonché l’esibizione di “che cosa significa pensare” in una sorta di cartografia del pensiero stesso.
L’immagine del pensiero che appartiene a Deleuze è tracciata in una “geografia delle relazioni” incentrata sul concetto di molteplice. Il termine “molteplice”, impiegato come sostantivo anziché come aggettivo, non va considerato come designante una proprietà di un’unità preliminare o, il che è lo stesso, in via di farsi – un’unità presupposta come data all’origine o prefigurata dal pensiero come un fine che raccoglie e unifica in una sintesi i differenti “molteplici” –: Deleuze costruisce ed elabora una teoria della molteplicità che non presuppone alcuna unità né totalità.
Ma come pensare questo sostantivo-molteplice? È pensabile un “tutto” del molteplice? E, ancora, “che cosa” è propriamente “molteplice”?
Deleuze afferma che vi è un tutto del molteplice, la cui natura è di essere una “molteplicità di coesistenza virtuale” che si compone di singolarità tra di loro concatenate. Le singolarità sono a loro volta rapporti tra fattori differenziali astratti (per esempio, dx/dy) nessuno dei quali ha significato né esistenza indipendentemente dai rapporti che intrattiene con tutti gli altri. E tuttavia, affinché vi sia molteplicità e non semplicemente articolazione e complessificazione dell’unità, bisogna concepire le relazioni stesse come eterogenee ed esteriori ai termini. Secondo Deleuze proprio questa concezione rappresenta il grande contributo dell’empirismo inglese alla filosofia: Hume in particolare avrebbe descritto l’attività della mente come una continua interferenza tra le idee, le relazioni tra le idee e le circostanze, azioni e passioni, che fanno variare tali relazioni.
Si consideri questo esempio: “Pietro è più piccolo di Paolo”; non essendovi né “grandezza” né “piccolezza” in sé, il significato di questi concetti emerge solo dalla loro relazione, ma, proprio per questo, l’“essere più piccolo” è una proprietà relazionale che non appartiene né a uno dei due termini (Pietro che, appunto, non è “piccolo in sé”), né a tutti e due presi insieme (i quali allora sarebbero entrambi piccoli rispetto a un terzo): essa è, per così dire, posta “nel mezzo”. Così, una relazione può cambiare anche se non cambiano i termini che vi sono coinvolti: ad esempio, nel caso di un bicchiere collocato sopra un tavolo, noi possiamo spostare il bicchiere da qualche altra parte – modificando il rapporto tra questi due oggetti – senza che ciò comporti una qualche alterazione del bicchiere o del tavolo.
Ma si consideri anche questo enunciato, “Alice cresce”: qui avremmo un solo soggetto a cui viene attribuito un evento. Tuttavia, dire che “Alice cresce” equivale ad affermare che essa diventa più grande di quanto non fosse e a riferire simultaneamente questo evento – la crescita – a una stessa Alice più piccola: Alice, rispetto all’evento del crescere, si trova a essere a un tempo più grande e più piccola. Il soggetto di cui si tratta nell’enunciato è sfasato rispetto a se stesso perché dato nella relazione differenziale “grande/piccolo”; ma, anche se assume valori differenti, è una singolarità, ed è pur sempre di “Alice” che si sta parlando. La relazione è un evento in cui un termine coinvolto è sottoposto a una modulazione che ce lo offre a un tempo come alterato e differente.
In conclusione: l’Essere di cui Deleuze costruisce il concetto – e di cui trova un analogo nel concetto di “struttura” dello strutturalismo francese – è un rapporto di rapporti le cui unità più semplici, le singolarità, sono a loro volta relazioni di fattori indeterminati i cui valori si definiscono e ridefiniscono in base alle metamorfosi cui sono continuamente sottoposte. Il che equivale a dire che l’Essere si risolve interamente nel divenire – insegnamento che Deleuze ricava dalla filosofia di Bergson.
Se ha senso parlare di un Essere del divenire è solo a condizione di postulare una dottrina dell’ univocità dell’Essere. Nella filosofia di derivazione aristotelico-scolastica – di cui non mancherebbero tracce in ogni tipo di pensiero che miri a raccogliere in totalità anziché diversificare e disperdere –, l’Essere si articola secondo una gerarchia che da un Essere in senso proprio o pieno – la Sostanza, Dio – discende verso degli enti che si definiscono come “più o meno” essere a seconda del loro grado di somiglianza o, meglio, analogia rispetto all’Essere sommo. Così, per esempio, in un pensiero come quello di Descartes, sostanza in senso proprio è solo Dio, ma, per analogia, possiamo considerare sostanze anche la res cogitans e la res extensa. La teoria dell’analogia è una teoria della gerarchia degli esseri e della sussunzione del molteplice nell’unità anziché della dispersione dell’unità nel molteplice. Diverso è il caso della filosofia di Spinoza, nella quale la Sostanza coincide interamente con la produzione dei modi e con il loro grado di ordine e connessione: l’ontologia di Spinoza è una dottrina che capovolge l’analogia nell’univocità facendo di quest’ultima un’affermazione dell’esistenza delle sole concatenazioni delle cose singolari.
Secondo Deleuze l’Essere si dice univocamente di tutto ciò che differisce nonché del differire stesso. L’Essere, in altri termini, si realizza come produzione di differenze: solo queste sono reali o, meglio, “attuali”, mentre l’Essere è il tutto virtuale che, più che raccogliere le differenze in una sorta di spazio logico o iperuranico, coincide interamente con il proprio evento: colpo di dadi (secondo un noto poemetto di Mallarmé), emissione di singolarità. Un tale evento altro non è, sostiene Deleuze, che l’Eterno Ritorno di cui già aveva parlato Nietzsche: “accadere” significa allora “ritornare” e ciò che ritorna è la Differenza, intesa come inesauribile evento di distribuzione e differenziazione, simulacro di se stessa che non presuppone Origine né originale.