BARTALI, Gino
Nacque il 18 luglio 1914 a Ponte a Ema (Firenze), terzogenito (Anita e Natalina, il quarto e ultimo figlio, Giulio, nacque nel 1916), da Torello e Giulia Sizzi. Dal padre, sterratore e scalpellino di ideali socialisti, apprese il valore del lavoro, della solidarietà e dell’onestà; la madre, domestica, lo crebbe nella religione cattolica.
Si appassionò al ciclismo tredicenne, alunno della sesta elementare a Firenze, lavorando al pomeriggio come apprendista nell’officina di Oscar Casamonti, ex corridore e meccanico del paese natale, utilizzando la bicicletta sia per il tragitto casa-scuola sia per le consegne ai clienti, tranne scoprirsi un campione in erba sulla bici «tanto sospirata e comprata proprio soldino su soldino» (Franzinelli 2013, p. 141).
Nel 1931 esordì nella categoria allievi, con la squadra di casa, la Società sportiva Aquila di Ponte a Ema: partecipò a 8 corse e ne vinse 3; l’anno successivo vinse 8 delle 20 gare cui prese parte. Divenuto dilettante nel 1933, sempre con l’Aquila, prevalse in 16 corse su 29. Nell'anno da dilettante, in una caduta nella volata della Coppa Vecchioni, a Grosseto, il 24 maggio 1934, subì una commozione cerebrale e si ruppe il naso: l’operazione chirurgica gli provocò la tipica deformazione alla base del naso, largo e segnato da una cicatrice, che oltre a contraddistinguerne la fisionomia agevolò notevolmente la respirazione.
Alto 171 cm, con un peso forma di 64 kg, fu sempre attentissimo nella cura della propria salute e della meccanica della bicicletta, che effettuava personalmente. Il cuore bradicardico aveva 32/34 pulsazioni al minuto.
Esordì tra i professionisti alla Milano-Sanremo del 19 marzo 1935, ventunenne, come 'indipendente', senza una casa ciclistica che lo sponsorizzasse, in una giornata invernale con neve e raffiche di vento gelido; andò in fuga sul Capo Mele e acquistò un rilevante vantaggio sui favoriti. Nella sua autobiografia Bartali raccontò che il direttore della Gazzetta dello Sport, Emilio Colombo, a quel punto lo affiancò con la vettura di servizio per un'intervista 'volante', con lo scopo deliberato di distrarlo dalla condotta di gara (Tutto sbagliato, tutto da rifare, 1979, pp. 20-21). Secondo altre ricostruzioni, invece, Bartali accusò problemi meccanici alla bicicletta, che si erano già manifestati nella prima parte della gara, e fu costretto a rallentare (P. Alberati, Gino Bartali: mille diavoli in corpo, Milano 2006, pp. 40-41). A ogni modo, a pochi chilometri dal traguardo fu raggiunto e superato da un terzetto di inseguitori guidato da Giuseppe Olmo. L’impresa gli valse nondimeno ampia notorietà e l’ingaggio da parte della società Frejus per il compenso di 300 lire mensili. Al Giro d’Italia, costretto a far da gregario a Giuseppe Martano, giunse settimo: oltre a vincere la Portocivitanova-L’Aquila, dominò le tappe in salita e si aggiudicò il Gran premio della montagna. Pochi mesi dopo strappò a Learco Guerra (che ne fu insignito per cinque anni consecutivi) il titolo di campione d’Italia, assegnato a punti sulla base dei migliori piazzamenti nelle sette principali corse nazionali. Nel primo anno da professionista, vinse 16 gare sul totale delle 45 disputate. Si delineò insomma il passaggio del testimone tra la vecchia guardia di Alfredo Binda e Guerra e la matricola Bartali.
Eberardo Pavesi, direttore sportivo della Legnano, lo reclutò per la stagione 1936 nella squadra guidata dal veterano Guerra, assegnandogli il ruolo di capitano in seconda. Ben presto Bartali divenne l’elemento di punta della squadra quando, con un’impresa fenomenale, alla nona tappa Campobasso-L’Aquila guadagnò un notevole vantaggio sugli inseguitori e conquistò la maglia rosa, indossata ininterrottamente nelle successive 13 frazioni sino al traguardo di Milano. Vinse 3 tappe e ottenne 3 piazzamenti, oltre a conquistare per il secondo anno consecutivo il Gran premio della montagna. Dominatore della Riva del Garda-Gardone Riviera, venne premiato da Gabriele D’Annunzio, che gli consegnò una medaglia e in suo onore fece sparare 21 colpi di cannone dalla nave «Puglia», dal momento che – secondo il Poeta-comandante – «tutte le vittorie devono essere salutate col fuoco» (L. Russi, L'agonista. Gabriele d'Annunzio e lo sport, Pescara 2008, p. 76).
Il ciclismo – che insieme alla famiglia e alla religione rappresentò il centro della sua esistenza – lo precipitò nella disperazione quando l’amatissimo fratello Giulio, di due anni più piccolo, dilettante dal promettente avvenire, fu investito da un’auto contromano durante un finale di gara e morì il 16 giugno 1936 dopo due giorni di agonia. Il colpo fu talmente duro da fargli meditare il ritiro dall’attività agonistica, che tuttavia proseguì su incoraggiamento dei suoi cari. In quel dramma, lo aiutò la fede. Iscritto all’Azione cattolica all’età di dieci anni, nel febbraio 1937 prese i voti di terziario carmelitano e visse la religione come comandamento interiore; dedicò molte vittorie sportive alla Madonna e a s. Teresa di Lisieux. Aderì in toto ai precetti della dottrina sociale cattolica, rifiutando ostinatamente di iscriversi al Partito nazionale fascista nonostante le molte pressioni e le difficoltà che tale scelta comportò.
A inizio 1937 una broncopolmonite gli impedì di allenarsi con regolarità e di partecipare alla Milano-Sanremo; nonostante il problematico inizio di stagione, dominò il Giro d’Italia con 4 vittorie di tappa, 16 giorni in maglia rosa e il Gran premio della montagna. Alla sedicesima tappa – da Vittorio Veneto a Merano – per la prima volta durante un Giro d'Italia si sarebbero affrontate le Dolomiti, con il passo Rolle. In una giornata epica, Bartali fu il primo a 'scollinare' e distaccò nettamente i più immediati inseguitori. La classifica finale lo vide sopravanzare di ben 8 minuti Giovanni Valetti. Prevalse anche al Giro di Piemonte e al campionato italiano su strada (a punti). Il direttore sportivo Pavesi lo incoronò come il campione di tutti i tempi: «Quello lì è capace di fare quello che ancora nessuno sa!» (cit. in A. Bartali, Gino Bartali, mio papà, Milano 2012, p. 54).
In quell’anno tentò l’accoppiata con il Tour; conquistata la maglia gialla nella durissima scalata al Galibier, nella successiva Grenoble-Briançon si schiantò in un tratto in forte discesa contro un ponticello e cadde nel torrente Colau; 'ripescato' dal compagno di squadra Francesco Camusso e da uno spettatore, ripartì e mantenne il primato, ma il malanno rimediato nelle acque gelate gli costò il ritiro, impostogli contro la sua volontà dal direttore sportivo.
Su direttiva del regime, nel 1938 i corridori più forti dovettero 'saltare' il Giro per concentrarsi sul Tour de France, con l’obiettivo di mostrare la superiorità degli atleti italiani, per valorizzare di riflesso l’immagine internazionale del fascismo. Assistito dal commissario tecnico Costante Girardengo, riscattò un difficoltoso inizio con l’exploit nella scalata dell’Izoard, con arrivo a Briançon, ritrovandosi in maglia gialla con oltre 17 minuti sul secondo in classifica; vantaggio mantenuto sino a Parigi, dove ottenne pure l’ambitissimo Gran premio della montagna. Alla premiazione, al Parc des Princes, non furono eseguiti – come da prassi – gli inni nazionali italiani (Marcia Reale e Giovinezza). E il vincitore evitò il saluto romano dal podio, distinguendosi dai calciatori che, sull’esempio del capitano Giuseppe Meazza, in quel medesimo periodo vinsero i mondiali esibendosi nei rituali fascisti. In quella circostanza incontrò segretamente un esule antifascista, il concittadino Mario Alessi, ex dirigente della federazione toscana del Partito comunista, che gli aveva inviato richieste di aiuto; Bartali lo raccomandò a un giovane prete di Lione, disponibile a soccorrerlo.
Rimpatriato dalla prestigiosissima vittoria, rifiutò di indossare la camicia nera e fu per questo 'oscurato' dai mezzi d'informazione di regime. In compenso fu ricevuto in udienza da Pio XI, che in lui lodò il disciplinato militante di Azione cattolica, terziario carmelitano e devotissimo alla Madonna. La freddezza verso il regime fu tollerata in virtù della fama conquistata in patria e all’estero.
Nel 1939 vinse la sua prima Milano-Sanremo. Al Giro duellò con Giovanni Valetti (Frejus), provetto passista-scalatore al quale Bartali sfilò la maglia rosa nella terzultima frazione Cortina d’Ampezzo-Trento, tranne perderla l’indomani, nell’impegnativa Trento-Sondrio. Una copiosa nevicata notturna costrinse i corridori a scalare il Tonale in fila indiana, pedalando sulla striscia centrale fangosa, con frequenti buche; appena Bartali fu appiedato da una foratura, Valetti lo attaccò e, con un’impresa atletica ragguardevole, tagliò il traguardo di Sondrio con un vantaggio che gli assicurò il primato. Bartali si prese la rivincita all’ultima tappa, senza però scrollarsi dalla ruota il venticinquenne torinese. Coronò l’anno con il Giro di Lombardia.
Si rodò per la stagione 1940 in alcune gare in Libia e in Sicilia, per poi dominare – per il secondo anno consecutivo – sia la Milano-Sanremo sia il Giro di Toscana. Al Giro d’Italia fu bersagliato dalla sfortuna: nella discesa del colle Scoffera (tappa Torino-Genova) un cane gli tagliò la strada e lo fece ruzzolare malamente, caduta che gli procurò lancinanti dolori all’anca; un guasto meccanico lo penalizzò nella Firenze-Modena e il direttore sportivo Pavesi gli chiese di correre in funzione di Fausto Coppi, che proprio in quella tappa divenne maglia rosa. Bartali si trasformò in esperto e generoso gregario del giovane compagno di squadra, all’esordio professionistico con la Legnano, del quale agevolò la vittoria. Anche in quell’edizione, si confermò campione della montagna. Concluse la stagione con le vittorie al Giro di Lombardia e al campionato italiano su strada.
A quel punto, quando il ventiseienne Bartali si trovava al pieno della forma, la guerra impose la cessazione dell’agonismo sportivo, penalizzandone oltremodo la carriera. Aveva effettuato il servizio militare nell’aviazione, ma il cuore bradicardico, oltre a consentirgli di sopportare grandi sforzi con poca fatica, gli valse la dispensa dal richiamo alle armi.
Il 14 novembre 1940 sposò Adriana Bani, con la quale ebbe i figli Andrea, Luigi e Bianca; nel viaggio di nozze, furono ricevuti in Vaticano da Pio XII.
Rimasto nella sua Toscana durante gli sconvolgimenti bellici, nel 1943-1944 si accollò missioni rischiose tra l’arcivescovado di Firenze e il convento francescano di Assisi, trasportando (nelle tasche posteriori della maglia o arrotolate nel telaio della bicicletta) carte preziose per l’espatrio dei perseguitati razziali, protetti da documenti d’identità abilmente falsificati. La celebrità acquisita per meriti sportivi gli valse una sorta di immunità diplomatica, utilizzata coraggiosamente a vantaggio degli ebrei. Quelle imprese, rimaste a lungo ignorate (poiché il loro protagonista evitò di farsene un merito) verranno celebrate post mortem nel 2005 con la concessione della medaglia d’oro al merito civile del presidente della Repubblica e nel 2013 con il riconoscimento conferitogli dallo Stato d'Israele di Giusto tra le Nazioni.
Nell’autobiografia Tutto sbagliato, tutto da rifare (Milano 1979), ripensò con tristezza al prolungato impedimento agonistico determinato dal secondo conflitto mondiale: «Quando tutto fu finito, o stava per finire, nella fattispecie quando il fronte della guerra si spostò da Firenze verso il Nord, verso l’Emilia-Romagna, ci ritrovammo a casa mia con Primo Volpi e Mario Ricci per riprendere gli allenamenti. Avevo passato i trent’anni (finiti il 18 luglio del 1944) e dovevo ricominciare da capo, Non è chi non veda immediatamente quale prospettiva difficile e incerta mi si presentava davanti. Io credo che tutto questo tempo, più che perduto, sia da considerare come negativo: che ti rimanda indietro negli anni come profitto, mentre ti senti invecchiato molto di più che se avessi potuto condurre una vita normale. Mi viene in mente che molti, amici e avversari, cominciarono a chiamarmi “il vecchiaccio” molti anni prima che mi decidessi ad attaccare la bicicletta al chiodo, molto tempo prima che andassi a vincere il secondo Tour de France, nel ’48, a 34 anni suonati» (p. 76).
La ripresa agonistica fu caratterizzata dalla rivalità con Fausto Coppi, con esiti sostanzialmente bilanciati nel 1945-1948, mentre poi prevalse – avvantaggiato dal fattore anagrafico – il 'campionissimo'. Alla diversità di carattere e di modello esistenziale, corrisposero condotte di gara antitetiche: Coppi si avvantaggiava solitamente nella prima parte delle gare, mentre Bartali dava il meglio di sé dopo un centinaio di chilometri. Secondo la tradizionale faziosità italica, i tifosi si divisero in schiere contrapposte, ognuna delle quali esaltò virtù sportive e qualità umane del proprio campione, in un fenomeno di immedesimazione. Nel clima della guerra fredda Bartali impersonò il modello democristiano casa-chiesa-lavoro, mentre Coppi catalizzò irrequietezza e anticonformismo. Una distinzione manichea, amplificata dai giornali e dalla radio; in realtà, il 'campionissimo' votò per la DC, partito al quale Bartali fece campagna elettorale a sostegno di Vincenzo Torriani, patron del Giro d’Italia.
Nel 1946 Bartali si aggiudicò il Trofeo Matteotti, il Campionato di Zurigo e il Giro della Svizzera, ingaggiando al Giro d’Italia una emozionante sfida con Coppi: quest’ultimo si aggiudicò ben 4 tappe del 'giro della Rinascita', ma il capitano della Legnano lo precedette sia in classifica (per 47 secondi) sia nel Gran premio della montagna. L’anno successivo Bartali dominò la Milano-Sanremo, mentre l’esitò del Giro fu incerto sino all’ultimo: dopo le schermaglie iniziali, la competizione si accese alla quarta tappa, Reggio Emilia-Prato, con una fuga di Bartali e Coppi cui si accodò l’outsider Aldo Ronconi: i tre chiusero nell’ordine e Bartali indossò la maglia rosa. Il campione toscano difese il primato per 13 tappe con ostinazione, finché, alla quartultima frazione, Pieve di Cadore-Trento, il rivale s’impose di prepotenza, limitandosi poi a gestire sino a Milano i 2 minuti scarsi di vantaggio su Bartali, che comunque si aggiudicò – come da tradizione – il Gran premio della montagna. La rivalità toccò il parossismo nei giri d’onore al velodromo Vigorelli, con i fischi dei tifosi coppiani a Bartali, ricambiati dai seguaci del fuoriclasse toscano con colorite contestazioni al vincitore e alla Bianchi; la serenità fu ristabilita dal direttore de La Gazzetta dello Sport, il sagace Emilio De Martino, che convinse i due campioni ad abbracciarsi e a compiere un giro di pista affiancati, nel tripudio generale.
Il 1948 fu l’apogeo di Bartali, con la strepitosa vittoria al Tour de France. Eppure, un mese prima, al termine di un Giro deludente, senza una vittoria di tappa né un giorno in maglia rosa, La Gazzetta dello Sport (7 giugno 1948) riservò titolazioni liquidatorie «all’anziano Gino Bartali, pure insistentemente acclamato» nella sfilata conclusiva al Vigorelli. Collocato dalle sue 34 stagioni tra le vecchie glorie, a dieci anni esatti dal trionfo prebellico al Tour l’atleta toscano tornò in Francia, salutato dalla stampa come un insidiosissimo concorrente del favorito Louison Bobet, alla seconda stagione tra i professionisti, più giovane di undici anni rispetto a Bartali (che per l’occasione ebbe quale direttore sportivo l’autorevole Alfredo Binda). Il campione toscano, vinta in volata la prima frazione a Trouville, indossò la maglia gialla per un solo giorno. Alla sesta delle 21 tappe, Bobet salì in vetta alla classifica, intenzionato a restarvi sino a Parigi, mentre Bartali scivolava alla quattordicesima posizione. Galvanizzato dalla venerazione alla Madonna, nella Biarritz-Lourdes il devotissimo fiorentino s’involò con Jean Robic per poi batterlo, ancora in volata, sul rettifilo antistante il santuario mariano. L’8 luglio, con l’appagante bis alla Lourdes-Tolosa, salì all’ottava posizione. Mercoledì 14 luglio, giorno di riposo, mentre i ciclisti si godevano le suggestioni della Costa Azzurra, l’Italia precipitò nel caos per l’attentato al segretario comunista Palmiro Togliatti, colpito da 3 revolverate all’uscita da Montecitorio dal neofascista Antonio Pallante. In un clima di guerra civile incombente si collocò l’evento sportivo che contribuì a ricomporre le divisioni tra gli italiani. Difficile discernere la leggenda dalla realtà e stabilire se quella sera il presidente del Consiglio, il democristiano Alcide De Gasperi, abbia effettivamente telefonato al ciclista, a Cannes, chiedendogli un’impresa in grado di allentare la tensione. Fatto sta che all’indomani Bartali si scatenò sull’Izoard e a Briançon precedette Bobet di quasi 20 minuti. Il bretone mantenne tuttavia la maglia gialla con un margine di un minuto e 14 secondi. Alla radio e sui giornali italiani la notizia contese ai bollettini l’apertura sul dilagare degli scioperi e sul terribile bilancio degli scontri tra manifestanti e polizia: una quindicina di morti e oltre 200 feriti. E, il 16 luglio, il campione stupì tutti: rodatosi nell’ascesa al Galibier (2556 metri s.l.m.), s’involò, conquistò i 3 Gran premi della montagna e giunse solitario a Aix-les-Bains, detronizzando Bobet. Nel frattempo, in Italia, l’ordine pubblico si normalizzò, con la revoca dello sciopero generale. Bartali divenne l’eroe del momento. E il 18 luglio ottenne la terza vittoria consecutiva sul traguardo di Losanna. Il 23 luglio incassò il settimo successo di tappa (alla Metz-Liegi) e due giorni più tardi chiuse il Tour in forma smagliante, infliggendo distacchi abissali ai rivali. Al rimpatrio, fu ricevuto solennemente dal presidente della Repubblica Luigi Einaudi e da Pio XII.
Nello stesso anno partecipò al film Totò al Giro d’Italia (regia di Mario Mattoli), con i colleghi Coppi e Fiorenzo Magni e, oltre al grande attore partenopeo, Isa Barzizza e Walter Chiari.
In quella magica annata, Bartali surclassò – sul piano della popolarità – lo stesso Coppi. In realtà si trattava del suo canto del cigno, in quanto iniziava a risentire dell’età. Al termine della stagione 1948, dopo un sodalizio di tredici anni, lasciò la Legnano per la Tebag, poi costituì una squadra personale, a dimostrazione della sua notevolissima fama.
Nelle ultime stagioni agonistiche vinse nel 1950 per la quarta volta la Milano-Sanremo, nel 1952 il campionato su strada a punti, nel 1953 il Giro della Toscana. Così ricordò, nell’autobiografia, questa estrema affermazione: «Ho chiuso in casa. E qualcuno potrebbe pensare che questo ultimo mio exploit vincente sul traguardo che mi era familiare sia stato un gentile regalo degli avversari che mi sapevano al tramonto. Un corno! Quel giro di Toscana ha una sua storia. Dovevo vincerlo. Se così non fosse avvenuto, mi avrebbero tolto dalla squadra italiana in partenza per il Tour, il mio ultimo Tour» (Tutto sbagliato, tutto da rifare, p. 216). L’ultima volta in cui gareggiò fu in provincia, a Città di Castello, il 28 ottobre 1954, in una corsa 'tipo pista', nella quale vinse la finale della prova di velocità davanti ad Alfredo Martini.
I dati relativi alla sua carriera sportiva, riportati minuziosamente anche dal figlio Andrea nel volume Gino Bartali, mio papà (Milano 2012), testimoniano un impegno costante su un esteso arco temporale, con la forte penalizzazione del quinquennio bellico. Si va dalle 43 corse disputate nel 1935 (con 14 vittorie e 22 piazzamenti), alle 67 competizioni cui prese parte nel 1949 (dove ottenne 10 vittorie e 35 piazzamenti), per finire alle 40 corse del 1954, quando aveva già quarant'anni, in cui guadagnò 1 vittoria e 10 piazzamenti.
Annunciato il ritiro dalle corse il 9 febbraio 1956, rimase nell’ambiente ciclistico che s’identificava con la sua vita, alternando ruoli di inviato speciale de La Gazzetta dello Sport e di allenatore delle squadre San Pellegrino (1957-1963), Vittadello (1967), Pepsi Cola (1968) e Cosatto (1971). Su impulso di Vincenzo Torriani, al termine della stagione 1959 ingaggiò Fausto Coppi, in circostanze e con finalità rievocate nell’autobiografia Tutto sbagliato, tutto da rifare, in un'illuminante testimonianza dall’interno del microcosmo ciclistico italiano: «Erano appena finite le Finali della San Pellegrino, che selezionavano i giovani per il passaggio ai professionisti. Coppi stava andando alla Ghigi per firmare il contratto per il 1960: aveva finalmente lasciato la Bianchi. Ci incontrammo fuori dalla sede della "Gazzetta". “Gino, fai una squadra di ragazzi anche quest’anno?”. Io, piuttosto sconfortato: “A Messina ne avevo quattordici, ma ora ne ho solo quattro e non credo che ce la farò”. E lui, di rincalzo: “Perché non prendi me?”. Io: “Ma tu hai quarant’anni: io li prendo di venti”. Botta e risposta: “Mi paghi per due, e così siamo in sei!”. Sorpreso, ma non tanto: “Guarda che ti posso prendere sul serio...”. “Anch’io parlo sul serio”. Andai alla "Gazzetta". C’erano Torriani, il vecchio Cougnet, il buon Sironi ad assaporare la notizia. Raccontai il breve colloquio. Esplosione: ma è un’idea! Ferma tutto. Torriani telefona alla Chigi. Chiama l’avvocato della San Pellegrino. Si prende anche Venturelli! Pensate: Coppi e Venturelli, qualche giovane e Bartali direttore sportivo... Contratto. Così i due grandi rivali, quelli dei duelli all’ultimo sangue, diventano amici, alleati, compagni di cordata. Fu in quell’occasione che riparlammo, con Fausto, di regali. A cose fatte, con la San Pellegrino (pensate solo al furore di popolarità che avremmo rimesso insieme, Fausto ed io, per le strade: lui ancora in bicicletta e io ad aiutarlo, a consigliarlo, a fargli da ammiraglio...). Fausto mi prese in disparte e mi disse: Gino, devo proprio ringraziarti: mi hai fatto un grosso regalo a prendermi con te”. Tornò fuori la mia grinta: “Potevi ringraziarmi anche dieci anni fa, alla fine del Tour del ’49”. E Coppi: “Gino, ti giuro che prima di morire ti farò un regalo molto grosso!”. La mia ultima battuta fu di scetticismo: “Speriamo che non sia come quello del ’49”. Pochi giorni dopo, il 2 gennaio 1960, Fausto moriva» (p. 221). Effettivamente, senza la fatale malattia tropicale contratta nel safari africano, Coppi e Bartali avrebbero scritto una pagina inedita del ciclismo, sul piano umano e su quello agonistico...
Nella restante parte della sua lunga esistenza, Bartali valorizzò la propria fama di fuoriclasse e, con significativa assonanza, quella dell’amico-rivale Coppi, mediante interventi giornalistici e televisivi, nonché con l’acclamata partecipazione nel 1964 alla trasmissione RAI Processo alla tappa (ideata e condotta da Sergio Zavoli) e alla Carovana del Giro (corteo di mezzi motorizzati con funzioni pubblicitario-commerciali organizzata da Vincenzo Torriani). Nel 1979 pubblicò l’autobiografia Tutto sbagliato, tutto da rifare, il cui titolo riprese la frase-simbolo del 'Ginettaccio'. A dimostrazione della dimensione mitica, nel 1977 ricevette il Premio Italia in quanto «maggior campione ciclista vivente».
Si spense serenamente nella sua abitazione fiorentina, assistito dai familiari, il 5 maggio 2000.
Dopo la sua morte, furono dedicati a Bartali oltre un centinaio di libri, alcuni sceneggiati televisivi, e persino delle canzoni (la più celebre, Bartali, di Paolo Conte, eseguita anche da Enzo Jannacci). A lui è dedicato il Museo del ciclismo, aperto nel 2006 a Firenze, dove è allestita anche una Sala Bartali.
L’autobiografia di Bartali, Tutto sbagliato, tutto da rifare, Milano 1979, è il risultato della collaborazione con il giornalista sportivo Pino Ricci. Un’interessante testimonianza d’ambito familiare è il libro del figlio Andrea, Gino Bartali, mio papà, Milano 2012. Sul dualismo con il 'campionissimo' cfr. D. Marchesini, Coppi e Bartali, Bologna 1995; C. Malaparte, Coppi e Bartali, Milano 2009, e P. Alberati, Bartali e Coppi: l’eterna sfida, Firenze 2006. Sull’attività clandestina filoebraica: A. Magnotta, Gino Bartali e la Shoah, Firenze 2011; A. McConnon - A. McConnon, La strada del coraggio. Gino Bartali, eroe silenzioso, Roma 2013. Sull’epico Tour de France 1948: L. Turrini, Bartali. L’uomo che salvò l’Italia pedalando, Milano 2003. Per un inquadramento di Bartali nella storia del ciclismo cfr. M. Franzinelli, Il Giro d’Italia. Dai pionieri agli anni d’oro, Milano 2013.