Gino Capponi e la cultura toscana nel secolo decimonono
La genesi degli articoli pubblicati fra il 1916 e il 1920 sulla «Critica» e poi raccolti nel volume Gino Capponi e la cultura toscana nel secolo decimonono (1922), risale ai mesi a cavallo tra il 1914 e il 1915, quando Gentile si trasferì da Palermo a Pisa per insegnarvi filosofia teoretica, chiamato a succedere al suo maestro di gioventù, Donato Jaja. Il ritorno nella città dei suoi studi universitari – in un clima di ricordi, ma anche di cambiamento e di svolta – lo stimolò a confrontarsi direttamente con la cultura toscana dell’Ottocento: cultura ben più che regionale, solidissima, e che, pur pagina per lui oramai chiusa – a tutto vantaggio dell’ambiente partenopeo di Francesco De Sanctis e Bertrando Spaventa –, gli appariva elemento importante e degno della massima attenzione.
Il 26 gennaio 1915 – quando era ancora impegnato nella stesura degli ultimi articoli sul tramonto della cultura siciliana – scriveva a Croce (Lettere a Benedetto Croce (1910-1914), a cura di S. Giannantoni, 5° vol., Dal 1915 al 1924, 1990, p. 11) per chiedere di poter trattare lui il tema della Toscana in quella serie degli «Appunti per la storia della cultura in Italia nella seconda metà del secolo XIX» che il direttore della «Critica» aveva pensato di affidare prima a Giuseppe Prezzolini e poi ad Antonio Anzillotti (lettera del 28 gennaio 1915, in Lettere a Giovanni Gentile, 1896-1924, a cura di A. Croce, 1981, p. 489).
Ottenuto rapidamente l’assenso, nei mesi seguenti Gentile lavorò molto al tema, tanto che in novembre poteva considerarsi in una fase davvero avanzata, se non avesse sentito il bisogno di chiarire bene a se stesso «certi antecedenti» a cui non aveva pensato e che gli parevano gettare «una viva luce sul periodo studiato» (lettera del 28 novembre 1915, in Lettere a Benedetto Croce, cit., p. 58). Il soggetto lo appassionava, e man mano che procedeva nella stesura di quello che, in linea con il titolo della serie, doveva essere uno studio sulla cultura toscana nella seconda metà del 19° sec., riteneva necessario indagarne gli antecedenti anche nella prima metà dell’Ottocento, attraverso le figure di personaggi come Gino Capponi, marchese di Varramista, e l’abate Raffaello Lambruschini, che ne erano stati gli indiscussi protagonisti. Non a caso a quei temi continuò a dedicarsi alacremente pure tra la stesura definitiva di un’opera come la Teoria generale dello spirito come atto puro (1916) e i due volumi del Sistema di logica come teoria del conoscere (1917-1923), quasi tenesse a svolgere «un’attività di chiarificazione e commento di singoli aspetti» mentre affermava e sviluppava «una via nuova e rinnovatrice» (Garin 1991, p. 76).
Il lavoro proseguì per tutti gli anni della Prima guerra mondiale e nei primi mesi del dopoguerra, anche perché Croce, pressato da esigenze tipografiche e di equilibrio nelle pagine della «Critica», dovette dividere in più articoli quelli che erano saggi concepiti unitariamente e che poi ritroveranno la loro forma iniziale nella veste in volume. Rispetto alla versione comparsa sulla rivista, Gentile ripropose, nelle tre edizioni apparse durante la sua vita – Vallecchi 1922 e 1926, Sansoni 1942 (dalla quale sono tratte le citazioni contenute nel presente saggio), come 23° volume della serie Opere complete di Giovanni Gentile –, il testo in modo sostanzialmente immutato, aggiornando però la bibliografia e le note, specie laddove l’uscita di inediti e carteggi, negli anni Venti e Trenta, poteva apportare ulteriore sostegno e sviluppo alle sue tesi.
Il libro è dedicato «al nome caro e venerato di Alessandro D’Ancona, maestro indimenticabile, degli scrittori toscani della nuova Italia il più italiano» (p. non numerata). Una testimonianza eloquente non solo del ricordo e dell’affetto per l’antico direttore della Scuola Normale, ma anche riconoscimento – non del tutto scontato in Gentile – a un metodo improntato all’analisi filologica e documentale che si rivelava particolarmente fecondo nell’illustrazione e nell’inquadramento di personaggi come quelli della Toscana risorgimentale, la cui miglior comprensione si ricava spesso proprio dai documenti intimi, dai frammenti superstiti di scritti non pubblicati e dalle testimonianze degli amici che meglio li conobbero.
La figura vera e propria di Capponi occupa solo la parte prima del libro (intitolata appunto Gino Capponi), che non è neppure la più estesa per numero di pagine. Uomo che poco scrisse e poco produsse direttamente di suo, ma che – retto da un alto spirito e da principi profondamente radicati – seppe essere al centro della vita culturale: fu «amico, consigliere, ispiratore, eccitatore, correttore» per tanti scrittori e uomini di studio, così che si può risolutamente indicare come il «centro di ogni moto che accennasse a una vita spirituale nella Toscana d’innanzi al 27 aprile 1859» (p. 1), ovvero prima della caduta della dinastia dei Lorena e della formazione dell’unità italiana.
Capponi fu per Gentile la mente del mensile «Antologia», laddove Gian Pietro Vieusseux ne rappresentò l’anima e il braccio, che dalla prima traevano alimento per un’opera alacre e intelligente, capace di irradiare luce e calore di civiltà in tutta Italia, indirizzandone e disciplinando gli sforzi di tanti ingegni sparsi per la penisola «verso una nuova coscienza, che non era più quella del secolo XVIIII ma non era tutta quella del secolo posteriore» (p. 2).
Gentile sottolinea il peso che la conoscenza di Ugo Foscolo – all’epoca dell’esilio londinese, quando Capponi aveva 27 anni – ebbe nella formazione del suo pensiero. Ne derivarono in Capponi l’idea di una letteratura distante dalla pedanteria, che guarda allo spirito; la cautela verso l’uso di categorie come il romanticismo, perché gli scrittori di genio appartengono a tutte le nazioni e a tutti i tempi; l’impegno nel richiamare gli italiani alla storia per raddrizzarne le menti e riscaldarne i cuori, con un sentimento vivo della coscienza nazionale e un rinnovamento e un’apertura di orizzonti che finivano per andare oltre lo stesso Foscolo.
Nei confronti della filosofia, intesa come pura speculazione, la posizione di Capponi risulta particolarmente guardinga, denunciandone l’aspirazione ai sistemi, i limiti e la fallacia, perché spesso essa si poneva problemi dei quali non era dato alla mente umana di trovare soluzione. In proposito Gentile si sofferma su una significativa lettera di Capponi del luglio 1834 (il giorno non è indicato), in cui questi invitava l’amico Silvestro Centofanti, impegnato in quel periodo nell’analisi di Giordano Bruno, a non inseguire più la «filosofia intera» a cui – sulla scorta del Nolano – anelava: né lui né altri l’avevano o l’avrebbero trovata e non conveniva perdere tempo a cercarla (p. 11). Un convincimento prodottosi dopo che, in anni giovanili, Capponi vi si era evidentemente dedicato, e che lo aveva portato alla radicata convinzione che l’analisi non potesse scoprire una verità fondamentale, principio di tutto.
Su questo influiva probabilmente la dimensione religiosa, perché – notava Gentile – Capponi considerò sempre negazione dell’essenza del cristianesimo tanto il soggettivismo – che fa dell’uomo la norma dell’universo – quanto il panteismo – che lo divinizza. Certo nessun filosofo lo soddisfaceva in tutto, né il suo intelletto poteva condursi in sistema attraverso una catena di proposizioni nella quale prima o poi non si rompesse qualche anello. Di qui la predilezione per quei pensatori che si erano espressi attraverso la tecnica del frammento, approccio e metodo che fu anche il suo, come attestano le tante opere (specie di argomento storico) da lui abbozzate, spesso in modo mirabile.
Scetticismo dunque, o almeno eclettismo, con un’attenzione notevole al fatto, all’elemento positivo, nel solco della «sana e giudiziosa scuola di Locke» (p. 8), come la definiva Capponi. Anima indubbiamente e profondamente religiosa, non scorgeva la possibilità di una speculazione metafisica nell’ambito della fede, ma sosteneva altresì la maggiore libertà nella ricerca di quanto potesse contribuire al bene sociale, con la più piena indipendenza dalla religione, che vi era stata tanto «mal mescolata» in passato (p. 9). Opinione liberale e riformatrice, che tanto più altamente apprezza il valore della religione quanto più recisamente la vuole separata dalla vita sociale e politica, e raccolta nell’intimità del sentimento.
Più in generale, nei grandi toscani dell’Ottocento Gentile ravvisa, come argomento centrale delle loro riflessioni, la possibilità di promuovere una riforma nel cattolicesimo senza eresie né scismi, e da questo punto di vista li considera precursori di quel modernismo che negli anni in cui egli scriveva era argomento vivo e palpitante.
In tal senso, da Capponi a Lambruschini il passo era davvero breve, e non a caso Gentile, nella sua trattazione, subito dopo Capponi si occupa a lungo (nella parte seconda, Raffaello Lambruschini e il problema religioso) del ‘solitario di San Cerbone’. Alla nuova e più scientifica illustrazione di questo personaggio fornì un altro rilevante contributo, sollecitando fin dal 1915 Angiolo Gambaro a raccoglierne gli scritti e l’epistolario (Turi 1995, p. 238), secondo un programma ambizioso che si dispiegherà tra il 1918 e il 1939 e che lo avrebbe dimostrato – carte alla mano – come uno dei più fini e profondi spiriti religiosi dell’Ottocento.
Il pensiero di Lambruschini era stato costretto a destreggiarsi, a chiudersi in se stesso, a rinunciare a una vera libertà di espressione e di svolgimento, prima per problemi evidenti di censura, poi per questioni di ortodossia teologica, venendo spesso additato dai suoi avversari come ‘luterano’ o ‘ginevrino’ per le sue idee rinnovatrici: non era vero, ma certo il suo «è uno di quei casi in cui lo scrittore inedito vale più di quello già noto» (Gino Capponi, cit., p. 32).
Gentile apprezza in Lambruschini il senso acuto dell’immanenza dei valori spirituali, la soggettività della verità religiosa intesa come «soggettività di ogni verità» (p. 36), l’esigenza spirituale che non riguarda in maniera specifica la religione, ma è libera espansione della personalità. Analogamente a Capponi, aveva in orrore le sottigliezze intellettualistiche di quella filosofia che presume di scoprire la verità a forza di sillogismi; abbracciava pertanto una tendenza antimetafisica ed empirizzante, convinto che la verità della religione non si dimostra, e che le acutezze dei metafisici e delle speculazioni trascendentali possono soltanto sfigurarla.
Religione e morale sono per l’abate toscano in fondo una cosa sola, in quanto la religione del cristiano è essenzialmente morale, e la sua morale ha principio e fine nella fede. Secondo Gentile, i suoi propositi di riforma miravano a una maggiore spiritualizzazione della religione, liberata dal formalismo scolastico della teologia e dal materialismo meccanico del culto, per ricondurla invece a una viva sorgente interiore. Dunque rivendicazione dell’autonomia della coscienza dalla soverchiante intromissione della gerarchia, ma nessuna ambizione, o illusione, come nel mondo protestante, di salvarsi tornando ai principi originari del cristianesimo, cioè al rito e alle idee dei primi fedeli, perché ciò voleva dire negare quella storia attraverso cui la verità cristiana era vissuta, e Lambruschini aveva un senso troppo profondo delle radici che la verità ha nella persona umana. Essa vive attraverso lo svolgimento stesso dello spirito e così – notava Gentile – l’abate poteva «egregiamente giustificare» (p. 46) l’insegnamento religioso a base di tutta l’educazione.
La società religiosa, come ogni aggregato umano, aveva certo bisogno di una costituzione esteriore, di leggi e di governo, ma l’errore compiuto nei secoli era stato quello di voler regolare tutto e di considerare gli uomini come perenni pupilli. Il credente si era così ridotto a vedere nel sacerdote Dio stesso, a scambiarlo per quella legge che interpretava e applicava. Bisognava pertanto affermare la libertà della coscienza religiosa verso l’autorità ecclesiastica e la libertà dello Stato verso la Chiesa.
Furono questi i temi del dialogo fecondo intessuto tra Lambruschini e Bettino Ricasoli, barone di Brolio, iniziato quando il primo aveva cinquant’anni e il secondo ventinove, facendo sì che le riflessioni del più anziano non restassero semplice utopia religiosa, ma concorressero a determinare la temperie spirituale del tempo, svolgendo attraverso l’opera pubblica del secondo un peso tutt’altro che trascurabile nella formazione del pensiero politico e religioso della nuova Italia.
Nella terza parte del libro (Bettino Ricasoli e i rapporti tra Stato e Chiesa), Gentile tra le altre cose si sofferma con dovizia di particolari sulle idee pedagogiche di Ricasoli e sulla loro applicazione pratica nell’educazione della figlia, viste come indice fin dagli anni giovanili di un rigido concetto della vita, ritenuta missione da adempiere. Uno zelo che dal piano della famiglia si sposta a quello della proprietà, in un’opera di miglioramento delle sorti – invero più morale che materiale – dei contadini che vivevano e lavoravano nella sua vasta tenuta di Brolio.
Per molti versi è la preparazione all’ingresso nella vita politica attiva, avvenuta a partire dal 1847, sulla scia dei moti riformisti di quell’anno. Gentile ovviamente non segue l’opera di Ricasoli, animatore del quotidiano «La Patria» e gonfaloniere di Firenze, poi ritiratosi in uno sdegnoso isolamento nel successivo decennio, dopo il ritorno del granduca Leopoldo II al seguito delle truppe austriache. Ne mette però in rilievo la forte spinta unitaria, suo costante pensiero, e l’afflato severo, quasi mistico, che trasfuse in essa quando ebbe le più alte responsabilità di governo, dopo la cacciata dei Lorena nell’aprile del 1859, nella stagione decisiva dei plebisciti della quale fu protagonista indiscusso.
Un afflato che non si esauriva sul piano politico, perché dopo quella unitaria, conclusasi con la proclamazione del Regno d’Italia, Ricasoli auspicava una rivoluzione religiosa: rivoluzione che non fosse imitazione nuova o vecchia della riforma protestante – non possibile né adatta all’Italia («volendola far tale, riusciremo piuttosto a farla atea», si dice abbia detto) – ma frutto, invece, di un processo solo inizialmente e indirettamente stimolato dallo Stato, ma poi abbracciato e svolto dai credenti e dalle stesse gerarchie ecclesiastiche, rinnovatesi tanto in profondità quanto per convinzione intima e autentica. Un rinnovamento frutto di quella libertà permessa e promossa dallo Stato ma che – una volta applicata al quadro dell’associazione religiosa, estendendola al clero e ai laici – avrebbe vivificato e rinvigorito la religione, restituendone il senso e la pratica alla loro purezza, e contribuendo nel contempo al progresso umano.
Così pensando e operando, Ricasoli – nell’interpretazione di Gentile – non veniva a esprimere una differenza sostanziale di concezione rispetto alla nota formula separatista di Camillo Benso, conte di Cavour: ma certo l’animo dei due uomini era diverso, e diverso il termine delle loro aspirazioni. Lo statista piemontese era tempra così appassionatamente politica da non sentire con pari forza il problema religioso una volta che fosse garantita dallo Stato, accanto a tutte le altre libertà, anche quella di coscienza. Per il barone toscano, oltre allo Stato si doveva guardare allo spirito, «da cui lo Stato attinge la sostanza del suo essere e le sue linfe vitali» (p. 102): spirito che nel sentimento religioso raggiunge la sua più profonda realtà.
Le idealità ricasoliane si sarebbero scontrate con un panorama sociale che, sul finire della vita, gli appariva inesorabilmente avaro, dominato com’era da due classi contrapposte, ma egualmente insensibili alle sue ispirazioni: gli scettici, o indifferenti, e i creduli, o bigotti. Tormento continuo per un problema di cui non riusciva a trovare la soluzione, perché, scrive Gentile, «separare in modo radicale, com’egli voleva, per amore della libertà, non è possibile, quando non si sappia poi o non si possa concepire ciascuno dei due termini come sufficiente a se medesimo» (p. 112).
Di ben minore portata storica, rispetto alle figure sin qui evocate, quella di Centofanti, docente di storia della filosofia nell’ateneo pisano negli anni del Risorgimento, personaggio caduto sostanzialmente nell’oblio già sul finire dell’Ottocento, ma a cui nondimeno Gentile dedica molte pagine (nella parte quarta, Silvestro Centofanti e il suo sistema di filosofia) per ricostruirne appunto il sistema di filosofia. Incuriosito da questa sua aspirazione continua (al di là dei risultati effettivamente conseguiti), stimolato dall’abbondanza di materiale inedito reperito e consultato nell’Archivio di Stato di Pisa, si compiacque soffermarsi su quest’uomo dall’ingegno irrimediabilmente vagabondo, ma che era stato capace di tenere la cattedra – tra l’entusiasmo dei giovani e la stima degli uomini più colti – nella sola università della Toscana che avesse allora un insegnamento filosofico, e di vedersi annoverato (come attestano i carteggi) tra le maggiori autorità del tempo in materie speculative. Con l’insegnamento e con la parola, più che con gli scritti, ebbe pertanto «un’azione non trascurabile nella formazione mentale delle generazioni che allora si venivano educando» (p. 118).
Diversamente da Centofanti, la figura ben nota (se non altro per la sua poliedrica attività) di Niccolò Tommaseo serve a Gentile, più che a ricostruirne l’opera e il peso nell’ambito culturale della Toscana, a introdurre (nella parte quinta, Niccolò Tommaseo e i nuovi piagnoni) quello che è il tema fondamentale della seconda sezione del libro, ovvero la persistenza della memoria di Girolamo Savonarola nella cultura toscana dell’Ottocento e le sue rilevanti ricadute: una tradizione «piagnona», come la chiama continuamente Gentile, davvero di lungo periodo.
Lo scrittore dalmata, con i suoi cinque libri Dell’Italia – pubblicati a Parigi nel 1835 e introdotti nella penisola, per ingannare le autorità doganali, con il titolo stampato in copertina di Opuscoli inediti di fra Girolamo Savonarola – appare a Gentile come il più efficace interprete nei tempi nuovi della figura del martire di origini ferraresi, il cui ricordo a Firenze era venuto alimentandosi nei secoli di un culto a metà fra il sacro e il profano.
Tommaseo fu sempre animato da un cattolicesimo ritenuto perfettamente compatibile con la libertà, se non addirittura inscindibile da essa, e portò questo suo sentire in mezzo alle più accese passioni del tempo, propugnandolo con operosità instancabile nel dibattito quotidiano: anima ardente, dal carattere spesso irritante e dall’inesauribile vis polemica, «mirava ad una religione che compenetrasse di sé tutta la vita, dal costume alla politica» (p. 188). Quello di Savonarola diventava perciò «un nome santo» (p. 194), da recuperare e conoscere per la più vera e proficua rivoluzione italiana, che non andava affrettata con sterili tentativi cospirativi – e perciò ristretti a piccole cerchie –, ma attuata prima con l’educazione del popolo, formandolo moralmente e materialmente, utilizzando il clero secolare, quei parroci di campagna a cui Tommaseo guardava con speranza per la loro insostituibile capacità mediatrice, rinunciando alle fissità ideologiche del formalismo politico a cui si attenevano i mazziniani.
La tradizione «piagnona» si rinnovava, e da Tommaseo si trasmetteva a nuovi discepoli, attivi e operosi prima e dopo la proclamazione del Regno, destinati a esercitare un peso rilevante nella vita culturale della Toscana, sia pure da sponde diverse, talvolta opposte, ma che trovavano proprio in Savonarola un punto di contatto (si vedano le parti sesta e settima, Il giudizio su Girolamo Savonarola e La risurrezione del Savonarola): dal pratese Cesare Guasti, l’epigono più aperto e diretto, il cultore più appassionato e metodico di quelle memorie, al giovane Giosue Carducci, di ben altre idee, ma sempre tanto sensibile per quel frate in cui convergevano le aspirazioni più pure e rinascevano le figure più ardite del monachesimo democratico.
Lo stesso Savonarola di Pasquale Villari (si veda la parte ottava, Il Villari piagnone), il quale applicò lungamente allo studio del ferrarese gli strumenti nuovi dell’analisi filologica e documentaria, è in ultima analisi il riformatore cattolico e il restauratore della vita morale nella religione. Anche per Villari il frate di San Marco non è un qualunque personaggio storico, ma «un’insegna e un’idea, un vero programma di vita» (p. 297). Un elemento centrale nella valutazione che lo scrittore napoletano dava del Rinascimento – ovvero la corruzione, il tarlo su cui Villari non si stanca mai di insistere – è di pretta derivazione savonaroliana. Un Rinascimento che gli appare sì come il più originale contributo arrecato dall’Italia allo svolgimento universale dello spirito umano, ma anche la fase in cui si cristallizza e si esaspera quella disgregazione politica che farà della decadenza e della frammentazione della penisola una stagione plurisecolare, una realtà tanto difficile da spezzare e superare.
Questo miscuglio di forze vitali e deleterie è al centro delle riflessioni di un altro discepolo della scuola di Capponi, quel Marco Tabarrini (si veda la parte nona, Marco Tabarrini e la storia nazionale italiana) che del «candido Gino» fu frequentatore assiduo e confidente, raccoglitore di memorie ed editore di testi inediti; quasi un biografo ufficiale, diremmo oggi. Per tentare di sciogliere il segreto dell’italica gente, in grado di meravigliare il mondo con lo splendore delle arti e delle lettere ma a lungo incapace di conquistare la coscienza e quindi la forza della propria personalità, Tabarrini torna più volte, nei suoi tanti contributi storici, a interrogarsi sulla stagione del Medioevo e delle libertà comunali, sull’intreccio (come in Villari) fra la civiltà latina e quella germanica, appoggiandosi felicemente, secondo Gentile, a due concetti speculativi: la necessità razionale del processo storico e la sua intrinseca moralità.
Gentile non dimentica che la Firenze neopiagnona fu anche il luogo di diffusione in Italia, o almeno di divulgazione, delle teorie darwiniane sui rapporti di discendenza dell’uomo dalla scimmia (si veda la parte decima, Scienza e fede, o la natura e l’uomo): idee di cui si fece banditore il 21 marzo 1869 – durante un’affollata conferenza pubblica dal titolo Sulla parentela fra l’uomo e le scimmie – il chimico russo Aleksandr I. Herzen, assistente del tedesco Moritz Schiff, allora docente di fisiologia umana nel cittadino Istituto di studi superiori. Contro le implicazioni morali e filosofiche che potevano dischiudere tali teorie, specie se divulgate alla leggera, insorsero tanto Lambruschini (con uno stile pacato e ragionato a lui naturalmente congeniale, nonostante l’importanza decisiva del tema) quanto Tommaseo (animato invece da gran foga nel ribattere al baldanzoso materialista straniero): entrambi impegnati non a discutere della scientificità dell’evoluzionismo, ma della possibilità che si volesse ridurre l’uomo al livello degli animali, con tutte le conseguenze sociali che tale tentativo comportava.
Fu una sorta di canto del cigno della vecchia scuola toscana, che su quei temi presto divenuti centrali nel dibattito intellettuale europeo e italiano avrebbe lasciato il testimone alla generazione successiva, quella di Augusto Conti, capopattuglia degli scrittori raccolti intorno al mensile «Rassegna nazionale» (si vedano le parti undicesima e dodicesima, Le origini della “Rassegna nazionale” e Il programma della “Rassegna nazionale”), sorto nel 1879 e che secondo Gentile coordinò, promosse e rinvigorì tutte le forze e le tendenze cattoliche liberali d’Italia, in una costante, assidua e ampia attività, capace di rappresentare al meglio, nonostante la difficoltà dei tempi e il mutamento delle idee, quella corrente dello spirito italiano, opponendosi – per motivi non certo eguali a quelli della rivista dei gesuiti, «Civiltà cattolica» – «allo scristianeggiamento d’Italia» (p. 387).
Un programma che tornava a conformarsi al concetto di una religione intima e schiettamente morale, capace di riformare dal di dentro l’uomo e compenetrarne tutta la vita artistica, scientifica e politica. Riconoscimento non da poco per Gentile, che giudicava comunque quel programma come l’epilogo di una stagione, giacché la filosofia di Conti e della «Rassegna» era una ‘superficializzazione’ del pensiero dei grandi toscani del Risorgimento, incapace di produrre un vero movimento scientifico o religioso («forma senza sostanza, programma senza uomini, formule senza idee», p. 415), velleità cui non corrispondeva però lo svolgimento effettivo di un’azione spirituale energica e produttiva.
La tradizione sviliva così nella maniera, e anche nell’ambito culturale assumeva manifestazioni ristrette, legate al culto di un genius loci fine a se stesso, come dimostravano (si veda la parte tredicesima, L’Accademia della Crusca) i lavori dell’Accademia della Crusca – contro cui non a caso Gentile avrebbe preso posizione poco dopo in qualità di ministro della Pubblica Istruzione (cfr. La Accademia della Crusca, intervista al quotidiano fiorentino «La Nazione», 15 marzo 1923, poi in Il fascismo al governo della scuola: novembre ’22-aprile ’24; discorsi e interviste raccolti e ordinati da Ferruccio E. Boffi, 1924, pp. 49-51) – e (si veda la parte quattordicesima, Conferenze) le conferenze dantesche, proliferate fra Ottocento e Novecento, nelle quali finivano per spegnersi anche gli ultimi sprazzi vitali del pensiero dei grandi toscani del Risorgimento.
Le tre parti iniziali, quelle su Capponi, Lambruschini e Ricasoli, sono certo le più riuscite e definitive: a esse poco hanno aggiunto i lavori successivi, specie se si considerano quei personaggi sul piano delle idee, della morale e dei valori da cui furono profondamente animati.
Il ritratto di Capponi è tanto più rivelatore in quanto breve, con notazioni acutissime e squarci penetranti nel grande universo culturale del «candido Gino», non semplice da ricomporre vista la sua predilezione per il frammento. Di Lambruschini, Gentile traccia un profilo che ce lo restituisce per la prima volta, e in modo si può dire definitivo, nella sua interezza e nella sua grandezza autentica di pensatore religioso, fino ad allora troppo confinato in una dimensione angustamente pedagogica e agraria. Le pagine su Ricasoli illuminano con dovizia di particolari e grande acume il motivo religioso alla base della sua azione politica, recuperando il vero spessore di lettere e carteggi pur editi da diversi anni ma non adeguatamente valorizzati: una trattazione illuminante, che non a caso apparve subito a Croce capace di affrontare «problemi intimi e fondamentali della nostra vita nazionale» (lettera del 2 giugno 1916, in Lettere a Giovanni Gentile, cit., p. 518).
Maggiori differenze esistevano sul piano politico – e sarebbe stato chiarito in seguito, dalla storiografia del secondo dopoguerra – non soltanto tra Capponi e Ricasoli, ma anche tra Capponi e Lambruschini, come dimostra un esame delle rispettive posizioni tanto nel 1848 quanto nel 1859. Solo accennato – ma forse non poteva essere diversamente, visti i tempi e lo stato delle ricerche – il ruolo centrale di Vieusseux come promotore e organizzatore di cultura, con un’autonomia e una vivacità che andavano oltre le linee guida fissate dal «candido Gino».
La storiografia di derivazione gramsciana rimprovererà poi a Gentile di aver ignorato il sostrato agrario del liberalismo moderato toscano e di conseguenza il sostanziale conservatorismo che avrebbe comportato a più livelli; l’accusa è fondata, perché questa dimensione manca del tutto nell’opera, anche se resta da chiedersi quanto un simile aspetto potesse personalmente interessare a Gentile nel disegnare un affresco di storia delle idee, dove la politica è lasciata volutamente in secondo piano. In tal senso appare più fondata la critica per aver voluto espungere da quel quadro l’opera di un autore come il livornese Francesco Domenico Guerrazzi, i cui romanzi – dai connotati laici e democratici, animati da un radicalismo realistico e anticlericale – ebbero comunque un peso rilevante nella formazione dei giovani e dell’opinione pubblica risorgimentale, della Toscana e non solo.
Altre parti – come quelle su Centofanti, Tommaseo, Villari e Tabarrini, indagati fino in certe piccole polemiche del loro tempo che invece dicono molto di più di quanto sembri a prima vista – mostrano quale tempra di ricercatore e di ricostruttore storico di un ambiente culturale avesse Gentile, qui più che mai allievo formidabile di D’Ancona.
La sezione che presta maggiormente il fianco alle critiche, alla luce anche degli studi successivi, è quella sulla persistenza a Firenze e in Toscana della tradizione «piagnona», non tanto perché essa non vi fu, ma quanto perché vanno molto ridimensionati il peso e l’influenza che essa ebbe nel quadro culturale regionale e cittadino della seconda metà dell’Ottocento. In particolare, tutt’altro clima – rispetto a quello raffigurato da Gentile – si respirava nell’ambiente del citato Istituto di studi superiori, nato con l’Unità d’Italia e ormai centro di alta cultura di valenza europea, dove a ben vedere solo Conti e pochi altri afferivano alla tradizione neosavonaroliana. La maggioranza dei suoi docenti – da Paolo Mantegazza a Hugo Schiff (fratello del citato Moritz), da Girolamo Vitelli a Felice Tocco, sino a Gaetano Trezza, Cesare Paoli e allo stesso Villari – si poneva su posizioni assai distanti, nel solco di una forte, matura e vitale temperie positivistica: in tal senso, tutti costoro ebbero una grossa rilevanza, non solo sugli studenti ma anche all’esterno, che Gentile, tacendola, di fatto nega. E ancora, se ampio spazio egli dedica alla cattolica e conciliatorista «Rassegna nazionale» non ricorda la «Rassegna settimanale», fondata a Firenze nello stesso periodo da Leopoldo Franchetti e Sidney Sonnino, tutta impegnata a scuotere l’opinione pubblica intorno alla questione meridionale, che per tanta parte era questione sociale. Altrettanto deboli, se non addirittura fuorvianti per comprenderne il reale svolgimento, le pagine sulla polemica suscitata da Herzen a proposito del darwinismo, laddove Gentile vorrebbe identificare tutta la cultura toscana di quel tempo nelle convinzioni di un Lambruschini e di un Tommaseo. Si può dunque considerare questa sezione del libro di Gentile quasi come
un pamphlet che la cultura meridionale del primo Novecento, fiera della rinascita idealistica che aveva promosso, lanciava contro la cultura toscana, per screditare insieme il rigore storico-filosofico della scuola universitaria e i furori superficialmente iconoclasti alla Papini (Garin 1962, p. 110).
Inoltre era un modo per dimostrare implicitamente il trasferimento della funzione di capitale culturale da Firenze a Napoli e per celebrare così la vittoria dell’idealismo.
Incomprensioni e silenzi trovano allora, in questo lucido esercizio di cultura militante antipositivista condotto per mezzo di una ricostruzione storica, le loro profonde e più autentiche ragioni, e consentono di situare il Gino Capponi in un posto non trascurabile della vasta opera gentiliana.
Bibliografia
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Gino Capponi. Storia e progresso nell’Italia dell’Ottocento, Atti del Convegno di studio, Palazzo Strozzi 21-23 gennaio 1993, a cura di P. Bagnoli, Firenze 1994 (in partic. G. Invitto, La formazione di Gino Capponi tra Firenze e Vienna, pp. 47-74; P. Bagnoli, La storiografia otto-novecentesca, pp. 263-76).
G. Turi, Giovanni Gentile. Una biografia, Firenze 1995, pp. 238-39.
M. Moretti, Gentile, D’Ancona e la ‘scuola pisana’, «Giornale critico della filosofia italiana», 1999, 78, pp. 65-116.