Capponi, Gino
Storico e politico, nato a Firenze nel 1792 e ivi morto nel 1876. Liberale, cattolico e progressista, fu portatore di un’idea di storia e di società per molti versi agli antipodi di quella machiavelliana; criticò dunque spesso la figura e l’opera del Segretario fiorentino, considerato da lui una sorta di antimodello, sia etico sia storiografico.
Il primo giudizio contro M., già articolato e assai duro, viene espresso da C. in uno scritto giovanile rimasto incompiuto e inedito fino al 1879, quando lo diede parzialmente alle stampe Marco Tabarrini (1879, pp. 81-82): Studio abbozzato intorno a Machiavelli. L’autografo, risalente al biennio 1819-20, è conservato alla Biblioteca Nazionale di Firenze (con segnatura R.C., cass. XXIII, ins. 22, di 23 cc. complessive; cfr. Scritti inediti, a cura di G. Macchia, 1957, p. 18). Qui C. attacca senza mezzi termini M. uomo, scrittore e funzionario; sotto ognuno di questi profili, privatamente e pubblicamente, M. appare, agli occhi di C., un personaggio meschino e opportunista (in pensieri sparsi, databili forse al 1820, arriva a dire che fu «un po’ libertino»: Pensieri sparsi, in Scritti inediti, cit., p. 239), i cui vizi sarebbero stati eclissati, con il tempo, dalla bellezza delle sue scritture, non completamente degne di fede perché nate dal calcolo e dall’interesse. Nello Studio abbozzato si legge:
Macchiavelli è minore uomo politico assai che non è scrittore, e non agì mai se non come subalterno; e a giudicare del suo carattere dalla sua vita avvolta tra mille maneggi, si richiederebbero laboriose indagini, dalle quali non so se egli poi uscirebbe irreprensibile. Ma la condizione di chi scrive e insieme agisce nei fatti politici, è pericolosa; perché o gli scritti dan luogo alla mala interpretazione dei fatti, o questi tolgon fede agli scritti. Ma dopo morte rimane quello che è bello e illustre, e il resto si scorda. […] Sicché di Macchiavelli, come uomo di Stato, poco ci è che meriti d’esser detto, né la posterità ha verso di lui l’obbligo di rivendicare sulla sua memoria le ingiustizie della fortuna, ché forse ei non la meritava migliore (in Scritti inediti, cit., pp. 259-60).
Non meno duro risulta il giudizio sul Principe, che spazza via in un sol colpo l’interpretazione filo-repubblicana salita in auge tra Sette e Ottocento in ambienti democratici e rivoluzionari, e afferma invece un’interpretazione del trattatello quale mero atto di captatio benevolentiae nei confronti di un possibile protettore; questa la definizione esatta dell’opera data dal giovane C.: «L’indefinibil libro del Principe, scritto forse per comperare il momentaneo favore di uno stolto e debole tirannuccio» (p. 260). Nei Pensieri sparsi, a sostegno di questa sua tesi, C. annota pure:
Vedi la lettera de’ 10 dicembre 1513 dove [M.] parla della sua vita privata, della sua povertà e del bisogno che aveva di servire ai Medici per mangiare. Per il che avrebbe tenuta loro la fede, come era avvezzo a tenerla a chiunque servisse (in Scritti inediti, cit., p. 238).
È perfino superfluo avvertire che simili opinioni su M. e sul significato della sua opera non erano del tutto ‘innocenti’, cioè partorite a mente fredda, in modo obiettivo e impersonale. In C. cominciava già a delinearsi, infatti, l’ideologia matura del liberal-moderato cattolico della «Antologia», monarchico costituzionalista e fiducioso nel perfezionamento umano. Già nel 1819-20, almeno tre aspetti delle dottrine attribuite a M. dovevano incontrare l’ostilità di C.: 1) l’affermazione di una sostanziale malignità della natura umana; 2) il corollario di ciò: ossia l’affermazione che il potere monarchico è infido e malvagio; 3) la polemica contro la Chiesa romana e, più in generale, la teoria della religione come instrumentum regni. C. si schiera insomma subito contro quel «Machiavellismo» (Studio abbozzato, in Scritti inediti, cit., p. 266) per lui fonte di inutile e ingiustificato pessimismo storico e politico, d’intralcio a ogni speranza di rinascita e miglioramento per la Toscana come per l’Europa; un machiavellismo che invece aveva già fondato il pensiero negativo di Ugo Foscolo e avrebbe di lì a poco fondato quello di Giacomo Leopardi.
C. non nega che la morale politica del primo Cinquecento sia quella descritta da M.: nega che l’uomo non possa mai, in nessun caso, abbandonare quella morale ed evolversi in meglio; nega insomma che l’uomo sia per sua stessa essenza cattivo. M., per un misto di miopia, povertà d’animo e spregiudicatezza, si sarebbe arrestato a suo parere alla superficie dei fatti umani. Leggiamo ancora dallo Studio abbozzato:
Egli è verissimo che Macchiavelli non ha veduto altro ordine di cose, che quello del tempo suo, e che questo era forse il più miserabile al quale il genere umano sia stato mai sottoposto. E che negli esempi storici egli non è andato a cercare che questo solo. Ma egli non era che l’uomo dei fatti, né vedeva altro che quello che poteva essere messo in azione, perché tutto il suo immenso ingegno era d’osservazione e limitava la sua scienza e quella per la quale egli potesse aver termini di comparazione nelle cose che aveva sott’occhio. L’andar più in sù dipende piuttosto da altezza d’animo che di mente, ed io lo credo tanto sprovvisto di quella, quanto egli era prodigiosamente ricco di questa. […] i principj di Macchiavelli son veri, ma solamente in quella vista e sarà sempre quella una delle maniere per prendere gli uomini fino che questi conserveranno passioni, e debolezze, e vizj (pp. 266-67).
Il progesso civile degli ultimi secoli ha smentito, a parere di C., la maniera machiavelliana di intendere la realtà effettuale, specie per quel che riguarda la pretesa crudeltà connaturata al ruolo principesco. Tale maniera, scrive perciò C.,
sarà […] sempre meno potente a misura che aumenteranno dall’altra parte le vere e utili cognizioni, e la facilità di applicarle. Le quali cose sono aumentate grandemente dall’epoca di Macchiav. in poi, ed è da sperare che aumenteranno sempre. E però diceva bene Hume che fra le cose che ora son divenute migliori, la Monarchia è una di quelle che ha grandemente perfezionata la sua natura (p. 267).
Si evince inoltre da queste parole che C. consente con le critiche mosse a M. da David Hume; poco sopra ha infatti registrato quanto segue: «come diceva Hume, gli assiomi di Macchiavello son la maggior parte dimostrati falsi dagli avvenimenti posteriori, perché fortunatamente la faccia del mondo è cangiata» (p. 267).
Come ha osservato Piero Treves, C. considerò sempre la politica «un fatto di etica e di religione», dunque non poté mai solidarizzare con l’impianto delle opere storiche o letterarie machiavelliane, pur dimostrando, a più riprese, di conoscere tali opere a fondo, citando anche dai Decennali o dalla Mandragola. Difatti l’atteggiamento di C. verso M. non conosce una significativa revisione nel corso degli anni, e si prolunga fino all’opera capponiana che più di tutte attinge a M. (in particolar modo alle Istorie fiorentine), ovvero la Storia della Repubblica di Firenze, pubblicata a Firenze il 22 gennaio 1875, quindi a pochi mesi dalla morte. Qui M., pur essendo richiamato di continuo per le informazioni che fornisce, in quanto storico viene messo definitivamente in discussione; di lui C. dice che «scrive l’istoria di corsa» (1° vol., p. 287), cioè affrettatamente e trascuratamente, e che, anche per questa ragione, in molti punti non è affidabile; per es., C. contesta la veridicità della Vita di Castruccio Castracani: «Il Machiavelli scrisse la vita di Castruccio senza istorica verità, ma perché fosse come esemplare a quella idea che egli vagheggiava; e se uno eleggerne pur voleva, meglio Castruccio che il Valentino» (1° vol., p. 184 nota 1).
Ma la sferzata più feroce arriva nella terza parte della Storia (pp. 183 e segg.), con un nuovo ritratto del Segretario che, in buona sostanza, ricalca quello dello Studio su accennato. Riprendendo altri giudizi negativi, come quelli di Giovambattista Busini, di Bartolomeo Cerretani e di Benedetto Varchi, C. insiste di nuovo su uno dei concetti espressi nello Studio: usando le parole di Varchi, riconosce a M. «intelligenza […] de’ governi degli Stati» e «pratica delle cose del mondo», ma non «gravità della vita» e «sincerità de’ costumi» (3° vol., p. 183). M. è qui ancora una volta dipinto come ‘lacchè’ opportunista, ora anche nei suoi rapporti con Piero Soderini:
Piero Soderini lo adoprò molto dentro e fuori [s’intende: dentro lo e fuori dallo Stato fiorentino], avendo in lui fede sino all’ultimo; il che non tolse a questi di mettere subito dopo in canzone il suo patrono che si era lasciato cavare di seggio con la innocenza d’un bambino. Mai non si trova che il Machiavelli tradisse chi egli serviva, ma dei caduti più non sapeva che farsi e gli obliava (3° vol., p. 184).
Pur essendo persona acuta ed esperta delle pratiche pubbliche, sulla sfera politica M. non ha lasciato – secondo quanto sostiene C. – analisi solide e inattaccabili, assolute, ma sempre sdrucciolevoli e relative, poiché, a voler ben guardare, non ebbe nella politica attiva se non ruoli marginali, di poca responsabilità, di scarso potere decisionale:
Da questo non essere egli mai stato a capo di molti in grandi faccende proviene, a mio credere, che nonostante quel mirabile suo acume, gli scritti di lui non siano pratici abbastanza, come di chi avesse fatto le cose da sé, le avesse fatte più che guardate, e nel contendere giornaliero avesse dovuto gli altri saggiare sotto ogni aspetto (3° vol., p. 187).
Inoltre, elemento di critica che C. aggiunge qui per la prima volta, M. è uno storico la cui preparazione risulta, a uno sguardo attento, troppo difettosa e limitata:
non ebbe il Machiavelli scienza bastante nemmeno dai libri; fu meno dotto di molti in Italia nell’età sua, di greco non sapeva, e tra i latini solo agli storici avea posto mente; né la scienza intera dell’uomo gli avevano data gli antichi scrittori (3° vol., p. 187).
C., in particolare, non comprende l’autentica genialità della lettera a Vettori del 13 dicembre 1513, e giunge addirittura a riprovare M. per aver mescolato, a San Casciano, gli alti studi serotini al proprio diurno ‘ingaglioffarsi’:
Tale era quell’uomo. A lui non si disdiceva esercitarsi tutte le ore della giornata nella conversazione degli uomini abietti, né molto mi pare gli costasse farsi triviale con essi. La sera poi, solo nel suo scrittoio alzava il pensiero fino a quei grandi antichi uomini che avevano fatto le grandi cose: da quell’insieme di vita uscirono i libri del Machiavelli. Vestiva egli panni reali e curiali quando gli accadeva di chiudersi nella solitudine del suo pensiero, ma nel comune abito del conversare a lui mancavano la gravità e il decoro che pure ci vogliono a condurre gli altri e farsi autorevole (3° vol., p. 186).
Arriviamo così all’epigrafe su M. che fa da consuntivo a questo lungo ritratto; la riproponiamo perché, più che di C., è figlia di un’intera classe intellettuale militante nel nostro 19° sec., quella alla quale Leopardi aveva controbattuto in maniera tagliente, alcuni decenni prima, nella Palinodia e nei Paralipomeni. Secondo tale epigrafe, M. fu
d’ingegno elegante e fecondissimo, di costumi sciolto; acuto mirabilmente nell’intendere, ma senza che i fatti corrispondessero al pensiero; vestendosi a un tratto la toga curiale, ma la vera sua grandezza chiudendo in sé stesso e ingallioffandosi poscia tra plebee sozzure ed infamie principesche; rinvolto nella muffa della viltà per isbizzarrire la fortuna e vedere se la se ne vergognasse; e dopo lungo esercizio in cose di Stato, ambizioso di servire a chi reggeva: ammirato e vilipeso, usato e negletto; posto a segnale di colpe perché maestro e perché infelice; e nei maneggi politici mescolato a’ Principi egli maggiore d’ognuno di loro, senza solennità di carattere e senza forza che lo munisse; sopportando superbie indebite, e con indebiti dispregi e odii vendicandosi (3° vol., pp. 190-91).
Il solo tratto che C. elogia in M. è l’italianismo ante litteram, l’aver compreso – cogliendo nel vero – che il guasto primario della civiltà italiana, ciò che le ha impedito per secoli di tradursi in una nazione come la Francia o la Spagna, era causato dall’intima e cronica disunione politica e dall’assenza di un esercito italiano (tema già affrontato nei Pensieri sparsi del 1820: cfr. Scritti inediti, cit., p. 238). Una disunione e un’assenza che M. denuncia nel Principe e nell’Arte della guerra, cogliendo senza fallo le due maggiori cause della «debolezza nostra» (Storia della Repubblica di Firenze, cit., 3° vol., p. 188). A questo riguardo, C. esprime in particolare il suo gradimento per il cap. xxvi del Principe, che ritiene il parto migliore di tutta l’opera machiavelliana: «Non ha egli [cioè M.], né credo la lingua italiana, pagina che agguagli quella Esortazione a liberare l’Italia dai barbari, la quale sta in fondo al libro del Principe» (3° vol., p. 187).
Questo M. ‘patriottico’, ‘nazionalista’, era il solo che C., a suo modo figura-chiave dell’appena concluso Risorgimento e rappresentante di punta dell’area liberale cattolica italiana, potesse salvare nel 1875, nella fase forse più delicata del processo unitario, quella non più militare, ma politica e gestionale. Il ritratto a tinte fosche di M., nella Storia è, prima di ogni altra cosa, il segno di una coerenza ideologica perseguita fino alla fine: per C., un cedimento anche tardivo sulla figura di M. avrebbe significato, parallelamente, un rinnegamento del suo ottimismo storico, ma soprattutto del cattolicesimo civile all’insegna del quale aveva mosso, fin da principio, i suoi passi di primo ministro granducale, di senatore del neonato Regno d’Italia, di grande intellettuale europeo.
Bibliografia: Storia della Repubblica di Firenze, 3 voll., Firenze 1875; Scritti editi e inediti, a cura di M. Tabarrini, 2 voll., Firenze 1877; Scritti inediti preceduti da una bibliografia ragionata degli scritti editi e inediti e delle lettere a stampa, a cura di G. Macchia, Firenze 1957 (in partic. pp. 259-68 prima ed. integrale dello Studio abbozzato intorno a Machiavelli, dopo quella parziale di Tabarrini del 1879).
Per gli studi critici si vedano: M. Tabarrini, Gino Capponi. I suoi tempi, i suoi studi, i suoi amici. Memorie, Firenze 1879; P. Treves, Capponi Gino, in Dizionario biografico degli Italiani, Istituto della Enciclopedia Italiana, 19° vol., Roma 1976, ad vocem. Per le vicende editoriali della Storia della Repubblica di Firenze: G. Barbèra, Memorie di un editore, Firenze 1954, pp. 418 e segg.
Molto importante è il Catalogo dei manoscritti posseduti da Gino Capponi, Firenze 1845, dove sono registrati i numerosi mss. machiavelliani di proprietà di Capponi.