GORI, Gino
Nacque a Roma, il 7 luglio 1876, da Vincenzo Guglielmo e Giovanna Santi. Terminato il liceo, si laureò dapprima in giurisprudenza, iscrivendosi poi a medicina, senza tuttavia nutrire particolare interesse neppure per questo indirizzo di studi. Egli si sentiva piuttosto attratto dalla letteratura, dalla filosofia e, in particolare, dal teatro, di cui prese a scrivere fin dai primi anni del nuovo secolo.
Collaboratore di vari giornali e riviste - tra cui il Don Chisciotte, il Capitan Fracassa, La Vita, La Patria, il Don Marzio, L'Ora, Il Tirso, di cui fu redattore capo nel 1912-13, Aprutium di Teramo, Noi e il mondo, mensile illustrato de La Tribuna di Roma -, si fece presto la fama di critico militante severo e intransigente. Amico di Trilussa e suo ammiratore, compose poesie e canovacci teatrali in romanesco.
Anticlericale e massone, allo scoppio della Grande Guerra fu interventista e irredentista. Nel primo dopoguerra e negli anni successivi prese a sostenere la cultura modernista e il teatro sperimentale, gestendo il cabaret dell'hôtel Majestic, di cui era proprietario. Viaggiò molto sia in Europa (Francia, Spagna, Germania, Russia) sia in America (Messico, California). Il 30 nov. 1929 sposò Giulia Massobrio, vedova di G. Volante. Dopo il matrimonio il G. lasciò Roma, interrompendo l'intensa attività letteraria cui si era dedicato, e si trasferì a Chianciano, dove comprò e gestì l'albergo Excelsior. Sempre a Chianciano fondò e diresse il periodico Il Giornale dell'albergatore.
Intellettuale e poligrafo - fu infatti poeta, romanziere, filosofo con particolare attenzione all'estetica, saggista, critico militante, studioso di teatro - il G., finché si dedicò ad attività culturali, si adoperò principalmente a sostenere e diffondere, nell'Italia del primo Novecento, un clima e un gusto più avanzati e moderni; i suoi maggiori e più significativi contributi, tutti concentrati nel corso degli anni Venti, riguardano le teorie e le pratiche poste a fondamento del processo di rinnovamento del teatro contemporaneo.
Dopo gli studi giuridici e di medicina, il G. aveva provveduto a darsi una solida e rigorosa preparazione letteraria e filosofica, coniugando l'educazione sui classici con un'informazione puntuale e aggiornata sugli orientamenti e sugli esiti più attuali della poesia, della critica, della narrativa, dell'editoria a livello nazionale ed europeo. Insofferente, come molti suoi coetanei, nei confronti dei contenuti e dei metodi del positivismo e degli indirizzi storico-filologici, fu convinto seguace dell'idealismo di B. Croce e della rinascita dell'interesse per la critica di F. De Sanctis; la sua attenzione si estese, da Croce e dai crociani, anche agli intellettuali che dialogavano con Croce dall'esterno dell'idealismo.
Di questa sua posizione egli rende conto in Il mantello di Arlecchino (Roma 1914 [ma 1913]), sostanziosa silloge ricca di indicazioni e di suggestioni critiche, in cui traccia il panorama della letteratura italiana della belle époque.
Se De Sanctis e Croce forniscono modelli e suggerimenti, tuttavia il lavoro critico del G. non è inteso come applicazione pedissequa della dottrina dei maestri: egli integra, rilegge, propone nuove osservazioni. A complemento di questo lavoro è poi allegato un esaustivo tracciato dell'attività editoriale in Italia.
Di umori nazionalisti e interventisti è intrisa la sua prima raccolta di versi in dialetto romanesco, Er libbro rosso de la guera (Roma 1915; che contiene anche il canovaccio teatrale in dialetto Le maschere de la guera, pp. 3-21) mentre, per Trieste italiana e contro il mondo tedesco, il G. pubblicò in Aprutium (IV [1915], f. 8), una canzone, Sorella nostra!, celebrativa della latinità assunta a valore contro la barbarie del "duro settentrione". Fu, comunque, la Grande Guerra a far maturare in lui un processo di piena conversione al moderno, inteso quale gusto, mimesi linguistica, diegesi e strumentazione di idee e di stili fondati sul nuovo.
Si avvicinò a F.T. Marinetti, di cui tra i primi aveva dato un profilo essenziale e pertinente (ne Il mantello di Arlecchino, pp. 193-211), e ne divenne amico, ma corresse anche il giudizio nei confronti dei futuristi, che nell'anteguerra egli aveva adeguato, sulla scorta di G. Papini, a "marinettiani" (ibid., pp. 213-223), tra i quali, invece, venne distinguendo posizioni diverse, sostenendo soprattutto alcuni di essi, come R. Vasari, L. Folgore ed E. Prampolini. Meditò attentamente sul teatro di L. Pirandello, si entusiasmò per il teatro del colore di A. Ricciardi, strinse amicizia con i Bragaglia, con V. Orazi, con M. Bontempelli.
Fu soprattutto l'ispirazione poetica a farsi nel G. più avvolgente e convinta: la parola, che nelle sue composizioni d'anteguerra si risolveva in veicolo di denunzia, di argomentazione e di persuasione, o di descrizioni realistiche (vedi Er libbro rosso de la guera), acquistò nuove sfumature, più allusive, e si dispose su tramature in cui si riscontrano riflessi di G. Pascoli, di G. Gozzano, di C. Govoni, di A. Palazzeschi, raggiungendo talora esito felice, come nelle tre liriche Alla stazione, Ogni giorno così e Limbo, apparse in Le foglie dell'orologio (Roma s.d.), poi riproposte con diverso titolo in Il grande amore (Firenze 1926).
In quest'ultima silloge, accanto alle tre citate, figurano nuove composizioni, ispirate al realismo magico di Bontempelli (Sembra una favola!, A teatro, Le tre vecchine, Orgoglio); e, di fatto, l'avvicinamento a Bontempelli, sia sul versante saggistico-estetologico sia su quello poetico, era iniziato da tempo: già la raccolta Il mulino della luna (Milano 1924; di cui si ricordano in particolare Come un cipresso notturno, L'oca azzurra, L'isola lontana, Pierrots, Si parte, Con la rete dei pensieri, È passato il re, L'automa nella pioggia, Annunciazione, Epilogo), posta cronologicamente fra le due summenzionate, poggiava sostanzialmente su una griglia di suggerimenti metafisico-surreali ascrivibili all'ambito ideale di Bontempelli e ai suoi immediati dintorni.
Non altrettanto positivo e più scontato l'esito raggiunto dal G. nel romanzo e nella novella (per lo più inediti) con l'eccezione di L'oca azzurra (Roma 1925) - che riprende titolo e immagini della lirica de Il mulino della luna, intrisa di un umorismo alla Folgore e di un magismo che rinvia nuovamente a Bontempelli - e di Coriandoli, una raccolta, appunto inedita, di novelle.
Ma gli interventi più interessanti del G. sono quelli legati al discorso critico sul teatro, riguardo al quale egli concordava con avanguardisti e sperimentali sull'ineludibilità del rinnovamento delle sue pratiche, delle sue strategie e dell'idea stessa su cui esso si costituisce. A tal fine, si impegnò innanzitutto concretamente, fondando e gestendo in proprio un laboratorio teatrale posto sotto il segno di un "antigrazioso" irritante e provocatorio; infatti, nel 1921, a Roma, con un anno di anticipo sul teatro degli Indipendenti di A.G. Bragaglia, egli aveva fondato e preso a dirigere quel cabaret, La Bottega del diavolo, sito all'interno dell'hôtel Élite et des étrangers, poi Majestic, di sua proprietà.
Dell'albergo erano frequentatori e gratuitamente ospiti numerosi futuristi, tra cui Marinetti, giornalisti e scrittori; negli scantinati, detti l'"inferno", arredati con mobili e manufatti realizzati da F. Depero, da Prampolini e da altri, e decorati con immagini di diavoli danzanti, armati di forconi e pronti a scaraventare nelle fiamme i dannati, si davano ogni sabato spettacoli futuristi e modernisti. Ai programmi, e alla loro realizzazione, presiedeva una commissione di esperti e primi attori, tra cui erano lo stesso G., nel ruolo di Minosse, Trilussa quale Lucifero, Folgore come Cerbero, e Bontempelli come Barbariccia (per una dettagliata testimonianza sul cabaret, che andò avanti fino al 1927, si veda Un covo di diavoli nella Roma di 40 anni fa, in Il Tempo, 19 apr. 1967). Dietro la facciata di questo underground ante litteram, il G. andava maturando la sua riflessione sul rapporto tra teatro e corporeità, dionisismo, vitalismo, e sulla necessità di accelerare il processo di rivitalizzazione e risignificazione del teatro stesso e delle attività collegate. A monte di tale riflessione specificamente orientata sul teatro, si collocavano i due volumi del saggio L'irrazionale (I, Filosofia ed estetica. Sistema di una nuova scienza del bello; II, L'eroe e la falce. Scorcio architettonico di letteratura europea dalle origini ai nostri giorni, Foligno 1924), che s'inseriscono, con ogni evidenza, nel quadro generale dell'avanguardia internazionale, impegnata a riconsiderare i fondamenti dell'arte e dell'estetica nella chiave del notturno, dell'inquietante, dell'anamorfico.
Viceversa il discorso specifico sul teatro s'innerva in tre opere successive: Il teatro contemporaneo e le sue correnti caratteristiche di pensiero e di vita nelle varie nazioni (Torino-Milano-Roma 1924), che si propone di indagare sui nuovi linguaggi del teatro nelle sue varie manifestazioni nazionali; Scenografia. La tradizione e la rivoluzione contemporanea (Roma 1926), in cui il G. esamina, tramite lo specifico della scenografia, le vie attraverso le quali si possa raggiungere e comunicare la realtà "che si trova di là dall'apparenza" (p. 210), e come si possa darne una rappresentazione, interrogandosi su intuizioni e tentativi di alcuni tra i nomi più significativi della storia del teatro moderno - a partire da R. Wagner e proseguendo con G. Craig, A. Appia, V. Mejerchol´d - ma soprattutto dando conto delle esperienze del "teatro della sorpresa" futurista - di Vasari in particolare (L'angoscia delle macchine, Milano 1925), ma anche di Prampolini, V. Marchi, Folgore, oltre che del "teatro del colore" di A. Ricciardi e del laboratorio di A.G. Bragaglia -, e studiando le esperienze futuriste del dinamismo plastico, della simultaneità e della sintesi. Seguì infine Il grottesco nell'arte e nella letteratura (ibid. 1927), in cui, riproponendo anche alcuni studi di prima della guerra (sul grottesco nell'Inferno di Dante, sulla maschera turca di Karagöz), il G. approfondisce soprattutto lo studio sul teatro futurista italiano nella chiave del grottesco e del fantastico (in particolare, E. Cavacchioli, L. Chiarelli, L. Antonelli).
Al termine dell'intensa stagione intellettuale degli anni Venti, convinto di essere stato sfruttato e trascurato dalla cultura ufficiale, il G. si appartò, allontanandosi da Roma, senza tuttavia smettere di studiare e di scrivere: lasciò quindi numerosi scritti inediti conservati presso gli eredi.
Nel secondo dopoguerra, il G. si stabilì in una località di mare, Sant'Ilario Ligure (Genova), dove morì il 24 dic. 1952.
Tra le opere del G., oltre a quelle citate nel testo, si ricordano: per la narrativa: Cagliostro (Milano 1925); per la saggistica: Le bruttezze della Divina Commedia (Alatri 1920); Le bellezze della Divina Commedia (Milano s.d. [ma 1921]); Studi di estetica dell'irrazionale (ibid. s.d. [ma 1921]).
Fonti e Bibl.: M. Verdone, Teatro del tempo futurista, Roma 1969, pp. 274-276 e passim; Id., Prosa e critica futurista, Milano 1973, pp. 314-317, 339; P.D. Giovanelli, G. G.: l'irrazionale e il teatro, Roma 1978; U. Piscopo, G. G., in Dizionario del futurismo, a cura di E. Godoli, Firenze 2001, sub voce.