GINORI
Famiglia toscana, attestata a Firenze dalla metà del XIII secolo, che, a partire dal 1737, grazie alla fondazione della manifattura di porcellana installata da Carlo (1702-1757: vedi la "voce" Ginori, Carlo in questo volume) nella villa suburbana di Doccia, varcò gli angusti, per quanto prestigiosi, confini regionali per raggiungere un'autentica fama europea. La fabbrica nacque nella convinzione che la nuova attività avrebbe rappresentato un grande successo della tecnica europea e insieme un'importante affermazione delle tradizioni locali toscane, proprio nel momento in cui, con la morte di Gian Gastone (1737), si estingueva la dinastia dei Medici, cui i Ginori erano stati legati per secoli.
Per la riuscita dell'impresa fu decisivo l'apporto delle maestranze viennesi: Karl Wendelin Anreiter, doratore e pittore attivo presso la manifattura Du Paquier, e Giorgio Delle Torri, specialista in fornaci, che, contattati da Carlo nel corso del suo soggiorno a Vienna nello stesso 1737, misero da subito l'esperienza acquisita in Austria al servizio della neonata manifattura toscana. Le basi della nuova attività erano gettate: con caolini veneti (provenienti dalla cava vicentina di Tretto), terre toscane (da Montecarlo, vicino a Lucca) e un caolino bianchissimo di importazione chiamato "terra di Vienna" si diede inizio alla produzione, tutelata fin dal 1741 dal privilegio granducale per l'esclusiva in Toscana rilasciato da Francesco di Lorena. Nel 1738 venne costruita una nuova fornace esclusivamente dedicata alla porcellana; mentre l'importante sezione della maiolica, già avviata, venne sviluppata nel corso degli anni come sussidio della produzione più nobile (Cefariello Grosso, pp. 58 s.).
I primi quadri della manifattura comprendevano, tra l'altro, lo scultore e accademico del disegno Gaspero Bruschi, assunto nel 1737 come capo dei modellatori, e Anreiter, coadiuvato dal figlio Anton. Il primo "ministro", ossia direttore della manifattura, fu G.B. Nobili (dal 1746 al 1747), cui fece seguito nel 1748 il pittore I. Fanciullacci (impiegato già dal 1737) che mantenne la carica fino alla morte (1793) tramandandola poi ai suoi discendenti (Ginori Lisci, 1963, p. 302). Al ritorno degli Anreiter a Vienna (1746) la sezione dei pittori comprendeva 12 persone. A capo della "pittoria" venne quindi collocato Giuseppe Romei, attivo in fabbrica da cinque anni, cui si deve il ritorno a un paesaggio di stampo italiano, in luogo del paesaggio di tipo nordico, oltre alla decorazione di alcune eleganti tabacchiere (tale produzione, avviata nel 1739, ebbe un grande sviluppo a Doccia e venne drasticamente ridimensionata dal 1757, con l'estinguersi della moda di fiutare tabacco; Cefariello Grosso, pp. 52-54).
Nonostante l'ovvia influenza viennese nel vasellame - soprattutto, zuppiere, piatti, tabacchiere - e nei bibelots, la produzione venne impostata su una rigorosa autonomia inventiva. La porcellana, considerata materiale nobile non inferiore al marmo o alla gloriosa ceramica robbiana, si poté giovare perciò di modelli legati alla cultura figurativa più insigne. Di questo variegato eclettismo, dove sono presenti anche forti tradizioni locali, può testimoniare, per esempio, la serie dei vassoi "orientali" databile alla prima metà degli anni Quaranta (uno dei 5 pezzi superstiti, su un totale di 20, è conservato nel Museo della porcellana di Doccia, a Sesto Fiorentino: Cefariello Grosso, p. 172) con raffigurazioni desunte da disegni del veronese Iacopo Ligozzi, miniati a tempera nella prima metà del Cinquecento e ora nel Gabinetto dei disegni e stampe degli Uffizi di Firenze. Per contro, il "bassorilievo istoriato", forse il più originale decoro di Doccia - scene policrome di soggetto classico e mitologico applicate sulle più svariate suppellettili d'uso -, venne ricavato dalle placchette in bronzo a bassorilievo di cultura manieristica del tardo XVI secolo. Ancora creazioni originali di questo primo periodo sono le "caccine" - piccoli gruppi di animali in lotta fra loro, che ornano spesso coperchi e apici, derivati dalle composizioni di J.-B. Oudry - e i "caramogi", che erano già largamente presenti nella produzione di Meissen e di Vienna: figurine grottesche di nani, tratte per la maggior parte dalla serie dei "gobbi" di J. Callot.
Un discorso a parte va fatto per quanto riguarda la plastica degli anni iniziali, la più bella per finezza di esecuzione e imponenza di dimensioni. Bruschi divenne ben presto il personaggio chiave di questo tipo di produzione; nel decennio 1740-50 egli acquistò terrecotte, forme e cere delle opere più significativa del tardo barocco toscano per riprodurle in porcellana. Possono citarsi, tra le altre, un Ratto di Proserpina e un Prometeo da G.B. Foggini; un Endimione dormiente (Sesto Fiorentino, Museo delle porcellane di Doccia) da A. Cornacchini; un Giove con l'aquila (Torino, Museo civico) versione in porcellana policroma dello splendido bronzo di G. Piamontini all'Ashmolean Museum di Oxford. Si conservano inoltre, presso il Museo di Doccia, le cere e i modelli di Massimiliano Soldani Benzi, il rappresentante più prestigioso di questa felice stagione dell'arte fiorentina, ceduti dagli eredi alla sua morte (1740). Al Museo del Palazzo di Venezia a Roma si trovano un Ganimede con l'aquila, dall'originale in bronzo che faceva coppia con una Leda e il cigno, e due placche in porcellana bianca raffiguranti la Primavera e l'Estate, versione dalle Quattro stagioni in bronzo a bassorilievo eseguite da Soldani Benzi tra il 1708 e il 1711 e offerte in dono dal principe ereditario Ferdinando de' Medici al cognato, l'elettore palatino Giovanni Guglielmo di Neuburg.
La riproduzione della statuaria classica è l'altro importante filone in cui si articolò l'attività plastica della manifattura, che anche in questo precorse i tempi, con notevole anticipo sul gusto neoclassico di fine secolo. Tra i modelli di Soldani Benzi e di Foggini, molti erano quelli riproducenti le più famose statue dell'antichità presenti a Firenze. Ne risultarono versioni in porcellana - alcune delle quali a grandezza naturale, segno dell'alto livello tecnico raggiunto dalla manifattura - sempre eseguite sotto la direzione di Bruschi; tra le altre, le traduzioni eseguite intorno al 1745, di due celebri opere collocate ab antiquo nella tribuna degli Uffizi (ora nel Museo di Doccia): l'Arrotino o Scita, e la cosiddetta Venere Medici, realizzata componendo insieme sei pezzi. Da Roma, attraverso probabili testimonianze grafiche, provengono invece i modelli dell'Amore e Psiche dei Musei Capitolini - una versione in porcellana bianca è conservata presso il Museo internazionale delle ceramiche di Faenza; un'altra, al Museo di Doccia - e del Laocoonte, tratto dal famoso gruppo ellenistico vaticano, forse con la mediazione di un bronzetto di Piamontini.
Congedo ideale di Carlo dalla fabbrica da lui fondata, la lambiccata macchina tardobarocca delle Glorie della Toscana (Cortona, Museo dell'Accademia Etrusca) costituisce nello stesso tempo un patetico omaggio alla estinta dinastia medicea, raffigurata negli ottanta e più medaglioni che circondano il padiglione centrale: Bruschi modellò una Bellezza rapita dal Tempo, da un originale di Foggini raffigurante Borea e Orizia; mentre il Mercurio collocato all'apice della composizione venne tratto dall'omonimo bronzetto del Giambologna. Il Tempietto di Cortona, fatto realizzare da Carlo stesso per donarlo all'Accademia Etrusca, della quale era lucumone, viene citato in una lettera del 1751, ma è datato, su un cartiglio, 1756.
Alla morte di Carlo, l'impresa passò ai figli avuti da Elisabetta Corsini, Lorenzo, Bartolomeo e Giuseppe.
Lorenzo (nato a Firenze il 2 ag. 1734), primogenito e maggiorenne, assunse nel 1757 la gestione dell'azienda. Egli ereditò il genio imprenditoriale e organizzativo del padre, doti che portarono l'azienda a condizioni di efficienza e di floridezza, e all'attivo in bilancio. Nel 1759 il governo lorenese concesse ai G. il rinnovo della privativa ventennale sulla fabbricazione e la vendita della porcellana nel Granducato. La concorrenza massiccia di Vincennes-Sèvres e quella delle altre nuove fabbriche, aveva costretto Lorenzo a una radicale ristrutturazione aziendale che venne approntata anche sulla base della Relazione dello stato della fabbrica delle porcellane di Doccia (Firenze, Archivio Ginori-Lisci), stilata nel 1760 dall'economista lorenese Joannon de Saint-Laurent, segretario del padre dal 1749. Si ingrandirono e rimodernarono gli immobili, vennero studiati nuovi tipi di fornaci per la cottura dei materiali, furono intrapresi viaggi di documentazione in Italia e in Europa, con riferimento particolare alle manifatture tedesche e a quella napoletana di Capodimonte. Nel 1760 Lorenzo visitò la manifattura imperiale di Vienna; l'anno seguente I. Fanciullacci si recò nel Vicentino per seguire l'estrazione delle terre dalle cave di Tretto; nel 1763 Giuseppe Bruschi, nipote di Gaspero, prese visione di alcune plastiche straniere della collezione dei Borboni a Parma. Anche il fratello Bartolomeo effettuò numerosi viaggi all'estero per prelevare campioni di terre e colori (Cefariello Grosso, p. 61). Conseguenza diretta di queste indagini fu l'adeguamento della produzione a parametri più commerciali: è il periodo d'oro delle suppellettili di arredo, dei servizi da tè e da caffè i quali, pur nella maggiore semplicità di esecuzione, mantengono inconfondibili doti di misura e di eleganza tipicamente toscane.
Novità importanti si verificarono nella composizione del prodotto porcellanico: all'impasto detto "masso nuovo", pesante e grigiastro per la presenza, tra l'altro, del caolino di Vienna, venne affiancato, negli anni Sessanta, il "masso bastardo", che aveva come base la terra di Montecarlo, di più facile ed economica reperibilità; in questo caso il corpo dell'oggetto veniva ricoperto da una bianchissima vernice opaca, spessa e ricca di stagno, simile a quella delle maioliche, che consentì risultati vicini a quelli delle porcellane d'Oltralpe (Biancalana, p. 24). In grande voga per tutta la prima metà dell'Ottocento, il "masso bastardo" venne utilizzato per i grandi complessi da tavola, dove il decoro vivacemente policromo riceve il massimo risalto dal candido fondo luminoso.
Tra i motivi più famosi di questo periodo sono quelli del galletto in rosso e oro, del tulipano, dei fiori e della frutta sparsi bordati di nastri verde e porpora, invenzione quest'ultima destinata a durare sino ai nostri giorni. Le basi a conchiglie e volute, le cartouches lumeggiate in porpora e oro sono nel più puro stile Luigi XVI; solo intorno al 1780 l'infoltirsi di figure e soggetti di gusto mitologico e arcadico denunciano una timida apertura al neoclassicismo. Tali aperture non vengono in ogni caso accolte dalla scultura: abbandonata la produzione a grandi dimensioni, il direttore Gaspero Bruschi, insieme con il nipote Giuseppe, si adeguò alla moda europea tardorococò, creando serie di figurine policrome, putti, gruppi pastorali che andarono ad affiancarsi ai già sperimentati personaggi della commedia dell'arte e a quelli delle stagioni e degli elementi. Tra i rari pezzi monumentali realizzati da Giuseppe Ettel, che subentrò a Bruschi alla sua morte (1780), spiccano l'imponente altare commissionato per le nozze tra Lorenzo e Maria Francesca Lisci (1783) - dipinto da G.B. Fanciullacci (dal 1772 capo della "pittoria", in sostituzione di G. Rigacci che aveva tenuto l'incarico dal 1757) - e il grande Crocifisso policromo, tratto da un modello di Foggini, eseguiti nel 1783 per la chiesa di S. Romolo a Colonnata, presso Doccia.
Nel 1779 Lorenzo divenne unico proprietario della manifattura, dopo anni di contrasti con i fratelli e coeredi che sfociarono nel tentativo da parte di Giuseppe di impiantare una sua fabbrica nella residenza di famiglia di San Donato, presso Firenze, con operai e artisti transfughi da Doccia. Il tentativo ebbe vita breve: nel 1781, infatti, macchinari e materiali, insieme con il personale di San Donato, furono ceduti da Giuseppe alla manifattura borbonica.
Una delle opere di maggiori dimensioni eseguite a Doccia durante la gestione di Lorenzo fu il centrotavola raffigurante il Trionfo della Toscana (Londra, Victoria and Albert Museum), modellato da Ettel intorno al 1790 (Cefariello Grosso, p. 63) prendendo a modello sculture di Pietro Tacca e Foggini.
Al di là del talento manageriale espresso nella conduzione dell'azienda, Lorenzo ebbe un profondo interesse per le scienze naturali, la chimica e la fisica. Nella villa della Mattonaia, acquistata nel 1761, egli poté soddisfare queste sue passioni. Con la guida di Ulderico Pruckner, già a capo del famoso giardino botanico di Eugenio di Savoia a Vienna, la Mattonaia venne trasformata in un vero e proprio "casino di delizie" in senso rinascimentale. Già socio della Società botanica fiorentina (1759), poi presidente della Società botanica e di istoria naturale di Cortona (1762), Lorenzo sperimentò nell'area della villa grandi coltivazioni di agrumi selezionati provenienti dalla Cina e dal Portogallo, di gelsomini arrivati dall'Oriente e di erba cedrina fatta venire da Napoli; mentre gli ananas e la vaniglia erano sistemati in serre con impianti di riscaldamento a vapore ideati dallo stesso Lorenzo. L'acqua per l'irrigazione era fornita dall'Arno e immessa nei giardini da una macchina speciale realizzata a Zurigo e opportunamente adattata. All'interno dell'edificio vi era una stanza "per trattamenti magnetici", un gabinetto "per uso di chimica", una "sedia semovente" che fungeva da primitivo ascensore. Sul tetto del casino, infine, un ambiente ottagono, interamente ricoperto di porcellana, era utilizzato come specola e dotato degli strumenti più moderni per l'osservazione degli astri.
Un certo gusto per la mondanità e le feste, nonché blandi interessi letterari à la mode - naturali appannaggi di un gentiluomo del XVIII secolo - spinsero Lorenzo all'utilizzo della residenza come teatro di ricevimenti; vi si svolsero anche riunioni dell'Arcadia, nella quale era stato accolto con il nome di Teodomante Mantineo.
Lorenzo morì a Firenze il 23 sett. 1791 lasciando la manifattura in condizioni di grande prosperità economica.
Doccia aveva più di 150 operai e poteva offrire una vastissima scelta di oggetti d'uso e di suppellettili di lusso assorbiti da un mercato - quello della nobiltà e della ricca borghesia - costantemente in espansione. Dell'azienda si occupò inizialmente la vedova di Lorenzo, Maria Francesca Lisci, tutrice del figlio Leopoldo Carlo (1788-1837: vedi la "voce" Ginori Lisci, Leopoldo Carlo in questo volume). La manifattura si trovò a vivere in un momento assai delicato per la Toscana, nel passaggio dalla dinastia lorenese all'amministrazione napoleonica (1807). La prima preoccupazione della nuova gestione fu quella di rendere più moderna e competitiva l'industria di famiglia.
Durante i frequenti soggiorni in Francia Leopoldo Carlo studiò le più recenti tecniche di lavorazione ceramica della manifattura di Sèvres; visitò le fabbriche tedesche, austriache, inglesi, ampliando le sue conoscenze nel campo scientifico come in quello artistico. Un primo, notevole risultato fu la costruzione, fatta realizzare da Leopoldo Carlo tra il 1816 e il 1818 della grande fornace, detta all'italiana, per la cottura simultanea di vari tipi d'impasto. Conseguenza a lungo termine fu ovviamente, una forte influenza della porcellana francese, sia per quanto riguarda la composizione delle paste - che per l'immissione del caolino fatto venire da Limoges risultano più bianche e trasparenti - sia per quanto riguarda la tipologia decorativa. Gli esemplari francesi prodotti durante l'Impero - vasi e anfore con manici a sfinge alata, con stelle, cigni, delfini e ippogrifi - vennero utilizzati a Doccia come modelli per una vastissima gamma di suppellettili e arredi permeati del nuovo gusto neoclassico, che raggiunse l'apice proprio durante la gestione di Leopoldo Carlo.
Tali motivi si alternano a spunti tratti dall'immenso repertorio ercolanense da cui derivano brocche e "zuppiere alla pompeiana" o "all'etrusca". Innovazioni nel campo del colore e della doratura costituiscono l'apporto di eccellenti artisti, quali Lorenzo Becheroni e Abraham Constantin. A quest'ultimo si deve anche la voga dei quadri famosi riprodotti su placche e vasi; mentre nel campo della decorazione spicca Ferdinando Ammannati, già attivo nella Real Fabbrica di Napoli, che si specializzò in vedute e paesaggi di Firenze, Roma e della città partenopea.
La riproduzione di statue classiche in bisquit e porcellana bianca, come i busti dei grandi personaggi contemporanei - Voltaire, Rousseau, Napoleone - sono pure caratteristiche di questi anni. Intorno al 1800 furono ripresi una serie di avori di Balthasar Permoser raffiguranti le Stagioni (1696-97), di cui queste piccole sculture in bisquit - scomparsi gli originali - rimangono le testimonianze più fedeli. Allo stesso periodo sono da ricondurre le repliche, sempre in bisquit, della cosiddetta Flora Farnese, nonché quella di un Bacco tratta da una statua scoperta probabilmente a Roma dal pittore e archeologo inglese Gavin Hamilton; entrambi i lavori sono conservati nel Museo delle porcellane in Palazzo Pitti, dove si trovano anche le repliche della Flora; un Marco Aurelio, il cui prototipo è ai Musei Capitolini di Roma; una Minerva; nonché l'Apollo del Belvedere, che, data la grande fama, figura tra le forme della manifattura in ben tre diverse dimensioni del 1816 circa.
Scomparsa quasi del tutto la scultura monumentale, sono da segnalare i cenotafi in porcellana di Carlo e Lorenzo Ginori, eseguiti negli ultimi anni del Settecento da Ettel, su commissione della madre di Leopoldo Carlo (inizialmente collocate nella cappella gentilizia annessa alla manifattura, queste opere vennero poi trasferite nella cappella della villa di Carmignanello, sempre presso Doccia).
In sintonia con la tradizione di famiglia, Leopoldo Carlo fu sempre molto attento all'assistenza morale e materiale dei suoi dipendenti. Questa illuminata gestione della forza lavoro contribuì senza dubbio all'eccellenza dei risultati conseguiti sul piano qualitativo dall'azienda, e alla diffusione a livello europeo dei prodotti di Doccia. Tra i molti illustri visitatori degli stabilimenti, Maria Luisa duchessa di Parma (1816), seguita tre anni dopo dall'intera famiglia di Francesco II d'Austria. Inoltre si segnalano i reali di Napoli, uniti ai Lorena da molteplici legami di parentela, e Carlo Alberto di Sardegna, genero del granduca Ferdinando III, che riportò a Torino - dove ancora figurano nel Museo civico d'arte antica - servizi e piccole sculture da tavola.
Leopoldo Carlo lasciò erede dell'impresa familiare il suo primogenito Lorenzo (1823-78: vedi la "voce" Ginori Lisci, Lorenzo in questo volume), l'unico figlio maschio avuto dalla moglie Marianna Garzoni Venturi, che si trovò a gestire la manifattura in un momento particolarmente delicato. I problemi posti da una produzione che sembrava aver perso ogni spinta innovativa e dai contrasti con i Fanciullacci, il cui strapotere comprometteva l'equilibrio della gestione, vennero affrontati da Lorenzo mediante una trasformazione radicale nell'organizzazione della fabbrica: una grande industria moderna sostituì gradatamente un'azienda con caratteristiche ancora artigianali.
Attraverso il rinnovamento delle attrezzature e delle tecniche si giunse a una produzione in serie su larga scala, che allontanò lo spettro incombente della recessione economica. A tale produzione, espressa soprattutto da arredi da tavola e da lavabo di uso corrente si affianca, a partire dagli anni Trenta dell'Ottocento, quella degli oggetti di lusso, destinati a committenti privati e alle grandi esposizioni industriali, nazionali e internazionali. Due fatti furono determinanti dal punto di vista stilistico per fissare la fisionomia di questa seconda nascita della fabbrica: il ritorno intorno al 1850 al bassorilievo istoriato - realizzato stavolta attraverso una porcellana molto bianca (fatta di caolini francesi molto fini) e l'impiego di una maggiore varietà di colori - e la programmatica imitazione delle terrecotte robbiane e della maiolica rinascimentale. In un momento di grave crisi dei valori estetici e morali, la patetica ricerca di una bellezza ideale nell'arte si rivolge al Rinascimento italiano come alla massima fonte di ispirazione.
È quindi ovvio l'interesse di Doccia per la maiolica del Cinquecento: i primi tentativi a opera del chimico Giusto Giusti e del pittore Francesco Giusti diedero il via a una raffinata produzione di vasellame e piatti alla maniera di Pesaro e di Urbino, con una fedeltà assoluta di forme, vernici e colori, difficilmente distinguibili dai modelli originali (i quattro tondi eseguiti a Doccia negli anni 1842-43 per completare la serie di quelli posti intorno al 1463 da Andrea Della Robbia sul portico dello spedale degli Innocenti a Firenze vennero scambiati per autografi dell'artista da A. Venturi).
Il gusto eclettico del momento si riflette in una variegata produzione che sperimenta le tecniche più varie: lavorazione della porcellana detta, per la sua sottigliezza, "a guscio d'uovo" (alcuni pezzi vennero presentati alla I Esposizione italiana che si tenne nel 1861 a Firenze), smalti d'oro a rilievo, vasi neorococò di mirabolante virtuosismo, vedute trasposte da fotografie e pitture miniate su lastre. Due grandiosi complessi testimoniano al meglio l'attività di Doccia nell'ultimo quarto dell'Ottocento. Si tratta del servizio per il chedivè d'Egitto (Sesto Fiorentino, Museo della porcellana di Doccia), per realizzare il quale le maestranze lavorarono per ben due anni, dal 1872 al 1874. L'ideazione si deve al capo degli scultori, Jafet Torelli; mentre eseguì le raffinate decorazioni, ispirate ai motivi dell'antico Egitto, il pittore Leopoldo Nincheri, coadiuvato da vari collaboratori, tra cui Lorenzo Becheroni iunior. L'opera presenta una linea dominante caratterizzata da "un'eccessiva eccentricità. Nonostante ciò si deve rilevare l'elevata qualità sia del tipo porcellanico utilizzato che degli smalti dalla vivace brillantezza" (Cefariello Grosso, p. 91). L'altro importante servizio è quello da dessert (Roma, Palazzo del Quirinale) realizzato per Umberto I e Margherita di Savoia nel 1884. Al cosiddetto Servizio di Umberto I (integrato e ampliato nel corso degli anni, fino al 1907: Ghidoli) lavorarono il decoratore Eugenio Riehl e il pittore Lorenzo Becheroni iunior, autore, quest'ultimo, anche di due vasi (Sesto Fiorentino, Museo della porcellana di Doccia) con le effigi della regina Margherita e del re Umberto I (Cefariello Grosso, p. 100).
Alla morte di Lorenzo fu il primogenito Carlo Benedetto (1851-1905: vedi la "voce" Ginori Lisci, Carlo Benedetto in questo volume) ad assumere le redini dell'impresa, sebbene il testamento paterno disponesse diversamente.
Sotto Carlo Benedetto la manifattura ebbe un incremento produttivo sostanziale, con relativo aumento della manodopera e dei macchinari. Protagonista dell'espansione fu il direttore Paolo Lorenzini; mentre Carlo Benedetto si occupò meno assiduamente dell'impresa familiare di quanto non avessero fatto i suoi avi, dimostrando scarse doti imprenditoriali. La realizzazione di porcellane artistiche divenne un aspetto secondario. La fabbrica fu indirizzata verso la produzione seriale, come anche di manufatti di uso industriale. Sul piano delle scelte stilistiche nel settore artistico si deve registrare un limitato interesse per la moda europea improntata al linearismo calligrafico della decorazione floreale cinese e giapponese, come documentano due album di vendita stampati dalla ditta di Doccia tra 1885 e 1895, oltre a qualche sporadico esemplare superstite (ibid., p. 98).
La morte di Lorenzini (1891), le flessioni nelle vendite e la richiesta dei fratelli di Carlo Benedetto di una gestione comune dell'azienda, come previsto dal testamento paterno, condussero nel 1896 alla decisione di vendere l'impresa alla Società ceramica Richard di Milano.
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