ASSERETO (Axeretto, Axereto, Axareto), Gioacchino
Nato a Genova nel 1600, a dodici anni entrò nella bottega del pittore Luciano Borzone, che lasciò più tardi per quella di Andrea Ansaldo. Dimostrò presto straordinarie qualità e già a sedici anni dipingeva una tela per l'oratorio genovese di S. Antonio in Sarzano. Poco dopo apriva una "stanza di pittura" in proprio e, rapidametite affermatosi, fu per trent'anni uno dei più quotati maestri della città. Ad eccezione di un viaggio a Roma nel 1639, di qualche aneddoto che illumina sul carattere schivo e bizzarro dell'uomo e della data di morte, la biografia dell'A. - quale il contemporaneo Soprani l'ha tramandata - non registra altre notizie che non siano costituite dalle sue opere. I caratteri delle pochissime superstiti tra quelle citate dallo storico e di quelle che, in base alle prime, gli furono riconosciute integrano gli scarsi dati biografici e consentono un'attendibile ricostruzione della vicenda dell'artista.
Cedendo il suo precoce esordio ancora entro il secondo decennio del secolo, dovette guardare non meno che ai suoi maestri, ed anche attraverso essi, allo Strozzi, ormai più incline all'acre manierismo dei Milanesi che a quello aggraziato e devoto baroccesco donde era partito. L'interesse per Cerano, Procaccini, Morazzone ebbe particolare accento nella formazione dell'A., compresa tra l'alunnato presso il Borzone reduce da un proficuo soggiorno milanese e le prime prove appunto negli anni in cui G. C. Procaccini operava ammiratissimo a Genova (circa 1618). D'altra parte, ancora con lo Strozzi, ma ben più lucidamente di lui, puntò quasi subito al recupero di una più ovvia visione, che era allora sollecitata, per un verso, da prodotti fiamminghi di casa a Genova e, per l'altro, da riflessi stimoli caravaggeschi portati da Roma dal Fiasella e, più, dal Vouet e dal Gentileschi, ma che da tempo era nell'aria della Controriforma. E i Genovesi dovevano sentirsi particolarmente inclini ad una visione aderente al vero, sia perché immuni da eminenti eredità classiche, sia perché in essa potevano riconoscere la continuità di una tradizione artistica rispondente al loro carattere concreto e schietto, da quando, tra Quattro e Cinquecento, avevano assistito al convegno di Lombardi e Fiamminghi, a quando il Cambiaso nel suo ultimo tempo aveva ritrovato nella dimessa verità delle cose ragioni di una nuova ed eterna poesia.
Opere situabili tra il '20 e il '25(La continenza di Scipione, coll.priv., Genova; Sacra Famiglia con s. Giovannino, coll.priv., Milano; Decollazione del Battista, già coll. Podio, Bologna; Deposizione, coll. Tadolini, Roma; Circoncisione, Milano, Brera) documentano l'orientamento dell'A. verso una pittura "naturale", nonostante il carico di accenti manieristici. Tra la pala della parrocchiale di Recco datata 1626, e gli affreschi biblici dell'Annunziata (da qualcuno anticipati senza ragione agli esordi del pittore) o l'assai prossimo quadro dei SS. Cosma e Damiano nella chiesa omonima (finora considerato opera tarda), cioè circa il '30 o subito dopo, l'A. precisava le proprie posizioni.
Estraneo agli interessi monumentali e suntuosi dell'Ansaldo, né indulgente agli esiti che la recente lezione del Van Dyck determinava, la sua divergenza dallo Strozzi s'era pronunciata prima che questi si trasferisse a Venezia (circa 1630): istintiva e non programmatica come per il Cappuccino, la sua sempre più convinta visione naturalistica va oltre la scelta dei tipi e dei soggetti, nella ricerca di una forma e di una resa pittorica più coerente al con~enuto; e parallelamente il suo colore si fa più sobrio e controllato, seppur dalla distillata tavolozza nascano toni e accostamenti rari, prezioso sedimento manieristico come il momento eccezionale e ricercatissimo nel quale è colta l'azione naturalissimamente pensata: onde apparve "spiritoso pittore" e "stravagante il suo stile nuovo agli occhi d'ogn'uno e impareggiabile" (Soprani).
Le opere tra il '30 e il '40 segnano la piena maturità dell'artista: soggetti desunti dal più consueto repertorio ma, avulsi da ogni substrato di letteraria cultura, rinnovati nei modi di un'umanità autentica, feriale e domestica, colta nell'immediato contatto consentito da inquadrature ravvicinate e, anche per il prorompere spontaneo del gesto, intimamente partecipe del dramma sorpreso al suo acme (Sansone e Dalila coll. Longhi, Firenze; Giobbe deriso, Budapest, Museo; Pietà, coll. Mowinckel, Genova; La tazza di Beniamino, Voltaggio, chiesa dei cappuccini; Agar, Genova, Palazzo Rosso; Agar, coll. D. Mahon, Londra; Vendita della primogenitura, Genova, Palazzo Bianco). Nel '39 la sua personalità era così definita da non risentire che menomamente della, breve esperienza romana, e comunque nella direzione di una sempre più schietta naturalezza: forse qualche maggior attenzione al Ribera e allo Honthorst o allo Stomer, le cui "notti" parrebbero avergli suggerito nuovo interesse per i noti testi del Cambiaso (Morte di Catone, Genova, Palazzo Bianco; Presepe, Quarto, coll. Nattini). Neppure quando, nel '44,dovette terminare la sala di Marsia nel palazzo Negrone lasciata interrotta dal Bottalla cedette a fantasie decorative, anzi il "peso" del suo innesto concreto e popolare agì come freno allo spirito barocco che là stava manifestandosi. Intanto - mentre allievi e imitatori approfittavano del suo successo contraffacendone la maniera talora così dappresso da trarre in inganno anche tutta la critica moderna (Miracolo della rupe, Prado, Madrid) - egli negli ultimi anni inclinava a comporre in termini più essenzialmente pittorici per morbidi tocchi di colore e lume sapientemente orchestrati nella penombra (Presepio e Madonna con s. Cristoforo, coll. Basevi, Genova; Cena in Emmaus, coll.Mowinckel, Genova; S. Agostino e s. Monica, coll. priv., Londra).
Attivo sempre nella sua città, ed anche per ciò meno noto di uno Strozzi o di un Castiglione, anzi per lungo tempo dimenticato, l'A. è da considerarsi tra i grandi artisti del Seicento. Ebbe gran peso sull'orientamento della pittura genovese specie tra il '30 e il '45,ancorando alla suggestione poetica dell'esperienza obbiettiva (in parallelo al Vassallo più esteriormente ligio a modi rubensiani e ad analisi fiammingheggianti) artisti portati a più liriche concezioni e ad una dignità vandyckiana come G. Andrea De Ferrari, a più astratta accademia come il Fiasella, a fasto d'apparati e di colore come Orazio De Ferrari. Su quest'ultimo influì particolarmente specie con l'atteggiamento neoveneto dell'ultimo tempo confluente in quello di più scoperta conseguenza vandyckiana di G. A. De Ferrari e del Castiglione.
Morì a Genova il 28 luglio 1649.
La scomparsa dell'A. coincise con il rilancio di formule nuovamente manieristiche da parte di Valerio Castello e certo facilitò l'affermarsi della corrente derivatane e più propriamente barocca, nel cui ambito il Piola e Gregorio De Ferrari diedero alla seconda metà del secolo tutt'altra fisionomia da quella ch'era stata propria della prima ed alla quale l'A. aveva peculiarmente contribuito.
Un figlio dell'A., Giuseppe, pur esso pittore, mori giovanissimo e non ebbe che il tempo di esordire nei modi patemi. Imprecisata è l'eventuale parentela di Gioacchino con un Antonio A., apprezzato orafo menzionato nel 1626, e un Orazio A., pittore d'ornati e, di prospettive, morto nel 1691, mentre lavorava in Palazzo Rosso.
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