Gioacchino da Fiore
Esegeta del testo biblico, Gioacchino dette forma ed espressione a una simbolica teologica e a un’ermeneutica storica complesse, con ampio ricorso a figure e diagrammi. Per quanto privo di tratti spiccatamente politico-civili, il suo profetismo apocalittico, destinato a permeare di sé la modernità, dà origine a una profonda riflessione sulla storia e sul futuro della Chiesa e della società. La meditazione dell’abate calabrese e dei suoi seguaci – per le implicazioni che da essa scaturiscono – si articola attraverso la ‘tradizione’ italiana, fino a divenire, a partire dall’ultimo decennio del 15° sec., un punto di riferimento significativo per molti pensatori.
Nato a Celico (1135 ca.), Gioacchino iniziò la formazione da notaio, ma dopo un viaggio in Terrasanta (1167) si ritirò a vita eremitica e penitenziale in Sicilia e in Calabria. Da laico si dette alla predicazione itinerante, prima di farsi monaco nel monastero di S. Maria di Corazzo, di cui risulta abate negli anni Settanta. Divenuta cistercense (1173?) per disposizione di Alessandro III, Corazzo fu affiliata alla Sambucina (come dimostrato da Guido Cariboni nella sua relazione sul Tractatus in expositionem vite et regule beati Benedicti alle giornate di studio organizzate dall’Istituto storico italiano per il Medio Evo e dal Centro internazionale di studi gioachimiti il 14-15 giugno 2011), ma entrò in contrasto con questa per motivi economici. L’abate cercò allora un’altra abbazia-madre; dopo il rifiuto opposto da Casamari, la trovò infine in Fossanova. Durante l’anno e mezzo trascorso da ospite a Casamari (1183-84), Gioacchino si dedicò alle tre opere maggiori: Concordia Novi ac Veteris Testamenti (1183/84-96), Expositio in Apocalypsim (1183/84-prima del 1200), Psalterium decem cordarum (1184-1201). Per la datazione degli scritti sussistono incertezze, anche perché alcuni risultano costituiti di sezioni prodotte in fasi differenti e riunite solo a distanza di tempo entro cornici unitarie. Fra questi il Liber figurarum, che riporta figure, diagrammi e relative didascalie isolati dalle opere per cui erano stati primariamente concepiti (Rainini 2006).
Nel 1186 fu a Verona, dove la curia papale era rinchiusa sotto la minaccia di Federico Barbarossa. In tale clima scrisse contro l’abate cistercense Goffredo di Auxerre una lettera-trattato (Intelligentia super calathis, 1186-87: Potestà 2004, pp. 191-218), in cui polemizza con i settori curiali più intransigenti e raccomanda alla Chiesa romana di arrendersi e sottomettersi al nemico imperiale. Goffredo reagì accusandolo di essere un giudeo convertito solo superficialmente e denunciandone gravi errori dottrinali, fra cui l’atteggiarsi a profeta senza disporre di alcun carisma profetico. Aveva cominciato con l’interpretazione a Veroli, dinanzi a papa Lucio III (1184), di un oscuro componimento profetico (De prophetia ignota). A Messina (1190-91) illustrò Apocalisse 12 dinanzi a Riccardo Cuor di Leone, a Napoli (1191) Ezechiele 26 per Enrico VI. Da parte sua affermava di considerarsi non un profeta, ma un teologo, uno studioso di Bibbia, storia e liturgia, la cui missione era avvistare i nemici degli imminenti tempi finali, dare l’allarme e risvegliare il popolo cristiano intorpidito: una sentinella apocalittica al servizio della Chiesa romana (Potestà 2008).
Pressantemente invitato da Clemente III (lettera dell’8 giugno 1188) a concludere le sue opere, abbandonò gli oneri di abate di Corazzo, ritirandosi prima a Petralata e fondando poi sulla Sila nel 1190, insieme a pochi compagni, un eremo concepito come il «fiore» (donde il nome di S. Giovanni in Fiore) di una nuova esperienza monastica. «Cistercense, ma ben poco sottomesso ai cistercensi» lo definì il cronista Ralph di Coggeshall dopo il severo richiamo a rientrare nei ranghi rivoltogli dal Capitolo generale dell’ordine del 1192, rimasto senza esito. Dal 1194 Enrico VI dotò Gioacchino, «abate di S. Giovanni de Flore», di terre, diritti e rendite; nel 1196 Celestino III approvò oralmente le nuove «istituzioni» monastiche. Dopo la sua morte (30 marzo 1202), il IV concilio Lateranense (1215) ne condannò il De unitate seu essentia Trinitatis, per le sue espressioni polemiche nei confronti del magister e vescovo parigino Pietro Lombardo e della sua teologia trinitaria (Robb 1997). La condanna non riguardò altri scritti di Gioacchino né danneggiò l’ordine florense. Questo non riuscì peraltro a controllarne e valorizzarne l’eredità dottrinale, di cui si appropriarono in primo luogo circoli di frati minori e di frati predicatori. A Gioacchino furono attribuiti numerosi testi profetici e apocalittici prodotti fra 13° e 14° sec. per finalità polemiche e di propaganda, il più celebre dei quali fu il commentario profetico Super Hieremiam. Il recupero critico è avvenuto dalla seconda metà del 19° sec., con la progressiva definizione del canone delle opere autentiche, l’individuazione dei manoscritti e le edizioni critiche, tuttora in corso.
La produzione dottrinale di Gioacchino ruota intorno alla questione della leggibilità della storia. Poiché questa è interamente racchiusa nel mistero divino, e Dio si è manifestato nella Scrittura, occorre da un lato scrutare la Bibbia per individuare tempi, ritmi e soggetti del suo corso divinamente stabilito; dall’altro considerare passato e presente per riconoscervi il puntuale inverarsi di quanto divinamente preannunciato.
Un primo abbozzo è attestato dagli appunti che iniziano con le parole Genealogia sanctorum antiquorum patrum, un breve testo composito, la cui sezione iniziale (1176) è la descrizione di un albero stilizzato in forma di diagramma: un fico su cui è innestata una vite. Il diagramma originale è andato perduto, ma il Liber figurarum ne presenta uno (fig. 1) che corrisponde concettualmente a quello descritto nella Genealogia. Partendo dalla radice, il fico presenta un tronco che sale spoglio lungo ventuno generazioni da Adamo a Giacobbe, alla cui altezza si dipartono dodici rami – le dodici tribù di Israele – che salgono lungo il tronco per ventuno generazioni. Nella quarantaduesima generazione da Adamo, al tempo del re Ozia, Isaia preannunciò la venuta del Cristo. Qui si innesta dunque la vite. Fico e vite crescono insieme, lungo le ventuno successive generazioni, fino a Gesù. Allora la vite butta dodici rami – le dodici Chiese delle origini –, uno solo dei quali (la Chiesa romana) raggiunge la cima dell’albero, quarantadue generazioni dopo Cristo. Poiché nel tempo della Chiesa ogni generazione dura trent’anni, nella Genealogia gli eventi finali (venuta dell’Anticristo, parusia, fine del mondo) sono dunque previsti per il 1260.
L’impianto è binario, in quanto pone le quarantadue generazioni carnali tra Adamo e Ozia in corrispondenza speculare con le quarantadue spirituali tra primo e secondo avvento di Gesù (mentre il segmento centrale – le ventuno in parte carnali e in parte spirituali – segna la transizione dalla prima alla seconda fase). Lo schizzo offre una rappresentazione elementare di ciò che Gioacchino intende per concordia, nozione precisamente definita nell’opera omonima (Liber de concordia Noui ac Veteris Testamenti, ed. E.R. Daniel, 1983, II, I, 2, pp. 62-64) come l’istituzione di rapporti fra termini commensurabili «quoad numerum», non «quoad dignitatem»: personaggi, popoli, avvenimenti sono posti in simmetrica corrispondenza nella prospettiva di un’aritmetica storica della salvezza, il cui ritmo è scandito dai parallelismi rinvenuti fra le rispettive serie di generazioni.
Per valutare profili e originalità della sua concezione della storia, occorre proiettarla sull’orizzonte delle visioni dominanti nell’Occidente medievale in ambito cristiano, in particolare di quella di Agostino, che con Gregorio Magno rappresenta per lui la fonte e l’interlocutore principale. Gioacchino mantiene la divisione agostiniana della storia del mondo in sette età, di cui le prime cinque vanno da Adamo a Gesù e la sesta (suddivisa a sua volta nelle sette età della Chiesa) dura fino al ritorno di Cristo giudice. La Genealogia accoglie pure la convinzione agostiniana per cui la settima età è la condizione di quiete riservata alle anime dei defunti, sul modello del settimo giorno della Creazione. Nella linea interpretativa aperta da Vittorino di Petovio, l’Apocalisse è considerata come «profezia generale», in quanto riguarda l’intero corso della storia, rivelata da Cristo a Giovanni. I suoi sette sigilli racchiudono le sette principali tribolazioni patite dalla discendenza di Israele, cui corrispondono le sette principali della Chiesa. Ciascuna tribolazione subita dalla Chiesa comporta l’apertura di un sigillo, cioè la manifestazione nella storia del significato della corrispettiva tribolazione cui è stata sottoposta la discendenza di Israele. Ciascuna età della Chiesa è contrassegnata da una tribolazione, salvo la sesta età, destinata a comprenderne due, in modo tale che la settima età, in quanto tempo di quiete, ne sia priva.
Avviata la Concordia Novi ac Veteris Testamenti come una sorta di storia universale secondo tale modello binario, Gioacchino ne anticipò le linee nel De prophetia ignota. Esponendo lo schema settenario della duplice serie di tribolazioni, il testo spiega che la quinta subita da Israele fu a opera dei Caldei, mentre la corrispondente subita dalla Chiesa è in corso a opera dei nuovi Caldei (l’impero romano-germanico); la sesta fu per gli uni a opera di Medi e Persiani levatisi contro Babilonia e contro i Giudei deportati in essa, mentre per gli altri sarà a opera di dieci re (cfr. Daniele 7, 24; Apocalisse 17, 12) che si leveranno contro la nuova Babilonia, cioè contro l’impero. La settima e ultima fu per gli uni quella di Antioco, sarà per gli altri quella dell’Anticristo. La periodizzazione riporta entro un vasto quadro storico-salvifico il conflitto fra impero e papato, circoscrivendone i confini. L’attacco subito dalla Chiesa romana fra 11° e 12° sec. viene dunque posto in corrispondenza con l’attacco subito dai Giudei a opera dei Caldei, culminato nella deportazione a Babilonia. E come i Medi abbatterono Babilonia, così una nuova potenza abbatterà la nuova Babilonia. Il profilo dell’Anticristo che, dopo la fine dell’impero, insorgerà contro la Chiesa romana terrorizzando il papa rimane oscuro e indeterminato.
L’impianto binario presenta un ordinato avvicendarsi di tribolazioni alternate a fasi di quiete, il cui svolgimento è sottoposto al dinamismo della grazia divina. Dio costantemente innalza chi sta in basso e umilia chi sta in alto. La grazia funge quindi da fattore di tendenziale sovvertimento dei destini dei singoli e dei popoli, al punto che il De prophetia ignota preconizza che nell’imminente sesta età della Chiesa gli ebrei, a lungo umiliati e confusi, saliranno in alto guariti dalla cecità, mentre i cristiani scenderanno per la superbia. Presupposto di tale affermazione è un’originale rilettura dei capitoli centrali della Lettera ai Romani. Il testo paolino è oggetto di specifica trattazione nei Dialogi de prescientia Dei et predestinatione electorum. Riferendosi all’elezione di Giacobbe in luogo del primogenito Esaù (Romani 9), Agostino aveva sostenuto che unico suo fondamento è l’imperscrutabilità della grazia divina, la cui scelta non tiene conto né della fede né di opere e meriti futuri. Gioacchino afferma che è invece possibile scorgere la causa dell’elezione divina: Dio predilesse Giacobbe in quanto era il minore dei due, come tale «abiectus» nella casa del padre. Non che lo stato di abiezione sia di per sé gradito a Dio; ma la condizione di minorità e debolezza è atta a generare l’umiltà, autentica radice dell’elezione divina.
La storia dei singoli e dei popoli viene dunque intesa come un processo vicissitudinario e spiraliforme. Dio ha permesso che il popolo ebraico, divenuto superbo, fosse asservito da altri popoli, affinché, umiliato, si disponesse a ricevere di nuovo la grazia; perciò potrà abbassare i cristiani, perché umiliati si pentano e si aprano a una nuova dispensazione della sua misericordia.
Nella Intelligentia super calathis Gioacchino applica tale schema alla condizione presente della Chiesa romana. La lettera-trattato è diretta polemicamente contro Goffredo di Auxerre e quanti vagheggiavano, da parte della curia papale assediata a Verona, controffensive militari e resistenze a oltranza nei confronti dei «nuovi Caldei». Il testo prende spunto dal passo di Geremia 24, in cui il profeta pone a confronto due canestri, uno di fichi buoni e uno di fichi cattivi, riferendo i buoni al re Ieconia, che aveva accettato la prima deportazione del suo popolo a Babilonia senza opporsi, i cattivi al re Sedecia, che aveva preteso di resistere ai Babilonesi, subendo infine con il popolo una deportazione ben più drammatica della precedente.
Nella prospettiva della concordia, Gioacchino distingue qui tre fasi nella storia di Israele e in quella della Chiesa, definite rispettivamente tempo di Israele, tempo degli Egizi e tempo dei Babilonesi. Nella prima, alle dodici generazioni da Giacobbe a Salomone corrispondono le prime dodici generazioni della Chiesa delle origini, da Gesù Cristo all’imperatore Giuliano («tempo di Israele spirituale»). Davide e Salomone elevarono Gerusalemme a regno; nella generazione corrispettiva, Costantino onorò e innalzò la Chiesa, e la Roma papale, nuova Gerusalemme, strinse amicizia con la sede imperiale di Bisanzio, nuovo Egitto. La seconda fase è il tempo degli Egizi. Alla rottura quasi immediata dell’intesa fra regno di Giuda ed Egitto fa riscontro per la Chiesa romana la rottura con l’imperatore Valente, favorevole al primato della Chiesa d’Oriente. La terza fase è il tempo dei Babilonesi. Inizialmente, all’epoca di Ezechia, i re babilonesi mostrarono favore nei confronti di Gerusalemme; allo stesso modo i re dei Franchi cominciarono trattando bene la Chiesa romana. Con il succedersi dei sovrani e il mutare delle dinastie, essa cadde però in una condizione simile a quella dei Giudei deportati a Babilonia: non perché abbia dovuto spostare la propria sede, ma perché alla fine la libertà della Chiesa è risultata quasi annullata.
Premesso tale quadro, Gioacchino ritorna al passo di Geremia e spiega perché Dio elogi la transmigratio di Ieconia e condanni quella di Sedecia, ricavando dal testo biblico un insegnamento applicabile alla dinamica dei rapporti fra Chiesa romana e impero e, in particolare, alla situazione della curia papale assediata a Verona e tentata dallo scontro frontale con il Barbarossa. Gioacchino avverte che la libertà perde valore se è accompagnata dalla superbia: «Un’umile servitù è migliore di una superba libertà, migliore […] di una tronfia, non di una prostrata dinanzi al potente» (Intelligentia super calathis ad abbatem Gafridum, in De Leo 1988, p. 139). Vi è dunque un’ambivalenza della libertà, cui fa riscontro un’ambivalenza della servitù. Ciascuna è resa buona dal rapporto con l’umiltà, cattiva da quello con la superbia. Quando la Chiesa cessa nel proprio corso di essere santa, Dio suscita contro di essa un avversario cui non è consentito pretendere di resistere senza soffrire. Non che ciò valga «absolute», ma è piuttosto «un male minore rispetto al resistere inopportunamente al Signore che combatte contro di essa» (Intelligentia super calathis, cit., p. 142). I termini absolute e absolutus ritornano più volte nel breve testo, a indicare la pretesa di assolutezza cui Gioacchino si oppone. È la consapevolezza dei peccati a dover orientare l’atteggiamento della Chiesa nei confronti dei nemici, nella cui azione occorre saper riconoscere e accettare il giudizio divino. Il conflitto in armi sarebbe per la Chiesa «absolute bonus» se essa non fosse obiettivamente legata e condizionata da vincoli e rapporti mondani. Ma poiché la storia e il presente mostrano che le cose stanno da tempo diversamente, deve «cedere piuttosto che resistere a Dio» (Intelligentia super calathis, cit., p. 143). La resa non sarà peraltro motivo di gioia, ma di pianto e di afflizione, sì che Dio si ricordi dei suoi e questi siano infine liberati. Invitando espressamente i cardinali a ripensare al passato e ricordando le sconfitte subite dai papi Leone IX (1053) e Innocenzo II (1139) nelle campagne militari contro i Normanni, Gioacchino critica la pretesa di difendere a ogni costo la gregoriana libertas ecclesiae. L’ordo ecclesiasticus, cioè chierici e monaci, invece di chiamare alle armi dovrebbe dare ascolto all’invito di Gesù a Pietro a riporre la spada nel fodero (Giovanni 18, 11): la verità va difesa non con la violenza, ma con la preghiera e con il digiuno.
Che si tratti della liberazione dal peccato dei singoli o della Chiesa, la transmigratio indica dunque il percorso storico attraverso cui occorre passare per ottenere la guarigione:
Viene dunque lodato chi trasmigra così, chi si lascia condurre in confusione per i peccati; non certo in assoluto, come fosse un giusto, ma come chi sceglie fra due possibilità quella per cui possa essere curato più facilmente e cui sia più prossima la misericordia di Dio, secondo quanto sta scritto:
“Due uomini salirono al tempio per pregare, uno fariseo e l’altro pubblicano […]”. Certo, se mi fosse data la scelta, non vorrei essere né come fu quel fariseo alla fine né come fu quel pubblicano all’inizio […]. Ma se mi capitasse di essere uno dei due, sceglierei piuttosto la parte dell’umile pubblicano che del superbo fariseo; della peccatrice ma umile piuttosto che di Simone che la condannava. Per parlare di cose più profonde, piuttosto la parte del popolo dei gentili, per un certo tempo senza fede, che quella del popolo ebraico insuperbitosi della sua fede; la parte di Adamo, che peccò per il piacere della carne appropriandosi di quello che gli era proibito, piuttosto che la parte del primo angelo, che si elevò superbo contro Dio, perché tutti questi furono curati, quelli rimasero non curati e non curabili (Intelligentia super calathis, cit., p. 144).
In tale prospettiva, ciascuna figura va dunque considerata non per la sua condizione iniziale, ma per quella finale cui giunge, passando dalla superba fiducia in sé e nelle proprie opere di giustizia all’umile accettazione della giustizia divina.
Mentre i Dialogi si volgevano da Giacobbe ed Esaù verso il destino escatologico di ebrei e gentili, qui viene posto al centro in termini polemici il nodo ecclesiologico-politico della libertà della Chiesa in rapporto alla potenza dell’impero. Ben diverse erano le posizioni dei vertici cistercensi, come attesta il De peregrinante civitate Dei (1187 ca.) di Enrico di Marcy cardinale di Albano, già abate di Clairvaux, che identifica Chiesa e Città di Dio, esalta le prerogative della Chiesa romana rispetto all’impero ed eleva gli apostoli al di sopra degli imperatori, i canones al di sopra delle leges, i papi al di sopra dei sovrani. A sua volta, in una pesante replica polemica contro Gioacchino, Goffredo di Auxerre offrì una lettura opposta dello stesso passo di Geremia, in chiave allegorica (e non tipologica) e in riferimento ai singoli (e non al destino della Chiesa), affermando che la transmigratio si compie «nell’amarezza della compunzione e nel rossore della confessione, fino all’ingresso nella Terra promessa della contemplazione» (Goffredo di Auxerre, Sermo, in Grundmann 1960; trad. it. a cura di G.L. Potestà, 1997, p. 198).
Risale ancora al periodo di Casamari (1183-84) un trattato di teologia trinitaria, successivamente integrato nello Psalterium decem cordarum come primo dei suoi tre libri. La tesi che questo sostanzialmente coincidesse con l’opera condannata dal concilio Lateranense del 1215 (Potestà 2004, Selge nell’ed. da lui curata, 2009, dello Psalterium) è stata convincentemente criticata da E. Honée (2010), secondo cui la condanna conciliare riguardò un’opera anteriore, andata successivamente perduta (o più verosimilmente distrutta a seguito della condanna). Ne resta traccia nelle figure di una tavola del Liber figurarum (conservata dal solo codice di Dresda, Sächsische Landesbibliothek, cod. A 121, c. 89r), miranti a mostrare la perfidia delle dottrine trinitarie di Ario, Sabellio e Pietro Lombardo. Per motivi non ancora chiariti, Gioacchino accantonò il De unitate (mai citato come tale in altri suoi scritti), sostituendolo con il nuovo trattato trinitario steso a Casamari.
Nell’ultimo scorcio del 12° sec. l’esegesi visiva e la teologia diagrammatica, in cui avevano primeggiato autori quali Ugo di Saint-Victor e Ildegarda di Bingen, risultava ormai in via di superamento, per l’affermarsi nelle scuole di un modello di ricerca teologica saldamente imperniato sulla rigorosa semantizzazione dei concetti logici. Pietro Lombardo, il principale maestro parigino della generazione precedente Gioacchino, era stato tra gli artefici del nuovo corso, e le sue Sententiae (la cui redazione finale risale agli anni 1155-57) erano presto divenute un passaggio fondamentale nello studio scolastico della teologia. In ambienti conservatori la modernizzazione dei concetti e la trasformazione della nozione stessa di teologia erano peraltro considerate un pericolo. Dagli anni Sessanta si erano levati attacchi contro le dottrine cristologiche del Lombardo, criticate dallo stesso Alessandro III (1170). Gioacchino pretese di spostare l’offensiva sul piano trinitario, accusando il Lombardo di distaccare la sostanza dalle persone divine e di giungere, lungo questa via, a considerare la Trinità come una «Quaternità»: un termine già utilizzato nella seconda metà del secolo da Bernardo di Clairvaux e dal suo segretario Goffredo di Auxerre contro Gilberto di Poitiers; da Gerhoch di Reichersberg contro Pietro Abelardo e Gilberto di Poitiers; da Gualtiero di Saint-Victor contro la teologia trinitaria dello stesso Lombardo.
Nel trattato composto a Casamari (= Psalterium, libro I) è posta al centro la figura del salterio a dieci corde, lo strumento musicale con cui Davide si accompagnava nella recita dei salmi: un triangolo, o meglio un trapezio con la base minore molto breve, considerato come rappresentazione visiva del mistero trinitario, in cui il Padre è inscritto nell’angolo in alto (indicante la direzione dell’Oriente), il Figlio e lo Spirito nei due angoli acuti alla base (Patschovsky 2003). All’interno del triangolo trapezoidale è inscritto un cerchio, corrispondente alla cassa armonica dello strumento musicale e indicante l’unità della vita divina. Gioacchino intende affermare che Trinità non equivale semplicemente a «persone», né Unità a «sostanza» (Psalterium, ed. K.V. Selge, 2009, I, I, pp. 31-33; trad. it. 2004, pp. 15-17). Ciascuno dei tre angoli del salterio rappresenta infatti il punto di incontro di due diverse linee, provenienti dagli altri due vertici. Nessuna delle tre persone può essere dunque intesa come singolare, e a sua volta il termine unità va inteso nel senso di communio plurium (Psalterium, cit., I, I, p. 34; trad. it. p. 17), espressione e sintesi di una pluralità originaria. Si propone così una visione simbolica e relazionale dell’unità divina, mirante a escludere una sua sostanzializzazione, che ne comporterebbe la riduzione a quarto elemento, distinto dalle tre persone. Le differenze fra le tre persone si limitano al loro reciproco rapportarsi, in termini di missione e di processione. Ciascuna può essere detta principio, ma solo il Padre è principale principium (Psalterium, cit., I, V, pp. 73-76; trad. it. pp. 38-40). Il Padre si rivelò agli uomini prima del Figlio e dello Spirito, affinché questi apparissero in modo più manifesto nei propri tempi. Così, per quanto nell’Antico Testamento Dio si presenti già come Trinità, soltanto dai profeti fu compreso come tale, rivelandosi pienamente «a noi invece come più vecchi […], non dal principio, ma in questa senile pienezza dei tempi» (Psalterium, cit., I, VI, pp. 88-89; trad. it. p. 47).
Intorno al 1186-87 Gioacchino sposta l’attenzione sulla Trinità in quanto principio di strutturazione della società e della storia. Nel nuovo trattato, composto a due anni dal precedente e successivamente unificato a esso nello Psalterium (libri II e III, cui fu successivamente anteposto il Prologo, di intonazione antiscolastica), la speculazione trinitaria procede attraverso un’interpretazione simbolica del numero dei Salmi (150). Il simbolismo numerico permette di spiegare i rapporti fra i tre ordines della società: monaci, chierici e coniugati. L’antico schema ternario di antropologia spirituale era da tempo controverso, si discuteva se fosse possibile gerarchizzare i tre ordines, e a quale spettasse il primato. Gioacchino esalta l’ordo dei monaci, ma vuole riconoscere anche agli altri due ordines funzioni e prerogative in vista della salvezza. Come avviene per la Trinità, in cui ciascuna persona si rapporta alla creazione in modo differente (per quanto tutte e tre operino sempre in perfetta unione), così ciascun ordo ha una prerogativa propria. Ai coniugati spetta l’attività manuale (propria del Padre), ai chierici la dottrina (propria del Figlio), ai monaci il giubilo della contemplazione (proprio dello Spirito Santo).
Gioacchino istituisce qui per la prima volta una relazione diretta fra Trinità e storia della salvezza, distinta in tre grandi epoche, dette nel II libro dello Psalterium tempi, altrove stati (status). Nel primo tempo al popolo ebraico si manifestò solo il Padre (ma già allora lo Spirito rivelò ad alcuni patriarchi e profeti il Figlio). Nel secondo il popolo cristiano conobbe e continua a conoscere il Figlio, e di conseguenza anche il Padre, ma non comprende lo Spirito che, non essendosi incarnato, non può essere compreso dagli uomini carnali. Il secondo tempo durerà sino alla conversione finale di Israele. Subentrerà quindi un terzo popolo, un populus spiritalis capace di conoscere lo Spirito insieme al Padre e al Figlio. Le formulazioni dello Psalterium non permettono di affermare con certezza a quali soggetti storici Gioacchino stia effettivamente pensando al tempo della prima definizione del modello storico ternario. Da un lato pare che voglia proseguire lungo la linea del De prophetia ignota e identificarlo con il popolo ebraico dopo la sua conversione finale: non si spiegherebbe altrimenti perché proprio tale conversione segni il passaggio dal secondo al terzo tempo. D’altra parte, il popolo del terzo tempo sarà dedito alla preghiera e alle lodi divine: la sua forma di vita avrà dunque una chiara impronta monastica. Negli anni successivi opterà decisamente per i monaci.
La riflessione trinitaria gli ha fornito una struttura teologica, di cui ha progressivamente scoperto le implicazioni dal punto di vista della storia della salvezza. Ne è derivato un percorso lungo cui prima ha connesso i tre ordines con le tre persone, poi ha collegato le tre persone e i rispettivi ordines ai tre tempi. Responsabilità e dignità proprie di ciascun ordo vengono fissate e consacrate in un equilibrio dinamico che si modella su quello della vita trinitaria, rivelata nelle Scritture e destinata a manifestarsi progressivamente nella storia. Spetta così ai laici la littera dell’Antico Testamento (la Scrittura del Padre); ai chierici la littera dell’Antico e del Nuovo Testamento (Scritture del Padre e del Figlio); ai monaci la comprensione spirituale, che procede da entrambe le littere (come lo Spirito procede dal Padre e dal Figlio). In quanto legati allo Spirito, i monaci sono per definizione «uomini spirituali», e quindi più vicini al divino; in quanto popolo del terzo tempo, si vedono attribuito il ruolo di protagonisti negli eventi finali della storia della salvezza.
Pur sforzandosi di riconoscere ai laici uno spazio loro proprio, Gioacchino mira a tutelare e celebrare la posizione dei monaci nella Chiesa e nella società. Tenendo presente che mentre scriveva queste pagine Francesco d’Assisi era già nato, si può ben condividere il giudizio secondo cui l’abate calabrese fu «sociologicamente un ritardatario» (Mottu 1977; trad. it. 1983, p. 20). Concepito in prospettiva ecclesiasticamente e socialmente conservatrice, lo schema ternario comportava peraltro un elemento strutturale di inaudita novità. Connettendo Trinità e storia, attribuiva specifico rilievo al tempo proprio dello Spirito. Per Gioacchino, il primo tempo fu sotto la legge, il secondo (fino alla conversione futura di Israele) è stato ed è sotto la grazia, il terzo (dalla conversione di Israele sino alla fine del mondo) sarà sotto una grazia più ampia. Il tradizionale modello binario di ispirazione paolina e agostiniana, imperniato sul passaggio dall’ombra della Legge mosaica alla luce della grazia evangelica, è superato dal nuovo schema, culminante nella proclamazione del tempo imminente di una grazia maggiore.
I confini degli ordines non coincidono, come potrebbe sembrare, con quelli dei tre tempora (o tre status). Infatti la dinamica trinitaria è in rapporto diretto con gli ordines, mentre i tre status rappresentano solo lo scenario tripartito entro cui si dispiega tale rapporto. Ciò comporta che mentre gli status hanno un inizio e una fine (in relazione al numero delle loro generazioni), gli ordines, che si manifestano e si rapportano fra loro così come si relazionano fra loro le tre persone, non cessano più di esistere sino alla fine del mondo: proprio come Padre e Figlio continuano ancora a essere e a operare nel tempo propriamente attribuito allo Spirito.
Nel II libro dello Psalterium e nell’Expositio in Apocalypsim Gioacchino ritiene di scorgere il centro dinamico del mistero trinitario e del suo dispiegarsi nella storia analizzando i due passi scritturistici riguardanti il nome di Dio, che nell’Apocalisse (1, 8; 21, 6; 22, 13) si definisce come «alfa e omega» e nell’Esodo (3, 14) proclama di chiamarsi IEVE.
Nello Psalterium l’alfa maiuscola, con la sua forma triangolare, richiama l’attenzione sul Padre che, dalla sommità di essa, manda il Figlio e lo Spirito, posti alla base delle due aste discendenti. L’omega minuscola richiama l’attenzione sullo Spirito Santo che, come una virgula derivante dalla tangenza fra due semicerchi, è mandato sia dal Padre sia dal Figlio. L’omega maiuscola, raffigurata come un cerchio, richiama l’attenzione sull’unità divina, racchiusa nel nome di IEVE (fig. 2: si considerino le lettere sulla parte destra). La convinzione che lo Spirito proceda non solo dal Padre, bensì dal Padre e dal Figlio insieme, rappresentava uno dei capisaldi della teologia trinitaria della Chiesa romana, nella sua antica polemica con la Chiesa di Costantinopoli. La novità di Gioacchino non sta dunque in tale affermazione, bensì nelle sue implicazioni sul piano del rapporto fra Trinità e storia. Tutto ruota intorno al termine missio e al duplice rapporto fra Trinità e storia simboleggiato dalle due lettere greche: l’alfa significa che il Padre, unico a non essere mandato, manda nella storia sia il Figlio sia lo Spirito; l’omega significa che lo Spirito è mandato dal Padre e dal Figlio.
Commentando nell’Expositio il versetto dell’Apocalisse: «Io sono l’alfa e l’omega», Gioacchino si richiama esplicitamente al tetragramma IEVE, che illustra richiamandosi sia alla spiegazione offertane da Pietro Alfonsi, ebreo convertito al cristianesimo agli inizi del 12° sec., sia a proprie conversazioni con un sapiente ebreo non meglio identificato. Translitterate le quattro lettere ebraiche nelle quattro latine corrispondenti, riferisce la I al Padre, la V al Figlio, la E allo Spirito e le dispone entro una figura composta da tre cerchi intersecantisi fra loro (fig. 3). Se si legge il termine IEVE come parola unica, significa l’Unità divina; se invece lo si articola in tre sillabe, queste rinviano al mistero della Trinità. La divisione sillabica può essere operata in due differenti modi, che esprimono le due definizioni fondamentali della Trinità. La prima è ottenuta considerando tutti e tre i cerchi rappresentati: IE-EV-VE. Nel primo cerchio da sinistra si trovano dunque inscritti il Padre (I) e lo Spirito (E), nel secondo lo Spirito (E) e il Figlio (V), nel terzo il Figlio (V) e lo Spirito (E). Il Padre è il principio assoluto, che manda sia il Figlio sia lo Spirito. I tre cerchi rinviano ai tre status. La lettera E viene a trovarsi in tutti e tre i cerchi. Quanto alla seconda definizione, è ottenuta prescindendo dal cerchio centrale e considerando solo i due laterali, in cui rispettivamente si legge IE e VE, perché l’unico Spirito divino è mandato sia dal Padre sia dal Figlio.
Non è un caso che le due diffinitiones di IEVE vengano formulate nell’Expositio a proposito della duplice autodefinizione di Dio come alfa e omega, né è un caso che là dove, nel II libro dello Psalterium, si tratta dell’alfa e dell’omega come cifre del mistero trinitario, compaia nei manoscritti anche il termine IEVE. La prima definizione (IE-EV-VE) equivale alla rappresentazione del mistero divino designata dalla alfa maiuscola, la seconda (IE-VE) a quella indicata dalla omega minuscola. La prima rinvia ai tre status: stando a essa, lo Spirito (e il suo ordo) si manifesta propriamente nel terzo status. La seconda definizione rinvia ai due popoli. Stando a essa, come lo Spirito è mandato sia dal Padre sia dal Figlio, così egli (e il suo ordo) si manifesta sia durante il tempo del primo popolo (ebraico) sia durante il tempo del secondo (cristiano).
Mentre la prima definizione rimanda al modello ternario dei tre status, la seconda parrebbe richiamare il modello binario dei primi scritti. A ben vedere, però, propone un modello diverso rispetto a Genealogia e De prophetia ignota. Il mantenimento di uno schema binario avviene attraverso una profonda trasformazione di forma e significato. La novità sta nella messa a fuoco della duplice missione dello Spirito, che dà ragione del duplice inizio dell’ordo monastico, non solo nella fase conclusiva della storia della Chiesa, ma anche nella fase finale dell’epoca veterotestamentaria: già allora lo Spirito ebbe un rilievo storico specifico, il profeta Elia fu modello e antesignano del suo ordo.
L’istituzione della concordia aveva rappresentato il punto d’avvio e il principio ordinatore di una concezione della storia elaborata a ridosso dell’Apocalisse in quanto profezia generale. Dal 1186-87 la speculazione sul progressivo dispiegarsi storico della Trinità impose di rimodellare la concordia stessa secondo due definizioni (diffinitiones), rispondenti rispettivamente ai modelli alfa e omega, ovvero secondo uno schema ternario e secondo uno schema ternario posto entro un involucro binario. La difficoltà dell’impresa nasceva dall’esigenza di allestire due modelli reciprocamente fungibili e correlabili (in quanto proiezioni distinte, sul piano storico, dell’unico mistero trinitario): occorreva un duplice computo delle generazioni, su cui erigere una duplice concordia, capace di determinare e scandire le due differenti modalità di presenza dell’ordo dello Spirito nella storia della salvezza. I libri II-IV della Concordia Novi ac Veteris Testamenti sono in buona parte occupati da tali computi, miranti a ordinare il corso delle generazioni in modo tale che il duplice inizio dell’ordo monastico trovi posto entro simmetrie concordistiche. A loro volta, le figure di albero risultano variamente rimodellate e complicate rispetto all’elementare diagramma bipartito descritto nella Genealogia (Rainini 2009).
L’ermeneutica biblica fu sottoposta a un’analoga torsione trinitaria, che dette luogo alla colossale impresa interpretativa realizzata negli anni Novanta nel V libro della Concordia (equivalente per lunghezza ai quattro precedenti), ampio commentario dei libri storici e profetici della Bibbia a partire dal Genesi. La storia narrata nell’Antico Testamento vi è considerata come proiezione del mistero trinitario e anticipazione della storia della Chiesa e dei suoi svolgimenti finali. Oltre il piano della comprensione letterale del testo biblico e quello della concordia, Gioacchino distingue due ulteriori piani interpretativi, allegorico e tipico, ai quali si riferiscono i molteplici livelli dell’intelligenza spirituale. Il più alto è costituito dall’intelligenza tipica, le cui sette specie si propongono di spiegare la Scrittura interpretandone le storie in tanti modi quante sono le relazioni intercorrenti fra le persone della Trinità.
La duplice ridefinizione della concordia e la pluralizzazione dei piani ermeneutici miravano a convalidare la concezione della storia, mostrandone la cifra intimamente trinitaria. Di fatto, rappresentarono un elemento di appesantimento della sua prosa, contrassegnata da computi minuziosi e da proposte esegetiche spesso forzate che, per dare ossessivamente conto fin nei dettagli della veridicità dell’impianto e della sua piena applicabilità, ne attenuarono la potenza.
Nel corso del tempo i computi delle generazioni e i protagonisti delle tribolazioni furono più volte ridefiniti, vuoi per ragioni imposte da esigenze di coerenza teorica del sistema, vuoi per dar conto di passaggi e situazioni storiche di cui Gioacchino intendeva di volta in volta enfatizzare l’attualità o la pericolosità. La pretesa di scientificità e la persuasività di una costruzione dottrinale tanto complicata e artificiosa dipendevano in effetti dalla sua capacità di dar ragione del presente e di preannunciare il futuro. Risultava di conseguenza vitale il continuo aggiornamento di schemi collaudati, per integrarvi situazioni e conflitti nuovi avvistati dalla sentinella escatologica.
Come abbiamo visto, un caposaldo della visione della storia di Gioacchino è la concezione settenaria delle tribolazioni. Ognuna di quelle subite dalla Chiesa è riferibile a un protagonista principale. Un sermone del 1186-87 contiene un primo elenco dei persecutori anticristiani, simboleggiati dalle sette teste del drago, «di cui cinque caddero, una c’è e una non è ancora venuta» (Apocalisse 17, 10). Gioacchino vi identifica le sette teste rispettivamente con: Erode; Nerone; l’imperatore ariano Costanzo II; Maometto; «Enrico primo imperatore degli Alamanni»; il sovrano destinato a capeggiare i «dieci re»; un futuro novello Aman, sul modello del primo che, narra il libro di Ester, progettò di annientare il popolo giudaico (Sermones, ed. V. De Fraja, 2004, p. 59; trad. it. 2007, p. 119).
Dopo l’occupazione di Gerusalemme da parte di Saladino (2 ottobre 1187) e l’indizione della terza crociata per riconquistarla, Gioacchino modificò la lista, come attesta l’interpretazione presentata a Messina nell’inverno 1190-91 a re Riccardo Cuor di Leone e al suo seguito, in attesa di imbarcarsi per l’Oriente. In tale occasione identificò i sette persecutori della Chiesa con: Erode; Nerone; Costanzo II; Maometto; Melsemuto (denominazione popolare riferibile a un capo degli Almohadi del 12° sec., conquistatori del Maghreb e protagonisti di fortunate campagne militari in Spagna e contro i Normanni di Sicilia); Saladino; l’Anticristo propriamente detto. La nuova interpretazione attesta il rilievo assunto dall’Islam dopo la caduta di Gerusalemme e nell’imminenza della crociata: il quarto, il quinto e il sesto dei sette grandi persecutori della Chiesa sono ora identificati con altrettante espressioni dell’islam. Benché la lezione messinese sia nota solo indirettamente, grazie al dettagliato racconto del cronista Ruggero di Howden, una precisa conferma di essa viene dalla tavola del Liber figurarum in cui è ritratto il drago, i nomi delle cui sette teste sono esattamente gli stessi (fig. 4).
Una versione ulteriormente aggiornata della lista è presentata nel Liber introductorius all’Expositio in Apocalypsim, scritto nella seconda metà degli anni Novanta. Ricompare qui in quinta posizione «uno dei re della nuova Babilonia», in termini generici (evidentemente Gioacchino vuole ora eliminare ogni contrasto, anche retrospettivo, con l’impero); e poiché nel frattempo Saladino è morto, il passo avverte che il sesto persecutore potrebbe essere stato non lui, ma un suo successore; quanto al settimo, sarà un eretico d’Occidente destinato a impadronirsi del papato (Liber introductorius, in Expositio in Apocalypsim, 1527, pp. 10r col. a-11r col. a).
Re Riccardo rimase sconcertato nell’udire che per Gioacchino l’Anticristo era già nato nella città di Roma e destinato ad ascendere al papato. Veniva così abbandonata l’antica e consolidata convinzione, accreditata in Occidente dallo Pseudo-Metodio, da Adsone di Montier-en-Der e dalla Sibilla tiburtina, che l’Anticristo sarebbe stato un ebreo della tribù di Dan, sarebbe nato dalle parti di Babilonia, avrebbe agito nelle città maledette da Gesù e completato la carriera nel tempio ricostruito di Gerusalemme. La dislocazione va intesa nel quadro di un più ampio ripensamento degli spazi escatologici, attestato dalla scelta pressoché contemporanea di chiamare Fiore l’eremo sulla Sila. Secondo l’etimologia fissata da Gerolamo, fiore è il significato del nome ebraico Nazaret, in riferimento alla maternità di Maria. In Gioacchino diviene la cifra del suo messianismo monastico: come il messia è venuto dal «fiore» della prima Nazaret, così l’ordo dello Spirito verrà dal «Fiore» della nuova Nazaret silana. Sia la Gerusalemme contro cui infurierà l’Anticristo, sia la Nazaret da cui fiorirà il nuovo ordo sono dunque riportate in Occidente.
Rappresentando l’Anticristo come un eretico, già nato a Roma e pronto a impadronirsi della Chiesa romana, l’abate potenziava il tradizionale orientamento di intransigente chiusura e di aspra lotta nei confronti degli eretici, in primo luogo catari, proprio dei cistercensi e del papato, ravvivandolo grazie a un lessico nuovo ed efficace, mirante a ottenere la massima mobilitazione. La portata propagandistica risulta intensificata grazie alla tonalità allarmistica e alla simbolica apocalittica. Di fatto – singolare eterogenesi dei fini – Gioacchino crea così le precondizioni perché entro la tradizione dottrinale gioachimita dei secoli successivi si possa infine polemicamente affermare che la sede romana è occupata dal papa-Anticristo.
Al di là degli aggiornamenti miranti a ravvivare l’attualità degli schemi polemici, nel corso del tempo le trasformazioni più profonde e significative di quadri e articolazioni dottrinali furono realizzate per dar conto della acquisita dimensione trinitaria della storia e soprattutto della nuova manifestazione dello Spirito prevista come imminente.
Seguendo le partizioni stabilite da Beda, per la sua Expositio in Apocalypsim Gioacchino inizialmente adottò la tradizionale suddivisione dell’Apocalisse in sette parti. La mantenne però solo fino alla metà della stesura: a partire dalla quarta parte, cominciò a riferirsi al testo come suddiviso in otto parti, ed è effettivamente questa la partizione cui infine si attenne. La modifica letteraria risponde a un’esigenza strutturale profonda, in quanto mira a dare rilievo autonomo alla sezione relativa al millennio terreno (Apocalisse 20, 1-10) riservando a questo un’intera parte, la settima, che risulta così ben distinta rispetto alla sezione successiva (Apocalisse 20, 11-22, 21), riguardante la descrizione della nuova Gerusalemme che scende dal cielo, isolata (novità assoluta) entro l’ottava e ultima parte.
Sul fondamento della dottrina giudaica, per cui la storia è suddivisa in sei giorni ciascuno della durata di mille anni, cui seguirà il settimo del Regno terreno di Dio, l’Apocalisse prospetta un millennio finale di pace, il tempo della «prima resurrezione», in cui Satana verrà incatenato e i santi ritorneranno sulla terra per regnarvi con Cristo. Al termine del regno millenario di Cristo, Satana sarà liberato per breve tempo, sedurrà i popoli empi di Gog e Magog, invaderà la terra e assedierà Gerusalemme, fino a che non scenderà un fuoco divino dal cielo e lo annienterà insieme ai suoi seguaci. Dottrina ampiamente diffusa in ambito cristiano nei primi secoli, il millenarismo di matrice giudaica e apocalittica era stato disinnescato da Agostino, che nel De civitate Dei (XX, 7-9) aveva affermato che l’incatenamento di Satana va inteso non come un evento storicamente imminente legato all’instaurazione terrena del Regno, bensì come la condizione di cui la Chiesa già gode a seguito della prima venuta di Cristo.
Guidato e sospinto dalla propria grandiosa visione teologica, Gioacchino fu il primo a infrangere il «tabù agostiniano» (Lerner 1985), attribuendo al millennio i tratti di «quel grande sabato futuro alla fine del mondo, che parve opportuno chiamare terzo status, ovvero settima età del mondo» (Expositio in Apocalypsim, cit., VII, p. 210r col. a). Comportando l’abbandono di un punto non secondario della dottrina escatologica fissata dall’autorità di Agostino e accolta nella teologia cristiana dell’Occidente altomedievale, tale acquisizione non fu per lui semplice né lineare.
Nell’Expositio Gioacchino assume infine una posizione articolata: l’opinio dei millenaristi fu falsa quanto all’attesa di un settimo millennio, fu vera invece quanto all’attesa di un’età sabatica, e in questo senso non fu opinio, ma «serenissimus intellectus» (p. 211r col. a). D’altra parte, anche la posizione di Agostino è in parte accolta e in parte rigettata. Poiché ognuna delle precedenti parti dell’Apocalisse (ovvero: ciascuna delle precedenti sei età della Chiesa) ebbe la propria porzione sabatica, ha ragione Agostino nell’affermare che il millennio apocalittico ha preso inizio dalla resurrezione di Gesù e percorre l’intera storia della Chiesa. Ciò vale però «secundum partem»; «secundum plenitudinem» l’epoca sabatica comincia dalla rovina della bestia apocalittica e dello pseudoprofeta e, come tale, si identifica pienamente con la settima età della Chiesa. Durante l’incarcerazione di Satana sarà lo Spirito a possedere la chiave dell’abisso, e il potere tolto al Diavolo sarà dato a Cristo e al popolo dei santi, in cui regnerà lo Spirito. La pace terrena di cui questi godranno nella settima età non va confusa con la pace eterna dell’ottava età, cioè della condizione ultraterrena.
Gioacchino ha così ridisegnato i tratti fondamentali dell’escatologia cristiana occidentale: negando all’Anticristo i tratti del falso messia proveniente dalla tribù di Dan e destinato a manifestarsi a Gerusalemme, lo trasforma in un eretico destinato ad aggredire la nuova Gerusalemme (la Roma papale) e a insediarsi al vertice della Chiesa romana. Abbandonando la tradizionale identificazione dei due santi chiamati a predicare contro la bestia e a subirne il martirio (Apocalisse 11) con Elia ed Enoch redivivi, li considera invece come figure di due soggetti collettivi, che propone di identificare con due ordini religiosi dei tempi finali chiamati a contrastare il trionfo dell’Anticristo con la contemplazione e la predicazione. Distinguendo nitidamente l’Anticristo per eccellenza – il «Figlio della perdizione» della Seconda lettera ai Tessalonicesi – da Gog (Apocalisse 20), trasforma questo nell’ultimo comandante dell’esercito dell’Anticristo, destinato a proseguirne l’opera distruttiva dopo il breve sabato del terzo status. Figure e movimenti profetici e apocalittici dei secoli successivi troveranno nella produzione di Gioacchino un formidabile arsenale di concetti e di figure variamente fungibili. Al centro sta l’assimilazione del millennio apocalittico al terzo status, ovvero alla settima età, intesa non più come condizione di quiete ultraterrena riservata alle anime, bensì come tempo futuro di pace e di felicità pienamente intramondano: un’acquisizione di rilievo sul piano esegetico, ma anche per l’idea che la conoscenza umana progredisca sempre più e che società e istituzioni ecclesiastiche e civili siano suscettibili di trasformazioni profonde in meglio.
L’ultima grande opera di Gioacchino furono i Tractatus super quatuor Evangelia, comprendenti tre trattati (sermones), composti parte al tempo di Celestino III (1191-98) e parte al tempo del successore Innocenzo III, inseriti entro la cornice di un commentario ai Vangeli rimasto incompiuto. Richiamandosi alla duplice missione dello Spirito, Gioacchino premette che ogni passo evangelico può essere interpretato in riferimento a due fasi distinte della storia della salvezza: o agli inizi del secondo status, cioè alle vicende della comunità di Gerusalemme (la «Chiesa della circoncisione») e dei primi cristiani; oppure al terzo status e alle vicende della Chiesa spirituale dei tempi ultimi. In questa seconda prospettiva il Vangelo di Gesù assume di fatto la cifra di protovangelo dello Spirito, come dimostra il trattamento dell’episodio del vecchio Simeone che, preso tra le braccia il piccolo Gesù, portato dai genitori nel tempio, implora Dio di mandarlo in pace, giacché i suoi occhi hanno ormai visto la salvezza (Luca 2, 25-30). Per Gioacchino, il piccolo Gesù è figura dello Spirito Santo e del suo ordo monastico, mentre Simeone è figura dei «presuli della Chiesa romana». Quando l’ordo dello Spirito si manifesterà nella Chiesa, esso succederà all’ordo dei vescovi, «allo stesso modo in cui Salomone succedette al re David e Giovanni evangelista a Pietro principe degli apostoli, o meglio come lo stesso Cristo succedette a Giovanni battista». L’istituzione del nesso Simeone-gerarchia romana chiarisce la duplice funzione cui questa è chiamata nei tempi finali: sostenere il nuovo ordo subito dopo la sua nascita e prepararsi serenamente alla propria dissoluzione.
Egli non potrà dolersi del proprio dissolvimento, poiché saprà di permanere in una successione migliore. Sappiamo infatti che è la proprietà della forma di vita religiosa e non la diversità della fede a far sì che un ordo sia designato nel predecessore e un altro nel successore. Quando infatti un certo ordo comincia ad essere consacrato, tanto a lungo conserva il medesimo nome quanto a lungo non cessa di esservi una successione nella stessa forma. Se invece escono da esso alcuni che, presa una forma migliore, sono trasformati in meglio, a quel punto non si dice che appartengono a quell’ordo, bensì a un altro che procede da quello. Ma forse, chi vede che gli succede un tale frutto, può dolersi per il fatto che cessa di essere in lui una perfezione particolare, ove a questa ne succeda una universale? Lungi, lungi da ciò, lungi dalla successione di Pietro di consumarsi dall’invidia per la perfezione dell’ordo spirituale (Tractatus super quatuor Evangelia, ed. F. Santi, 2002, I, 6, pp. 99-100; trad. it. 1999, pp. 71-72).
La piena manifestazione dello Spirito segna dunque la rottura delle forme ecclesiastiche vigenti. Alla gerarchia romana dovrà avvenire quanto avviene ogni volta che una nuova forma di vita religiosa subentra a un ordo ormai invecchiato e irrigidito. Tale esito risulta perfettamente compatibile con la concezione della storia come progresso spirituale e della Chiesa come suddivisa in ordines gerarchizzati dal punto di vista del progresso nella prossimità al divino. In questo senso si può in fondo dire che l’esito radicale si profila come possibile fin dal momento in cui Gioacchino ha adottato gli ordines a fondamento della sua concezione e li ha proiettati in una visione progressiva della storia, intesa come percorso di perfezione crescente. L’esito potenzialmente eversivo si annida nella premessa per cui la gerarchia ecclesiastica, come un ordo fra gli altri, è destinata a invecchiare, liberando nuove forme di vita religiosa destinate a subentrare a essa. Gioacchino prospetta la portata di tale sovvertimento evocando la festa degli Innocenti: ricorrenza liturgica in cui per un giorno si metteva in scena un capovolgimento di ruoli ecclesiastici e sociali, in quanto un fanciullo, scelto da coetanei, sedeva sulla cattedra del vescovo (Tractatus super quatuor Evangelia, cit., pp. 103-104; trad. it. p. 74).
Si palesa qui infine la tensione tra due elementi costitutivi della sua concezione della storia del mondo, nel suo avanzare verso il compimento e insieme verso il ringiovanimento. Il divergere fra le due istanze è ben attestato dal divaricarsi della tradizione manoscritta a proposito di un importante passo della Concordia Novi ac Veteris Testamenti (libro V, cap. 84): alcuni codici (fra cui Parigi, Bibliothèque nationale, lat. 16280, c. 220r nonché Parigi, Bibliothèque nationale, lat. 15254, c. 319r col. b) presentano i tre status rispettivamente come «il primo dei fanciulli, il secondo dei giovani, il terzo dei vecchi», mentre altri (fra i quali Dresda, Sächsische Landesbibliothek, cod. A 121, c. 44v) e l’edizione veneziana del 1519 (p. 112rb) li presentano come «il primo dei vecchi, il secondo dei giovani, il terzo dei fanciulli». L’oscillazione testuale rinvia alla dialettica in Gioacchino fra apocalittica e pneumatologia, fra messa in guardia per l’imminenza della fine e per l’incombere dei nemici dei tempi ultimi e preannuncio di una nuova Pentecoste dello Spirito.
Nel terzo Tractatus la Samaritana incontrata da Gesù al pozzo (Giovanni 4) è figura della Chiesa greca, chiamata infine a riconoscere in Cristo l’appello dello Spirito all’unità delle Chiese. Il ritorno dei Greci viene inteso e previsto entro il più ampio processo di circolarità ascendente, nell’ambito del quale lo Spirito riporta la verità ai popoli e agli spazi da cui essa ha preso le mosse: come l’annuncio passò originariamente dagli ebrei ai giudeocristiani, ai greci e infine ai latini, così nei tempi ultimi la grazia divina, dopo essere passata dall’Oriente all’Italia e di qui alla Gallia con la prima diffusione del monachesimo, ritornerà infine là dove il suo movimento ha preso avvio, e ciò che era disperso e diviso tornerà infine a riconoscersi e a unirsi.
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