ROSSINI, Gioacchino
Compositore, nato a Pesaro il 29 febbraio 1792, morto a Passy (Parigi) il 13 novembre 1868.
La vita e le opere. - Il padre del R., Giuseppe, nativo di Lugo in Romagna e trombetta comunale della città di Pesaro, discendeva da famiglia antica, originaria di Cotignola: per la sua indole bonaria ed espansiva era soprannominato Vivazza. Aveva sposato Anna Guidarini, figlia d'un fornaio, assai bella e dotata d'una buona voce di soprano, soltanto cinque mesi prima della nascita del loro unico figlio, Gioacchino, che durante tutta la vita conservò per la madre la maggiore devozione.
Quando i primi rumori della rivoluzione francese cominciarono a penetrare negli stati pontifici, Giuseppe R. li accolse con entusiasmo; licenziato durante la restaurazione (1797), fu dei pochi patrioti pesaresi che, introdottisi nascostamente nella città la notte dal 21 al 22 dicembre 1797, s'impadronirono dell'amministrazione comunale e proclamarono l'immediata annessione alla Repubblica Cisalpina. Rientrò così in possesso della sua carica; ma, forse prevedendo i prossimi mutamenti politici, forse per ambizione e desiderio di nuove occupazioni, egli cominciò a suonare in orchestre di teatri d'opera dove la moglie cantava, spesso come prima donna. Cominciò per loro la vita randagia e affascinante del teatro: furono a Iesi, a Bologna, a Ferrara, mentre il piccolo Gioacchino restava a Pesaro presso la nonna e la zia. Ma a Bologna, nel 1799, Giuseppe R. fu acciuffato dalla polizia pontificia e processato a Pesaro (26 settembre 1799). Tuttavia, ancora una volta, l'instabilità degli eventi politici mutò la sua sorte: rientrati i Francesi a Pesaro (20 luglio 1800), egli fu liberato e, abbandonati per sempre gl'impieghi municipali, si dedicò completamente al teatro prendendo stanza a Bologna.
Non è da escludere che l'agitazione di quelle vicende familiari, il ricordo delle sofferenze materne, abbiano contribuito a creare nel piccolo Gioacchino quella mentalità eminentemente conservatrice, che fu nell'uomo una caratteristica fondamentale. Certo è che, abbandonato a sé stesso, il bimbo crebbe piuttosto discolo e svogliato, tanto che a Pesaro e poi a Lugo, dove la famiglia si era trasferita nel 1802, fu affidato come garzone a un fabbro ferraio. Negli anni immediatamente precedenti, a Bologna, Gioacchino era stato iniziato con scarso profitto agli studî, e un tale Prinetti, di Novara, gli aveva dato senza frutto pessime lezioni di spinetta. Soltanto a Lugo il ragazzo cominciò a prendere coscienza di sé stesso e, specialmente per amore della mamma, dei proprî doveri. Qui trovò pure per la prima volta un maestro, nel più ampio senso della parola, in don Giuseppe Malerbi, il quale, cattivandosene la simpatia con la giocondità del proprio carattere, lo appassionò allo studio del clavicembalo e coltivò la sua bella voce. Si manifestò finalmente la vocazione musicale di Gioacchino, tanto che, stabilitasi definitivamente la famiglia a Bologna verso la fine del 1804, egli fu affidato alle cure di Angelo Tesei, valente insegnante della scuola di Stanislao Mattei, il quale ultimo pontificava nella vita musicale bolognese, continuando la dotta tradizione del proprio illustre mastro, il Martini. Gioacchino divenne abile suonatore di viola e soprattutto ottimo accompagnatore al cembalo e lettore di bassi numerati: presto fu in grado di compiere questa funzione nelle orchestre delle stagioni d'opera dove lavoravano padre e madre, e così, guadagnandosi qualche soldo, nelle cittadine romagnole, prese diretto contatto con l'ambiente del palcoscenico e con l'opera del suo tempo. Si formò fino d'allora quella sua tipica personalità di "figlio d'arte", rotto a tutte le astuzie del mestiere, esperto dei segreti della scena, conoscitore infallibile di pubblico e cantanti, saggiamente accomodante nel conciliare i diritti dell'ispirazione con le possibilità che di volta in volta gli venivano offerte: cantanti, orchestra, libretto, teatro, pubblico. Qualità, queste, fondamentali nella comprensione e valutazione della sua arte, che non solo è largamente condizionata dalla tradizione del teatro d'opera, ma spesso se ne pasce come d'elemento essenziale. Anche ammirando la nobiltà sdegnosa di Beethoven e la caparbia ostinazione di Riccardo Wagner, bisogna saper comprendere e apprezzare questa latina capacità di adattamento, questo istinto innato della tradizione, questa realistica accettazione della vita e dei suoi dati di fatto, che costituisce il clima stesso dell'arte rossiniana.
La fama del giovane R., come cantante, era tanto cresciuta, che il padre lo affidò alle cure d'un tenore, nella convinzione che quella fosse la sua carriera. Fortunatamente venne anche iscritto, nel 1806, al Liceo musicale di Bologna, di recente istituzione, dove condusse a termine lo studio del violoncello e del pianoforte, e per oltre 3 anni (1807-1810) ricevette lezioni di contrappunto dallo stesso Mattei, la cui dotta disciplina (il R. stesso dichiarò che in questo periodo pose in partitura, per esercizio, molti quartetti di F. J. Haydn e di W. Mozart) valse a consolidare la sua già vasta, ma disordinata pratica teatrale. In questi anni egli venne componendo, oltre esercitazioni per orchestra e per corno, alcune arie, di cui una, Se il vuol la molinara, prima sua composizione pubblicata, mostra, nella insignificante semplicità, un certo carattere comico e un piglio evidentemente mozartiano. Musicò poi la cantata per l'accademia di chiusura dell'anno scolastico, Il pianto di Armonia sulla morte d'Orfeo (11 agosto 1808). È lavoro scolastico, alquanto uggioso e accademico, che cede di molto alla freschezza e alla spontaneità con cui, negli stessi anni, il R. era venuto componendo, per conto suo, le arie d'un libretto, Demetrio e Polibio, raffazzonatogli da Vincenzina Viganò Mombelli, moglie di un tenore e madre di due cantanti assai graziose, che, conosciuta la prodigiosa disposizione musicale del R., lo presero a benvolere e gli affidarono l'incarico di scrivere un'opera per loro. Per varie circostanze esse non rappresentarono il Demetrio e Polibio che il 18 maggio 1812, al teatro Valle di Roma, con grande successo; ma questa resta nondimeno la prima opera composta dal R. Ripresa negli anni seguenti a Milano (teatro Carcano) e a Como, fu sentita dal Berchet e dallo Stendhal, i quali ne lasciarono giudizî entusiastici.
Intanto, lasciata la scuola senza avere del tutto compiuto lo studio della composizione (1810), stretto dalla necessità e sorretto dalle relazioni paterne nel mondo teatrale, il R. aveva già potuto far rappresentare altre opere, imparando ben presto la dura bisogna di comporre col tempo misurato, per comando degl'impresarî, accettando supinamente i più volgari libretti. Il 3 novembre 1810, al teatro S. Moisè di Venezia, la compagnia dei coniugi Morandi, amici dei genitori del R., e ottimi artisti di canto, rappresentò con buon successo La cambiale di matrimonio, farsa fornita da G. Rossi, librettista del teatro S. Moisè. Ritornato da Venezia a Bologna, il R. scrisse una cantata, La morte di Didone (1811), per la sua amica e protettrice Ester Mombelli, che la eseguì solo nel 1818 a Venezia, con esito sfavorevole. Nell'autunno 1811 al teatro del Corso, a Bologna, fece rappresentare una nuova opera, L'equivoco stravagante: l'esito fu buono, ma il libretto, di G. Gasparri, era talmente brutto che l'opera non fu mai ripresa e più tardi il R. pensò bene di utilizzarne il terzetto del primo atto e il moderato del quintetto nella Pietra del paragone. Sistema, questo, cui egli indulgerà spesso, e che darà esca a molte vane argomentazioni sull'inespressività della sua musica; in realtà, il procedimento, evidentemente riprovevole in linea di massima, era ampiamente giustificato dalle condizioni in cui tanto spesso il musicista si vedeva costretto a fornire l'opera sua; e si rivela poi sempre seguito o in casi che esulano dai veri e proprî valori dell'arte, o sotto certe condizioni d'analogia scenica altamente significative.
Ancora in quell'anno, dopo avere rischiato un processo per l'energia con cui aveva redarguito gl'indolenti coristi del teatro del Corso, il R. è di nuovo a Venezia, dove ha schietto successo la sua farsa L'inganno felice, su libretto di G. Foppa (teatro S. Moisè, 12 gennaio 1812). A Venezia compose la musica per l'opera seria Ciro in Babilonia, del conte ferrarese F. Aventi, impropriamente chiamata oratorio, e rappresentata con scarso successo al Comunale di Ferrara nello stesso anno 1812; la sinfonia è quella dell'Inganno felice, e la musica è generalmente retorica e senza interesse. Ancora al S. Moisè di Venezia, il 9 maggio 1812, fu rappresentata con esito contrastato La scala di seta, farsa su libretto del Foppa: raffazzonata in fretta, durante le prove del Ciro, ha poco valore, ma se ne deve ricordare l'agile e brillante sinfonia. Nove giorni dopo, al Valle di Roma, si rappresenta il Demetrio e Polibio, di cui s'è già detto, e il 26 settembre 1812, appena ventenne, il R. fa il suo agognato ingresso alla Scala, con La pietra del paragone, melodramma giocoso in due atti, dovuto all'esperto librettista di quel teatro, L. Romanelli. Il pubblico milanese fu conquistato dal brio, dalla schietta giocondità di quest'opera che presentava doti inconsuete nel melodramma italiano, rimasto alla semplicità tenera e affettuosa di D. Cimarosa e G. Paisiello: l'opera si replicò per oltre 50 sere, e la folla vi accorreva dalla provincia e dalle città vicine. La fama acquistatasi dal R. con quest'opera fu tanto grande, che gli valse l'esenzione dal servizio militare. E piovvero gl'incarichi degli impresarî, tanto che il 24 novembre 1812 al S. Moisè già andava in scena L'occasione fa il ladro, su libretto di L. Prividali, scritta, si dice, in 11 giorni: l'esito non fu molto favorevole; ma, ripresa anche recentemente (Torino 1913 e Pesaro 1916), la farsa parve vivace e graziosa: già vi si nota il caratteristico procedimento, che s'eternerà nel Barbiere, di affidare alla voce una specie di parlato, mentre l'orchestra ricama una lieta melodia; i due momenti espressivi predominanti in queste opere giovanili, la malinconica e affettuosa dolcezza e la frizzante giocondità, vi si avvicendano continuamente. Seguì, anche al S. Moisè, nel carnevale 1813, un'altra breve farsa che ancora si rappresenta con successo: Il signor Bruschino o Il figlio per azzardo, su libretto di G. Foppa, che ebbe esito probabilmente infelice.
In poco più di due anni, dai 19 ai 21 d'età, il R. fece rappresentare nove opere, aprendosi l'accesso ai massimi teatri lirici d'Italia. Artisticamente, tuttavia, aveva seguito assai da vicino sia le consuetudini teatrali del tempo, sia il modello stilistico del Cimarosa e del Paisiello, e anche di altri minori, come di P. Generali e di F. Paër, dai quali si vuole ch'egli abbia preso l'idea dei suoi famosi crescendo, e di G. B. Velluti. Ma un'affermazione d'originalità credettero di vedere, pubblico e critica del tempo, nel Tancredi, melodramma eroico su libretto di G. Rossi (Venezia, Teatro della Fenice, 6 febbraio 1813). Oggi, a distanza di tempo, non è facile condividere del tutto questa sensazione, e ci pare piuttosto che il R., presentandosi in un grande teatro, abbia semplicemente spiegato maggiore impegno; sembra, insomma, che si tratti d'un progresso più nella quantità e continuità dell'ispirazione, che nella qualità. Ma per i contemporanei, piccoli accenni di novità prendevano aspetto di compiute rivoluzioni. Il balenare delle trombe nel duetto guerresco fu un'audacia nelle tranquille consuetudini dell'orchestra settecentesca; e l'uso continuo di trii, quartetti, e pezzi d'insieme conferiva all'opera seria un'insolita snellezza e vivacità; la limitazione dei recitativi parve un passo decisivo verso la verità drammatica dell'azione, la stessa sinfonia - che pure proveniva da un'opera brillante come La pietra del paragone - destò entusiasmi irrefrenabili. Se oggi, a considerarlo sotto la stretta specie dell'arte, non si salva molto del Tancredi, si può tuttavia agevolmente comprendere come, liberando il proprio stile dalle manchevolezze giovanili, irrobustendo la propria scrittura musicale, e manifestando ormai una completa maturità tecnica, proprio da quest'opera il R. si avviasse verso la sua lunga e gloriosa dittatura sul gusto musicale di tanta parte d'Europa. In Italia, poi, opere simili trasformavano la concezione dell'opera in musica e costituivano il tramite da N. Piccinni a G. Donizetti, da G. B. Pergolesi a V. Bellini.
Ripreso a Ferrara un mese dopo, il Tancredi riportò nuovo successo; poi il R. ritornò a Venezia a musicare un'opera buffa per il teatro San Benedetto. Fu L'Italiana in Algeri, su libretto di A. Anelli, rappresentata con grande successo la sera del 22 maggio 1813; opera che ha, nel genere comico, l'importanza del Tancredi nel genere serio. Il R. aveva ormai creato intorno a sé, specialmente in Venezia, una specie di fanatismo: la sua bellezza e l'arguzia dei suoi modi completavano presso il sesso femminile l'entusiasmo destato dalle opere. Non ebbe, infatti, sempre quella caratteristica figura corpulenta che gli ultimi ritratti ci hanno tramandato: era, da giovane, bellissimo, e assai per tempo le donne, per sua stessa confessione, cominciarono a interessarlo. Anche se sono leggende la maggior parte degli aneddoti che si raccontano, certo, dalle sorelle Mombelli, cui si deve la prima opera del R., alla Colbran, che tra poco entrerà nella sua vita a sostenere una parte di primo piano, non furono poche le cantanti ch'egli seppe piegare agl'interessi della propria carriera, non soltanto col prestigio dell'arte.
Anche a Milano il pubblico, memore del trionfo della Pietra del paragone ed eccitato dalle notizie dei recenti successi veneziani, attendeva con impazienza la nuova opera seria preparata dal maestro per la Scala, Aureliano in Palmira (26 dicembre 1813), su libretto di F. Romani, il futuro collaboratore ideale del Bellini. Sull'esito i biografi non sono concordi, e certo non dovette essere in nessun modo eccezionale: l'opera è tuttavia decorosa e solenne - un esperimento in quello stile grandioso e classicheggiante che il R. adotterà per la Semiramide e per il Mosè - e contiene passi celebri, soprattutto la sinfonia che, dopo essere passata all'Elisabetta, si eternerà come sinfonia del Barbiere di Siviglia. Non ebbe esito migliore l'opera buffa Il Turco in Italia (Scala, 14 agosto 1814), anche su libretto del Romani. Una mediocre cantata, Egle ed Irene, scritta a Milano nel 1814, fu l'omaggio del R. a un'illustre protettrice, la principessa di Belgioioso.
Il R., di cui una stolta leggenda vanta l'indifferenza ostentata la sera del fiasco del Barbiere, fu scosso dal cattivo esito delle ultime opere, e poiché non era né un puntiglioso né un volontario, si accasciò. Risultato, un'opera brutta, il Sigismondo (Venezia, 26 dicembre 1814), su un librettaccio del Foppa, accolta con fredda cortesia. Il R. ritornò poi a Bologna presso la madre amatissima, cui sempre comunicava notizie di sé e delle proprie opere, e quivi fu indotto dai cittadini entusiasmati dal recente proclama del Murat a scrivere un inno - la cui musica è perduta - per l'indipendenza. Ma è falso l'aneddoto, d'altronde neppure simpatico, della burla che il R. avrebbe giocata al generale delle truppe austriache rientrate in Bologna, presentando la stessa musica adattata alle reazionarie parole del Ritorno d'Astrea di Vincenzo Monti, a guisa d'omaggio all'autorità imperiale, e ottenendone in cambio la concessione del passaporto. Tuttavia la fama del R. non era impallidita, neppure in questo periodo d'appariscente sosta. Proprio allora, il geniale e fastoso impresario napoletano D. Barbaja gli offerse con un'eccellente scrittura la direzione musicale dei teatri San Carlo e del Fondo, con l'obbligo di scrivere due opere nuove all'anno, e con la facoltà di assentarsi ogni tanto per impegni teatrali assunti in altre città. Il R. partì da Bologna il 17 maggio e, appena giunto a Napoli, s'intese immediatamente col carattere generoso e gaudente, tutto immediatezza e intuizione, del Barbaja, prese visione del teatro, vastissimo, dell'orchestra eccellente e dei magnifici cantanti, tra i quali primeggiava la madrilena Isabella Colbran, da alcuni anni favorita e despota, insieme, dell'impresario. Napoli attendeva all'opera il "settentrionale" con diffidenza, fiera della propria gloriosa scuola operistica: ma l'Elisabetta (4 ottobre 1815), su libretto di C. Federici, accortamente composta in modo da sfruttare tutte le possibilità del teatro e dei cantanti e indulgendo al gusto dei Napoletani per il virtuosismo e la magnificenza, spazzò tutti i dubbî in un'ondata d'entusiasmo.
Di questi accorgimenti pratici l'opera oggi risente assai, raccomandandosi quasi esclusivamente per la robustezza dell'istrumentazione e gli accurati recitativi; ma valse a conquistare al R. l'ammirazione e l'affetto di Napoli, e procurò un trionfo alla Colbran, che ne fu grata al giovane musicista.
Della facoltà di mettere in scena opere altrove, il R. non tardò a valersi, e ai primi di novembre lo troviamo a Roma per Il Turco in Italia al teatro Valle e per preparare l'opera seria Torvaldo e Dorliska (26 dicembre 1815), su libretto dell'esordiente C. Sterbini: ebbe accoglienze assai fredde, né meritava, del resto, di più. Intanto, già il 15 dicembre il R. aveva stipulato il contratto con il duca Francesco Sforza Cesarini, impresario del teatro Argentina, per un'opera buffa da rappresentarsi nel prossimo carnevale e da consegnarsi, quindi, entro un mese, su libretto scelto dall'impresario e con tutti gli adattamenti richiesti dalle qualità dei cantanti dell'impresa. Difficoltà sorsero per trovare libretto e librettista; finalmente il 18 gennaio 1816 lo Sterbini fu messo a lavorare a rotta di collo, e il 25 consegnò il primo, il 29 il secondo atto d'un'opera che il R. musicò materialmente in non più d'una ventina di giorni, e che fu rappresentata all'Argentina il 20 febbraio 1816, con ottimi cantanti, tra cui la bolognese Righetti-Giorgi, amica d'infanzia del R., e il tenore Manuel García. Tratta con qualche modificazione dal Barbier de Séville del Beaumarchais, mutò il titolo in quello di Almaviva o L'inutile precauzione, per evitare il troppo evidente paragone col Barbiere di Siviglia del suscettibile Paisiello. Il libretto ha un'ottima condotta teatrale. Quanto alla musica, essa è tutta di mano del R., contrariamente alle fantastiche attribuzioni della romanza Io son Lindoro al tenore García, e ad altri dei recitativi e dell'aria di don Bartolo "Manca un foglio" (una ne fu scritta più tardi, a Firenze, da P. Romani per un basso che non riusciva a cantare l'originale). Così si è molto esagerato sull'uso che il R. avrebbe fatto di musiche precedenti: la sinfonia era originale, su temi spagnoli forniti dal García; ma andò poi perduta e fu sostituita da quella dell'Aureliano in Palmira e dell'Elisabetta; il coro dell'introduzione viene dal Sigismondo; alcune battute dell'Aureliano servirono per la cavatina Ecco ridente in cielo, e altre della stessa opera (8 battute d'un rondò di Arsace) per la cavatina di Rosina Io sono docile; l'aria della calunnia viene da un crescendo del Sigismondo, e alcune battute qua e là, nel duetto Rosina-Figaro e nell'aria di don Bartolo A un dottor della mia sorte, vengono dalla Cambiale di matrimonio e dal Signor Bruschino. L'esito della prima sera fu - forse per gl'intrighi di Paisiello - disastroso, ma migliorò moltissimo nelle sere successive e l'opera passò presto, acclamata, in tutti i teatri d'Italia.
Tornato a Napoli, il R. ebbe a scrivere una cantata Le nozze di Teti e Peleo per un matrimonio nella famiglia reale e poi preparò una mediocre opera buffa, La gazzetta (26 settembre 1816), che il Tottola trasse con mano maldestra dal Matrimonio per concorso del Goldoni. Ma era vicina la stupenda affermazione dell'Otello (4 dicembre 1816, libretto di F. Berio di Salsa), che procurò un nuovo trionfo alla Colbran e al tenore Nozzari. Verso la fine dell'anno il R. era di nuovo a Roma, dove in tutta fretta furono preparati libretto (I. Ferretti) e musica della Cenerentola (25 gennaio 1817), che ebbe al teatro Valle la stessa sorte del Barbiere: pessima la prima sera, sempre migliore, fino al più delirante entusiasmo, nelle successive. E veramente quest'opera, così precipitosamente composta, è miracolo non minore del Barbiere; spesso ripresa anche recentemente, supera vittoriosamente, grazie alla perfetta omogeneità musicale, tutte le incongruenze del libretto. Da Roma, il R. passò a Milano, dove il 31 maggio ebbe felice esito la Gazza ladra (libretto di G. Gherardini), opera semiseria. Di ritorno a Napoli il R. preparò, nonostante la sua avversione per i soggetti fantastici, l'Armida (11 novembre 1817), su libretto di G. Schmidt, con esito mediocre, benché l'opera sia accuratamente elaborata. Seguì un meritato insuccesso, all'Argentina di Roma, della frettolosa Adelaide di Borgogna o Ottone re d'Italia (27 dicembre 1817). Poi, alternando periodi di faciloneria con altri di coscienzioso impegno, compì uno sforzo notevole verso la dignità e la coerenza drammatica affrontando l'"azione tragico-scenica" del Mosè in Egitto (5 marzo 1818), che i Napoletani accolsero con entusiasmo. In seguito si prese una specie di gioiosa vacanza andando a mettere in scena la Gazza ladra a Pesaro: i concittadini lo colmarono d'onori e di feste, poi, dopo una malattia, egli si recò a Bologna a riabbracciare i genitori e a scrivere una pessima opera comica in un atto, Adina o il Califfo di Bagdad per un ricco signore portoghese che la fece rappresentare a Lisbona, pare il 12 giugno 1826. Ritornato a Napoli (3 settembre 1818), il R. ottenne un grande successo - nonostante il pessimo libretto del Berio - con il Ricciardo e Zoraide (3 dicembre), alquanto più semplice e facile delle precedenti opere. Ritoccò l'Armida, aggiunse la celebre preghiera al Mosè e scrisse una mediocre cantata prima di preparare l'Ermione (27 marzo 1819), opera seria su libretto del Tottola, caduta nonostante un finale di notevole potenza drammatica. Con poca fatica, e cioè ricucendo alla meglio arie di vecchie opere meno felici, il R. ottenne un grande successo a Venezia con l'Edoardo e Cristina (24 aprile 1819), opera seria che merita appena il ricordo. Di ritorno a Napoli sostò ancora una volta (forse l'ultima) a Pesaro, poi, scritta una cantata per la venuta di Francesco I imperatore d'Austria, si accinse a musicare La donna del lago, su libretto che il Tottola trasse dall'omonimo romanzo di Walter Scott, opera che ha grande importanza, se pur non sia tra le più vitali del R., per il primo contatto ch'egli vi ebbe con il romanticismo europeo. Non compresa alla prima rappresentazione (24 settembre 1819), risorse ben presto e divenne popolarissima. Mediocre opera su buon libretto (del Romani) fu Bianca e Falliero (Milano, 26 dicembre 1819); di ritorno da Milano, il R. passò a Bologna dai suoi, poi a Napoli scrisse una Messa, non conservata, e il Maometto II (3 dicembre 1820), su libretto che C. Della Valle duca di Ventignano trasse dal Voltaire: opera che non incontrò molto, ma che segna un progresso notevole sulla via della dignità drammatica e della maestà dei concetti. A Roma, all'Apollo, si rappresentò la Matilde di Shabran (24 febbraio 1821), su libretto del Ferretti, con esito contrastato; ma questo non valse a smorzare il buon umore del R., che, in compagnia di M. D'Azeglio, N. Paganini e G. Pacini, trascorse a Roma un carnevale memorabile per l'allegria, le burle e le facete mascherate. A Napoli, nell'inverno, rinnovò il contratto con il Barbaja; oltre a due cantate, La riconoscenza (1821) e I pastori (1825), l'ultima opera scritta per Napoli fu la Zelmira (26 dicembre 1821), su libretto del Tottola, che ottenne un grande successo rinnovato in tutte le città d'Italia e ben presto anche a Vienna (1823), dove il R. si recò subito dopo avere celebrato a Bologna (15 marzo 1822) le proprie nozze con Isabella Colbran: episodio, questo, che eccitò assai la fantasia dei biografi, in quanto, effettivamente, le nozze furono preparate di nascosto per evitare eventuali complicazioni col geloso Barbaja. Anche a Vienna il R. si conquistò gli animi dei cittadini; fece visita a Beethoven e restò dolorosamente stupito - lui, abituato a vita allegra e fastosa - della rude miseria in cui lavorava quel grande.
Ritornato a Bologna, la sua fama europea di compositore ebbe una consacrazione ufficiale nell'invito a Verona (dicembre 1822) per ornare di sue musiche il Congresso delle nazioni; nacquero così quattro cantate: Il vero omaggio, L'augurio felice, La sacra alleanza e Il bardo. Venezia accolse, come la prima, anche l'ultima opera italiana del R., la Semiramide (3 febbraio 1823), su libretto di G. Rossi, nuovo saggio nel genere storico e grandioso del Mosè, che disorientò a tutta prima il pubblico, ma non tardò ad assicurarsi universale successo.
Il 20 ottobre 1823 i R. partirono per Parigi ove giunsero il 9 novembre e si trattennero un mese, in attesa di continuare per Londra, dove li chiamava un duplice vantaggioso contratto offerto da G. B. Benelli, direttore del King's Theater. Fu un mese di feste, banchetti e ricevimenti, dove il tatto del R., la sua giovialità, le sue doti insuperabili - quando voleva - d'uomo di mondo, trionfarono delle gelosie d'altri compositori e del mal celato risentimento nazionalistico che tacitamente gli si opponeva. Il 6 dicembre i coniugi R. ripartirono e il 13 giunsero a Londra e vi rimasero fino al 25 luglio 1824, tosto affabilmente ricevuti dal re Giorgio IV e acclamati dal pubblico, nonostante non mancassero neppure qui insidie e opposizioni. Si rappresentarono la Zelmira, Il Barbiere, l'Otello, Ricciardo e Zoraide, Il Turco in Italia, La donna del lago, Tancredi e Semiramide.
Fra tanti banchetti, concerti e ricevimenti, dell'opera nuova che il R. doveva scrivere per Londra non se ne fece niente, anche per dissensi con l'impresario; tutto si ridusse a una cantata, tra le migliori del R., Il pianto delle Muse in morte di Lord Byron.
Ritornato da Londra in possesso d'una notevole fortuna, il R. si stabilì a Parigi - dopo una rapida visita ai genitori a Bologna (settembre 1824) - con la carica di direttore della musica e della scena del Teatro Reale Italiano, a 20.000 franchi l'anno, oltre il compenso per le opere nuove che scrivesse: posizione di primo piano, ma non facile, nella vita musicale parigina. Il 19 giugno 1825 fece rappresentare al Teatro Italiano una piccola opera di circostanza, Il viaggio a Reims o L'albergo del giglio d'oro, per festeggiare l'incoronazione di Carlo X; poi Cenerentola, La donna del Lago, Semiramide e Zelmira - le due ultime ancora sconosciute a Parigi - calmarono in parte l'impazienza del pubblico che reclamava invano un'opera nuova: un Ivanhoe (Odéon, 15 settembre 1826) non era che un pasticcio di arie tolte da altre opere, e accozzate su un libretto occasionale, senza partecipazione attiva del maestro. Al quale, invece, non pareva vero di essersi finalmente liberato dalla tirannia degli impresarî, dei contratti a scadenza fissa, dei capricci delle cantanti, e assaporava il gusto di poter scrivere a modo suo, senza fretta, elaborando attraverso saggi successivi uno stile nuovo che non s'accontentasse soltanto della brillante e fitta successione di arie e concertati, ma assicurasse allo spettacolo una certa continuità drammatica, una certa omogeneità di colore e d'ambiente, secondo quanto avevano mostrato un tempo i lavori di C. W. Gluck, e ora l'Olympia di G. Spontini e il Freischütz di K. M. Weber. Primo tentativo verso questo genere fu L'assedio di Corinto, trasformazione del Maometto II (Opéra, 9 ottobre 1826). Pochi giorni dopo, lasciò la sua carica per quella di compositore di sua maestà e ispettore generale del canto in tutti i regi stabilimenti musicali, carica che lo portò a sorvegliare assai da vicino l'andamento dell'Opéra, dove andò in scena il rifacimento del Mosè (26 marzo 1827): fu un trionfo, ma il R. non ne poté godere, affranto com'era per la recente morte della madre. Sebbene nel Mosè molta musica nuova fosse aggiunta, e sebbene, nel nuovo stile che il maestro si prefiggeva, non tanto contasse l'invenzione quanto la corretta condotta del dramma, tuttavia sempre più si acuiva il desiderio d'un'opera originale, eccitato più che soddisfatto da una cantata eseguita il 16 luglio in casa del banchiere Aguado. E l'opera nuova venne - sia pure con molta musica del Viaggio a Reims - su un libretto comico di A. E. Scribe: Il conte Ory, che trionfò anch'esso (Opéra, 20 agosto 1828). Non è più la comicità irresistibile del Barbiere, è piuttosto umorismo: non vi sono forse tanta ricchezza e plasticità di motivi, ma c'è arguzia diffusa, eleganza, continuità espressiva: qualità che avranno un peso incalcolabile su tutta la scuola ottocentesca dell'opera comica francese.
Benché la sua salute cominciasse a risentire prematuramente gli effetti della vita irregolare d'un tempo, del suo noto amore per la buona tavola e della sua immensa pigrizia fisica, il R. lavorava assiduamente - pure tra noie amministrative - al nuovo libretto che gli aveva preparato il De Jouy, prendendo a soggetto la figura di Guglielmo Tell, cui il risveglio nazionalistico dei tempi dava un particolare interesse. L'attesa di Parigi, e del mondo musicale europeo, si fece di mese in mese, di giorno in giorno, spasmodica, e forse non le corrispose del tutto l'accoglienza che il gran pubblico dell'Opéra fece al Guglielmo Tell (3 agosto 1829). Ma tra i conoscitori, anche i più accaniti avversarî dello stile rossiniano sentirono la bellezza del capolavoro e la sua enorme importanza musicale. F. J. Fétis, H. Berlioz e altri critici e musicisti scrissero commenti ispirati alla più incondizionata ammirazione, che presto indussero la folla - riavutasi dalla sorpresa per le inconsuete proporzioni e per la dignitosa austerita dell'opera - a un duraturo entusiasmo.
Quest'opera, con cui il R. pareva essersi definitivamente impadronito d'un nuovo stile, adatto all'ambiente e ai tempi nuovi, fu l'ultima ch'egli scrisse. Sulle cause di questo silenzio si discute ancora: ma, più che all'avversione per il nuovo gusto musicale che si veniva formando, sembra che veramente la sua naturale indolenza, il desiderio di riposo, uniti a molte fastidiose contrarietà pratiche e allo stato sempre più grave della sua salute, abbiano a poco a poco fatto svanire nel maestro quello stato di tensione creativa in cui le necessità l'avevano fino allora tenuto ond'egli si abbandonò soddisfatto alla propria naturale inclinazione, limitandosi a buttar giù, quando gli pareva, brevi pagine umoristiche per pianoforte o per canto (Soirées musicales, 1835), oppure a cesellare, con una calma e un'accuratezza che la sua vita agitata d'operista non gli aveva mai consentito, due capolavori di musica sacra, lo Stabat Mater, e la Petite Messe solennelle.
Dopo il Guglielmo Tell il R. venne con la moglie in Italia: a Milano ascoltò il Pirata di Vincenzo Bellini e prese interesse al giovane musicista, poi passò l'inverno a Bologna, fatto segno a ogni sorta di festeggiamenti. Egli vagheggiava tuttavia di scrivere un Faust, quando la notizia della rivoluzione di luglio e della caduta di Carlo X venne a gettarlo nella più imbarazzante incertezza riguardo alla sorte del suo contratto col Teatro Reale Italiano. Nel settembre 1830 ritornò, solo, a Parigi, ove fu aiutato e protetto dal banchiere Aguado e riuscì, dopo interminabili liti, ad assicurarsi almeno la pensione cui aveva diritto; anche senza cariche ufficiali egli continuava a muovere potentemente la vita musicale della città, e nel 1834-35 protesse paternamente Bellini, venuto a comporre e mettere in scena i Puritani. D'ora innanzi, la vita del R., apparentemente fatua e sorridente, intessuta di dilettosi passatempi, è in realtà rattristata dalla salute in crescente declino, dal disaccordo con la moglie, da lunghe e fastidiose contrarietà economiche, liti con impresarî ed editori, e, forse la causa più importante del disagio, dal fatto di sentirsi, dopo la rivoluzione di luglio, un illustre tollerato, sia pure con tutti gli onori. Si può dividere questa vita in quattro grandi periodi: quello dal 1829 al 1836 in cui egli vive a Parigi, solo, ma compie diversi viaggi di svago; il periodo bolognese (1836-48), quello fiorentino (1848-55), e l'ultimo soggiorno parigino (1855-68). Cadono nel primo periodo il viaggio in Spagna (1831) col banchiere Aguado, onde nacque incompiuto lo Stabat Mater; un breve viaggio di riposo a Bologna (1834), per rimettersi da gravi disturbi di salute; un viaggio nel Belgio e sul Reno (1836) col banchiere Rothschild, durante il quale conobbe J. L. Mendelssohn e ne apprezzò assai le composizioni. Occorre notare che in tutto questo tempo la focosa Isabella Colbran era rimasta a Bologna, presso il vecchio e buon Vivazza, il quale era letteralmente disgustato del suo eccentrico tenore di vita e del suo umore bollente, inacidito dall'età e dal completo declino delle sue doti vocali. Il R., intanto, mentre passava assegni alla moglie, che li trovava esosamente meschini, ed esortava il padre a sopportare pazientemente la nuora, aveva conosciuto a Parigi una matura e piacente matrona, Olimpia Pélissier; costei era accorsa a curarlo con abnegazione e squisitezza durante la sua malattia del 1832: presto questa donna materna e previdente, benché il suo passato non fosse d'una limpidezza eccessiva, divenne indispensabile alla cagionevole salute del maestro. Così, prima di tornare in Italia, il R. volle risolvere questo intrigo: la Colbran, che già sapeva della nuova relazione, fu insolitamente sensata, accettò senza discutere la separazione legale, volle conoscere la nuova compagna del musicista, e finì per ritirarsi, senza eccessive scenate, dalla vita di lui. Stabilitosi a Bologna verso la fine del 1836, il R. riprese la sua vita di piccoli viaggi infiorati da gloriosi ricevimenti musicali: fu a Milano, venne nominato consulente onorario perpetuo del Liceo musicale di Bologna (1839), ebbe il dolore di perdere il padre più che ottantenne (1839) e cercò di ritemprarsi nella serenità di Napoli e nell'accoglienza affettuosa e grandiosa del vecchio Barbaja. Ma ritornò a Bologna sempre assai abbattuto; si occupò attivamente e con molta perizia del Liceo musicale, e, affinché da editori poco scrupolosi che avevano avuto il manoscritto dello Stabat Mater attraverso complicate vicende d'eredità non si pubblicasse col suo nome opera che di suo aveva solamente sei numeri, s'indusse a completarlo: le esecuzioni di Parigi (7 gennaio 1842) e di Bologna (18 marzo), dove lo Stabat fu diretto dal Donizetti, rinnovarono intorno al nome del R. l'entusiasmo europeo e rinfocolarono la passione delle accoglienze che Parigi fece al maestro, venuto nell'estate 1843 a consultare uno specialista per la sua sempre più grave malattia uretrale. Nel 1844 un editore di Parigi lo indusse a pubblicare tre cori sacri, La Fede, la Speranza e la Carità, di cui solo l'ultimo era di recente composizione.
Oltre alla malattia propria e alla morte del padre, molte tristezze s'insinuavano in questa vita apparentemente dominata dal più splendente edonismo. La notizia dell'incendio che aveva distrutto il Teatro Italiano di Parigi (1837); la morte del banchiere Aguado e quella, avvenuta a Castenaso il 7 ottobre 1845 della Colbran, che l'aveva voluto rivedere un mese prima, avevano fortemente scosso la tempra ipersensibile del R. Il 16 agosto 1846 sposò la Pélissier. Ma i vecchi amici sparivano ad uno ad uno, e i tempi si facevano strani e inquieti. Nei primi entusiasmi patriottici e liberali, il R. acconsentì di buon grado, non a comporre, ma ad adattare vecchie musiche a testi che gli venivano proposti: il coro della Donna del Lago, divenuto un inno a Pio IX, fu eseguito da 500 persone a Bologna (23 luglio 1846), e a Roma si eseguì pure una cantata, mentre a Parigi (23 dicembre 1846) andava in scena con scarso successo un pasticcio operistico, il Robert Bruce, allestito da tre maestri autorizzati dal R. a combinare un centone di arie delle sue opere meno note. Quando i moti del 1848 cominciarono in Bologna, il R. contribuì a rifornire di cavalli i rivoluzionarî; ma pare che i suoi cavalli non fossero famosi e si sfiancassero presto, così che corsero voci poco simpatiche e, un giorno il R., comparso al balcone a salutare i soldati che passavano al suono di una sua musica si ebbe qualche fischio e insulto (27 aprile 1848). Bastò questo perché fuggisse con la famiglia a Firenze e rifiutasse di tornare a Bologna, anche dopo le ampie riparazioni promosse da padre Ugo Bassi, che pure ottenne la musica originale per un inno patriottico. Solo verso la fine del 1850 ritornò, con molte precauzioni, per qualche mese a Bologna; ma nel maggio successivo era di nuovo a Firenze, tranquilla e ospitale. In questi anni la sua salute peggiorò, accentuandosi l'ipocondria del suo carattere debole; la moglie divenne sempre più indispensabile e fedele infermiera e, quando tutte le cure tentate parvero vane a dargli un qualche sollievo, ella seppe far sopportare a quell'uomo brontolone, collerico e nevrastenico, un mese di viaggio fino a Parigi (1855) nella speranza che a nuovi dottori riuscisse di guarirlo. Migliorò, effettivamente, un poco, giovandosi di tutte le cure, di tutte le stazioni climatiche, e soprattutto delle attenzioni di Olimpia, e, appena gli fu concesso di ricevere visite, poté assumere quel metodico orario di vita su cui si regolava la giornata dei musicisti e dell'altissima società parigina, ammessa in certi giorni e in certe ore alla presenza del vecchio idolo, rifatto arguto, gioviale, motteggiatore. La sua casa della Chaussée d'Antin divenne la meta d'un ordinato pellegrinaggio: placate le invidie e le rivalità, il R. viveva ormai della sua stessa gloria, assistendo, quasi postero di sé stesso, all'universale omaggio che tutti i musicisti gli elevavano. Anche i più giovani e ambiziosi e insofferenti del passato: Riccardo Wagner si presentò al maestro (marzo 1860), che s'interessò vivamente dei suoi progetti e poi, voltosi a parlare di sé, volle bene ammettere, sorridendo, di avere avuto "una certa facilità e molto istinto". L'esecuzione privata della Petite Messe solennelle, nel palazzo della contessa Pillet Will (14 marzo 1864), si risolse in un commovente tributo d'ammirazione di tutti i maggiori musicisti francesi del tempo. Un pezzo inedito del maestro, il Canto dei Titani, per quattro bassi all'unisono, era stato eseguito in un concerto del Conservatorio di Parigi (22 dicembre 1861) e poi a Vienna (15 aprile 1866); ma non era di composizione recente. Qualche pezzo vocale inedito fu ancora eseguito durante il 1867 (National Hymn, a Birmingham; la romanza Il fanciullo smarrito e l'Inno a Napoleone III, a Parigi). L'anno seguente il ministro italiano della Pubblica Istruzione, Emilio Broglio, lo invitò ad assumere la presidenza d'una società Rossiniana che avrebbe dovuto servire a risollevare lo stato della musica in Italia: la lettera, malaccorta e offensiva per i molti e grandi musicisti che l'Italia aveva prodotto dopo il R., suscitò in Italia malumore e proteste e allarmi per una temuta soppressione dei conservatorî, allarmi che il R. calmò con una esplicita lettera al direttore del Conservatorio di Milano, maestro Lauro Rossi. Nell'ottobre 1868 l'aggravarsi del catarro bronchiale che già lo travagliava, complicato da una dolorosa fistola al retto, impedì al R. di ritornare a Parigi dalla sua residenza estiva di Passy. E quivi trascorse la sua ultima malattia, invano curato con abnegazione dalla moglie, invano sottoposto a due gravi operazioni: morì la sera del 13 novembre 1868, assistito fino all'ultimo istante. Sepolto con onori imponenti nel cimitero del Père Lachaise, fu poi trasportato, nel 1887, a Santa Croce in Firenze.
L'arte. - La comparsa del Rossini nel mondo teatrale determinò fino dalle prime opere - per es., dalla Pietra del paragone, dall'Italiana in Algeri, dal Tancredi - una sorta di sommovimento, che in seguito non fece, d'altra parte, che accentuarsi e diffondersi in quasi tutta Europa. La vittoria rossiniana fu così rapida e totalitaria come forse nessun'altra nel campo della composizione; se mai, essa può trovare confronti nella vittoria d'un Paganini e di un Liszt nel campo del virtuosismo strumentale.
Come il violino dal Paganini e il pianoforte dal Liszt, così anche l'opera italiana e francese dopo il R. è sospinta verso nuove possibilità, anche se il "modo di far l'opera" non sia poi tanto diverso da quello dei settecentisti. Ma una nuova vita rianima di già il sorridente sentimentalismo dei Cimarosa e dei Paisiello. Contro la fortuna del R. non si notano opposizioni comunque riuscite: i pubblici che fischiano o che misconoscono, alla prima rappresentazione, l'una o l'altra delle belle opere rossiniane, già alla seconda vanno in visibilio e riempiono il teatro per interi mesi di repliche; i critici parlano contro il R. non già in nome di sensi e di spiriti nuovi, ma in nome di una "tradizione" ormai decrepita i cui valori ancora utili sono del resto ripresi e rinverginati proprio nell'arte del giovane pesarese; i musicisti più avversi, un Lesueur, un Weber tra gli altri, o cadono nelle stesse gore antistoricistiche dei critici, o se ne vanno cercando nell'emporio tecnico illusorie deficienze ora armonistiche ora strumentali e via dicendo, e finiscono poi per assorbire essi stessi (Weber) influssi rossiniani.
È interessante, a questo punto, notare che alcune di tali accuse di natura materialistica venivano intanto mosse (p. es., dallo stesso Weber) all'arte, pure così diversa, di L. v. Beethoven: tra le altre, quelle d'un'orchestrazione troppo piena e "assordante", d'una eccessiva lunghezza delle cadenze finali, e via dicendo. È certo che il problema della critica rossiniana o della beethoveniana non può essere posto in tali termini e in tali termini discusso con probabilità di un qualunque risultato accettabile esteticamente. Ma lo studio delle opposizioni ora citate è abbastanza utile per renderci conto della posizione storica del R. In genere, gli "insuccessi" di alcune prime rappresentazioni furono determinati o da cause completamente extra-artistiche (Barbiere di Siviglia) o dalla stessa sconcertante vivacità della vena (Cenerentola); le critiche contro la "volgarità" dell'ispirazione rossiniana (le più serie, e non trascurabili - come anche, per certi aspetti, le accuse mosse alla figura tecnica di quest'arte) sono fatte, come s'è detto, in nome d'una tradizione, e cioè di spiriti già bene e saldamente accettati: quelli dell'opera settecentesca dal Pergolesi al Gluck, dal Mozart al Cimarosa e al tuttora vivente Paisiello, allo stesso modo che in nome di Haydn e di Mozart si combatte il Beethoven.
L'impressione di assordante pletora orchestrale è legittima - quando ci si limiti nel giro della tecnica - nel confronto con la leggerezza quasi fatata dell'orchestra d'un Mozart o d'un Cimarosa. Non però è legittima se si pensi all'orchestra d'un Cherubini e d'uno Spontini e a quella del Beethoven, di gran parte dello stesso Weber, dello Schubert e a quella - che allora stava avviandosi - di un Berlioz. Tale impressione è dunque dovuta alla sopravvivenza - nel critico - di abitudini e di sensibilità proprie d'un mondo ormai consunto, la cui espressione orchestrale si era sviluppata appunto in leggerezza e in trasparenza di linee e di colori. Proprio al suo apogeo (Mozart-Cimarosa), questa corrente si trovò d'un subito priva di ulteriori risorse creative: ecco, infatti, l'orchestra piena e vigorosa d'un Cherubini, quella - così imponente - d'uno Spontini; la densa partitura d'un Beethoven e i brillanti effetti della rossiniana, a contrasti energicamente squadrati tra masse e singoli gruppi, tra crudi raddoppi fiati-archi e calde entrate del solo quintetto d'archi, tra zone di trepidante, misteriosa eguaglianza fonica e gli empiti vertiginosi del celebre "crescendo" dal R. ottenuto - con novità - non solo per rinforzo progressivo di sonorità dal p. al f. nelle già attive parti strumentali, ma anche per successive entrate in giuoco (raddoppî melodici o anche nel "ripieno" armonico del centro-orchestra) degli strumenti ancora disponibili. Il che, certo, doveva essere "assordante" per i vecchi palchettisti del teatro settecentesco, mentre sembra che non lo fosse per il nuovo pubblico, fino allora veduto di rado in sale di teatro, che nell'opera voleva sentire qualche cosa di suo, pure un'eco di canti e di danze e di tumulti di folle in strada. Così si dica delle "deficienze" armonistiche (vogliamo dire, meno aridamente, di "scrittura" musicale in genere?) e cioè di quel giro d'accordi che nel R. è di solito limitato alla consecuzione pressoché immediata (non si può prendere, in questo caso, in considerazione la copia delle note di passaggio né delle appoggiature subito risolte) delle funzioni cardinali, date quasi sempre allo stato puro con una crudezza di ostentazione che nei settecentisti era mancata, nonostante la loro sintassi non molto audace. Disposizione di parti, varietà e raffinatezza di volute meliche, talvolta anche brevi intrecci contrappuntistici (Mozart, Cherubini) avevano infatti relegato nell'ombra quella scarsa audacia sintattica. E del resto i maggiori esponenti, Haydn, Mozart, Clementi, Cherubini e altri, sapevano anche varcare i limiti abitudinarî, in preziose deduzioni dissonanti, specie a scopo modulatorio, come in tutt'altra efficacia drammatica stava facendo il Beethoven. In R., s'è detto che la sintassi armonica è ridotta alle funzioni cardinali, la cui consecuzione avviene immediatamente senza alcuno effettivo arricchimento: essa è ostentata, scandita, martellata per così dire, e nelle figure d'accompagnamento e nella stessa linea melodica, la quale si slancia con impeto di marcia dalla tonica alla dominante e viceversa, talvolta passando, prima o dopo la dominante, per la sottodominante.
Alcunché di simile non s'era visto spesso, nei settecentisti migliori, se non alle cadenze; qui circola invece in piena luce attraverso l'intera partitura, fino a contenere nella risposta di queste tre funzioni tra loro, la stessa ispirazione melodica, come nella cavatina Ah sì, per voi già sento (Otello, atto 1°), abbastanza tipica.
Ma il R. era ben capace di sottigliezze armoniche, se non audacissime, certo abbastanza peregrine, come si vede nello stesso 1° atto dell'Otello nel mirabile giro cromatico, così espressivo e caratteristico per la persona di Desdemona, col quale s'apre l'andante grazioso Desdemona-Emilia, o anche nella Canzone del salice all'ultimo atto della stessa opera, e poi, qua e là, nella Semiramide, nel Guglielmo Tell e altrove. Quel che si può dunque dire del R. armonista è, in sostanza, che ben di rado l'elemento armonistico si cerca una strada per la quale emergere a sua propria e tipica azione lirica. Esso è in funzione di un altro movimento cui nell'animo musicale del R. spetta di accendere la prima e decisiva scintilla, la quale, non appena scoccata, immediatamente crea la luce, il colore, il disegno intero del singolo quadro musicale, in una sommaria compiutezza da affresco, in cui il particolare, specialmente l'armonistico, non ha valori proprî tali da consentire preziosità o ricerche. Esse non farebbero, nel R., che viziare la chiarezza e l'efficacia dell'espressione, la quale più non potrebbe imporsi immediatamente dalla scena alla platea. Anche qui, dunque, si vede la scomparsa del teatrino settecentesco, con i suoi valori di estrema, raffinata sensibilità. E si poteva, certo, rimpiangere quei valori e preferire un Mozart a un R.; assurdo era l'invocare l'artista di ieri contro quello di oggi, e ancora più assurdo il pretendere da questo virtù che erano proprie e tipiche di quello.
E così si dica, ancora una volta, delle altre caratteristiche rossiniane poste in stato d'accusa: p. es., della prolissità delle cadenze, cioè, in ordine formale, delle code finali e dei finali stessi. S'è accennato che la stessa accusa era mossa anche al Beethoven. Certo non si ritrova né in R., né in Beethoven, né in Weber, né in Schubert, ecc., la discrezione che spesso fece paragonare l'arte mozartiana con quella degli architetti del Partenone e dell'Eretteo. La tendenza ottocentesca all'espansione, come dell'intensità affettiva, così anche dei volumi in senso verticale (p. es., nell'orchestrazione) e orizzontale (cioè nella lunghezza e nelle forme), è infatti già avviata in R. come negli altri maestri ora citati. E anzi tale tendenza vi era così legittima e necessaria da esigere in tutti questi artisti concessioni sempre maggiori. Ma il Grand Opéra del R., di D. Auber e poi di G. Meyerbeer, ecc., aveva pure avuto qualche chiaro annunzio già nel teatro d'uno Spontini, i cui volumi non erano inferiori ai nuovi: non per nulla la figura intera di G. Spontini mostra varî tratti già ottocenteschi. Ma pure nel seno di tale corrente storica, diretta all'amplificazione, il cammino rossiniano si distingue da quello dei suoi vicini, ed è appunto in tale differenza che vanno cercate le ragioni dell'accusa. L'ampiezza d'un'opera come la Vestale è spiegata dalla frequente entrata in giuoco di nuovi movimenti scenico-musicali. Quella delle opere rossiniane non ha talvolta una simile spiegazione; spesso, invece, vediamo che essa deriva dall'uso continuo della ripetizione, a ritornello o no, di intere pagine durante il corso della stessa scena e, talvolta, nonostante il mutare delle parole del libretto. Se si analizza poi il contenuto musicale di queste pagine ci si trova spesso di fronte a semplici piani di cadenza, variati nelle pagine solistiche mediante melismi, vocalizzi, ecc., nelle corali inesorabilmente riportati sulla scena musicale tali quali dapprima s'erano visti, tranne le frequenti modificazioni di coloriti e di volumi fonici. Esaminata in un ordine puramente materiale, a raffronto di pagine e di battute, è certo che tali ripetizioni appaiono di una vuota prolissità. Sta però di fatto che a teatro noi moderni non troviamo vuota prolissità in alcuna delle opere comiche del R., mentre nelle "serie", dal Tancredi al Mosè circa, tale impressione non ci viene mai dal fatto musicale in sé, ma piuttosto dal fatto "drammatico-musicale" che subisce troppi ritorni e troppi appesantimenti. E come drammaturgo lo Spontini acquista, sotto questo riguardo, una figura più sicura e netta di quella che si può attribuire al giovane R., in quanto le forme e i volumi musicali della sua opera sono quasi ovunque giustificati da corrispondenti forme e volumi proposti dalla vicenda e dalla stesura del dramma nel libretto. Nell'opera buffa questo dissidio non si avverte, e possiamo dunque dire che la sua vicenda scenica sia dal R. sentita più intimamente, e quindi totalmente riassorbita e ricreata in musica, e affidata senza possibilità di restrizioni e d'interventi letterarî all'intuizione formale del musicista. Questa, come s'è accennato a proposito della scrittura, immediatamente si crea il disegno intero del quadro con uno slancio così puro e conclusivo da escludere ogni altro nuovo intervento (che ne arresterebbe il corso in non desiderabili soste) di suggestioni armoniche e melodiche. Mancano, infatti, nell'ispirazione rossiniana le ragioni tematiche o melodiche che spiegano la varietà d'idee e di discorso propria d'un Mozart e quelle - date da una sempre desta attenzione ai valori scenici - che spiegano la varietà d'uno Spontini. S'è anche vista l'elementarità del giro armonico del R. e accennato fuggevolmente all'implicita elementarità della sintassi melodica. L'imperio non spetta, così, alla loro forza in sé, ma ad un'altra: a quella stessa che presso il R. basta ad animare e dirigere il cammino fino alla legittima meta. Questa musica - è stato da tanti detto e ridetto - è musica "in continuo movimento"; "in marcia" si potrebbe anche precisare, se si badi alle sue figurazioni. Ed essa si muove e marcia, dinamica come poche altre se ne sono date nella storia (nemmeno quella di Haendel, che ha sommi valori proprio nella larga, estatica contemplazione melodica; forse soltanto quella del Beethoven della VII), senza bisogno di acuti agogismi armonici (le funzioni sono in prevalenza allo stato elementare: la stessa 7ª non è frequente), né di crisi polifoniche. Quanto alla melodia, senza negare la venustà di molte frasi rossiniane, si può essere d'accordo con G. Verdi nel ritenere che nel capolavoro del R., e cioè nel Barbiere di Siviglia, alla melodia si possa attribuire un giuoco ben limitato. Secondo il Verdi, non si troverebbe veramente melodia che nella cavatina Ecco ridente in cielo (ricavata dall'opera eroica Aureliano in Palmira) e in pochi accenni (introduzione e 2ª idea della Sinfonia [tratta dalla Pietra del paragone], canzone di Lindoro Se il mio nome...) nel corso di questa partitura così musicalmente viva. "Non è melodia, non è armonia, eppure è musica", soggiunge il Verdi toccando di colpo la verità estetica. E musica dunque esiste e agisce anche in quelle ripetizioni, in quelle reiterate cadenze che dianzi parevano dare in vuota prolissità. Ce ne avvediamo subito, se proviamo a "tagliare", quei ritornelli e quelle iterazioni: il quadro non è più equilibrato; sembra cadere, si direbbe, verso sinistra, e cioè dalla parte del principio.
Nasce così un senso di insoddisfazione, che rivela la scomparsa della totalità lirica dell'opera. Si tratta dunque di ripetizioni necessarie ai fini architettonici, e cioè a valori di "proporzione": proporzione del quadro rispetto ai suoi elementi, della conclusione rispetto ai suoi principî, dell'ampiezza e della curva dell'intera parabola rispetto alla potenza del primo impulso. Nel finale 1° dell'Italiana in Algeri si trova spinto all'estremo il procedimento della ripetizione d'intere pagine pressoché invariate, nelle quali d'altra parte non è dato scernere un sufficiente interesse melodico né armonico. Si tratta di volumi mano mano ripresentati, attraverso alternanze di pieni e di vuoti; volumi allo stato puro o quasi, e cioè privi di particolare lavorazione. A quale ragione essi rispondano, quale sia la forza che li concepisce e inesorabilmente li impone, ben s'intende: ragione di proporzione e cioè - in ordine artistico - di euritmia. Nella quale parola è implicita la determinazione della natura ritmica del primo impulso onde s'accende l'ispirazione rossiniana. Ritmo che si realizza musicalmente appunto in quella disposizione di volumi - ora allo stato puro, come nel finale 1° dell'Italiana, ora differenziantisi internamente in espansioni melodiche come nel già citato 1° atto dell'Otello e nelle parti più vive delle ultime opere dalla Semiramide al Guglielmo Tell - la cui necessità appare non appena si guardi alla prospettiva d'insieme ponendosi nello stesso punto, nello stesso angolo d'osservazione donde essa fu intuita e creata, e cioè allo stacco dell'idea ritmica generatrice, seguendone le vicende e le frequenti mutazioni. Bisogna a questo proposito ricordare la dottrina rossiniana "varietà di ritmi!", e considerare questa varietà, che non lede, anzi conferma la generale unità del quadro, come figura tipica dello svolgimento rossiniano. Nel ridurre alle sinfonie d'apertura la vera realizzazione estetica del R., alcuni critici di ieri e di oggi hanno parlato di un impeto dialettico, che in esse troverebbe pieno appagamento. Ciò può anche ammettersi, tranne l'assurda negazione dei valori lirici dell'opera intera, se si procede (come si deve) all'ammissione d'una dialettica d'impulsi originariamente ritmici, senza pretendere - per parlar di dialettica e di svolgimento tematico - la presenza e l'azione di riconoscibili entità melodiche alla Haydn-Mozart-Beethoven. Se, per maggiore prova, accettiamo di restringere l'esame alle sinfonie, notiamo infatti la più completa e totale assenza d'un giuoco interno tra motivi dell'una e dell'altra idea considerata melodicamente. Assenza che è facilissimo notare tanto nelle zone d'esposizione e di riesposizione (dove pure moti d'elaborazione non sarebbero assurdi in un tematista alla Haydn-Cherubini-Beethoven) quanto nel passaggio dall'una all'altra, il quale - richiedendo quasi di necessità una vera crisi in cui giungano a rinnovamento i varî concetti in drammatico urto - viene dal R. senz'altro eliminato e sostituito con qualche battuta di raccordo. Ma l'impressione d'una musica in cammino, in reale sviluppo, è pure vivissima, tanto nell'esposizione delle sinfonie quanto nel corso delle opere, cosicché diventa legittimo il parlare, comunque, d'un impeto dialettico. Il quale è visibilissimo se si badi appunto alle vicende d'ordine ritmico: a quella varietà ritmica di cui or ora si mostrava la rossiniana consapevolezza. Qui veramente il genio del R. s'illumina con chiarezza solare. Tranne D. Scarlatti, J. S. Bach e L. v. Beethoven, nessun altro musicista ebbe una potenza ritmica paragonabile alla rossiniana, mentre pari varietà non ebbe se non il primo dei tre maestri sopracitati e forse lo Stravinskij del periodo 1912-21. Questa varietà nasce d'altra parte (come si comprenderà facilmente da quanto s'è finora detto) da fattori quanto mai puri e semplici, scevri da ingegnosi coefficienti armonistici. Assai spesso, al R. basta un semplice spostamento dei valori di durata dall'una all'altra unità di tempo della battuta, o la suddivisione della figura d'una nota nelle sue frazioni (anche semplicemente a note ribattute) per ridestare di colpo lo slancio del discorso. Si ricordino a questo proposito i sorprendenti effetti dati da così piccole mutazioni nelle sinfonie della Gazza ladra e della Semiramide.
Di simile natura, cioè di natura ritmica, è la musica che percorre i corpi viventi del grande finale d'atto alla Rossini. Pagine non certo prolisse, nonostante le iterazioni, ma anzi necessarie all'euritmia dell'insieme; non certo vuote, nonostante l'elementarità del giro armonico e spesso delle melodie, ma vigorose e splendenti per essere le figure sonore ove quell'impeto ritmico si concreta in musica. Identica è in fondo anche la ragione e la virtù di quelle altre cosiddette "vuote prolissità" che si trovano nelle zone monoritmiche, frequenti anch'esse in R., e che di solito contribuiscono fortemente all'effetto di sorpresa delle poliritmiche. Tra esse, moltissime si trovano nelle codette delle sinfonie e nelle analoghe cadenze di alcune scene (specialmente dei grandi finali) trattate così spesso in crescendo: s'è già accennato al congegno tecnico di questo stilema così tipico del Rossini.
Quello che è utile notare è la sua figura, la sua realtà artistica. Questo crescendo giunge dunque per lo più al momento dei gruppi cadenzali, e cioè, tanto durante le sinfonie quanto durante le scene, a esposizione compiuta; le idee, i concetti cardinali, dichiarativi del dato quadro spirituale, cominciano a fremere per la terribile forza ritmica che per un certo tempo hanno contenuto e che da un subitaneo, misterioso "pianissimo" sta ora irresistibilmente salendo di grado in grado alla luce. Acuta, stretta, quasi puntata in avanti è la nuova figura tematica creatasi dal ritmo: non può né deve ampliarsi, né mutare contorni, ma solo reiterare i suoi assalti, ingigantendo la sua massa d'urto. Tutta l'orchestra man mano accorre e s'accentra e si slancia verso il fortissimo. Dall'arcana penombra dell'inizio si giunge ora a un arcano alone di luce abbacinante; vero stato d'ebbrezza dionisiaca in cui il mondo terreno coi suoi dolori e le sue gioie arde tutto in un fuoco d'estasi superumana. Questo il "vuoto" del crescendo rossiniano. E certo, qui siamo "al di là del Bene e del Male" ma in virtù d'incontenibile "entusiasmo", puramente istintivo, scevro e puro da ogni sottinteso o sottovalore polemico o estetizzante. Niente Nietzsche, dunque, e niente Strauss: niente interna amarezza: quella che serpeggia, insopprimibile, nel superamento, così vicino alla rinuncia, vagheggiato da Zarathustra. Gioia di umanità sana e popolare, anti-intellettuale per eccellenza, che s'inebria del suo proprio amore alla vita.
E la musica rossiniana ha precisamente in sé questo entusiasmo, donde ogni travaglio è a priori escluso. Non vi si giunge "al di là del Bene e del Male" per crisi e rinunzie e superamenti; ma così naturalmente come il Sole ascende dall'aurora al meriggio. E questa è probabilmente la ragione della singolarità del Barbiere, della Gazza ladra, della Cenerentola, nel confronto con Le nozze di Figaro da un canto e i Meistersinger e il Falstaff dall'altro.
Vuote, le pagine rossiniane non sono, se non appunto di segni d'interiore travaglio, siano poi, questi segni, esponenti di raffinate sfumature, di delicate sensibilità alla Mozart o anche alla Paisiello-Cimarosa, siano invece esponenti di tormentose crisi in atto (alla Wagner) o (alla Verdi) superate in religiosa accettazione. Ma non vuota, anzi nutrita e poderosa, è la forza costruttiva che è la ragione e la funzione estetica di esse: il quadro unitario dell'atto e dell'intera opera rossiniana, fino dalle prime, è la sintesi, immediatamente efficace e cioè lirica, di questo proporzionato rispondersi di volumi a volumi necessariamente creati dalla potenza (dalla "gittata" si potrebbe dire) e dalla direzione dell'impulso ritmico.
Si tratta dunque d'un'arte esattamente corrispondente a un mondo ritornante a valori elementari. Travagli e preziosità vi sono ignorati fino quasi in ultimo; sola vi si dispiega la larga capacità costruttiva del ritmo: teatro di masse per pubblico di masse, pubblico insieme trovato e creato dal giovane R.
Teatro, dunque, e musica di popolo. Il che non esclude né la nobiltà, né la volgarità: quella volgarità che resta uno dei capi d'accusa più di frequente proposti contro il R. Ma volgarità si vanno trovando un po' dappertutto: p. es., nella musica beethoveniana (sinfonie V e IX), nella verdiana (non solo nelle opere giovanili, ma perfino nell'Otello!) e nella wagneriana (perfino nel Parsifal: la scena delle fanciulle-fiori). L'accusa è, dunque, un po' vaga per assumere valore critico, soprattutto se si pensi che i fatti artistici non sono in sé stessi né nobili, né volgari, ma soltanto concreti o no: riusciti, o non riusciti, e quindi inesistenti liricamente.
E l'opera rossiniana è evidentemente concreta e riuscita, come dimostra l'immediato effetto emotivo (piaccia o non piaccia) della sua coerente e unitaria architettura. Di nobiltà e di volgarità si può dunque parlare rispetto al mondo che vi si è espresso. Questa musica ci parla, in altri termini, d'un mondo più o meno ricco, o povero, di alti valori spirituali. Quindi appare chiaro che nel R. non sono frequenti le espressioni di valori per così dire "mediati", cioè risultati da una personale e consapevole dialettica d'indole filosoficamente etica; ma piuttosto quelle di valori "immediati", allo stato puro e di natura. Dai pur "tenui" napoletani dell'ultimo Settecento al R., abbiamo visto di quale natura sia lo stacco. A un'arte di cultura, si risponde con un'arte di popolo, che all'altra non chiede se non i più urgenti mezzi e le più pratiche direttive per il rapido allestimento d'opere teatrali. Si rompono i vetri della serra, e vigorose piante crescono al sole finalmente ritrovato. Tali, per es., i "temi" rossiniani, ora grotteschi ora impetuosi; quanto lontani, in ogni modo, dal delicato gusto "rococò" dei temi d'un Cimarosa!
Tali, come in principio si disse, e l'armonia e l'orchestrazione, così ricca di fiati e di percussioni e così spesso disposta a raddoppî da attirarsi l'attributo di "bandistica"; attributo, questo, che in verità dice poco o nulla, mentre si deve considerare che si tratta d'un'orchestra a volumi, a masse, e non di un'orchestra concertante. L'orchestra, insomma, propria di quella musica lineare, priva di contrappunti e di ricchezze armoniche, in cui la potenza fonica non può realizzarsi se non con il raddoppio da parte di tutte le famiglie strumentali. Orchestra elementare come la musica di cui è la realtà sonora, e cioè - in ultima analisi - come lo stato in cui il mondo è sentito dal R. E tanto maggiore è la pienezza, la compattezza stilistica del R., quanto più essa agisce in tale regime di elementarità. L'effetto ne diventa allora folgorante come quello d'una forza di natura: ed ecco Il Barbiere di Siviglia. L'evoluzione che si può notare nella carriera componistica del R., mano a mano che ci si avvicina al Guglielmo Tell, permette valori positivi, infatti, anche nei momenti in cui sembra di colpo rinnegarsi: se pensiamo che la vastità, la commozione, e perfino la finezza di tocco, non erano ignote neppure nel Tancredi e nell'Otello, non ci appare che il Guglielmo Tell debba molto, in fatto di valori positivi, proprio e soltanto a tale evoluzione; mentre esso contiene alcuni valori negativi che nelle prime opere non s'erano visti: una certa impressione di eclettismo e talvolta anche di stanchezza, di passo meno ardito e sicuro, non è forse del tutto ingiustificata in questo pur grandioso testamento del "Napoleone della musica". E tranne poche pagine (p. es., il Finale 3°, specialmente nella parte di Guglielmo) quel che c'è in quest'opera di veramente grande e immortale è dovuto alle stesse forze che abbiamo visto agire nelle opere del periodo italiano. Esse però si manifestano ora, occorre dirlo, con un carattere di maggiore ampiezza spirituale: le zone lente della sinfonia, il duetto Guglielmo-Arnoldo nel 1° atto, le fanfare e il coro iniziale del 2°, l'avviamento della scena della congiura, hanno una ricchezza e una vastità di risonanze che fanno pensare al Beethoven, e al Beethoven si pensa egualmente di fronte alle lampeggianti fanfare di rivolta e di guerra che concludono la sinfonia, alla prodigiosa "illuminazione" corale-sinfonica che chiude l'Introduzione al 1° atto ("al fremer del torrente s'alzi di gioia il grido") e alla panica maestà che si riscontra nel finale ultimo.
Ma in tutte queste pagine, come si è detto, l'impulso primo (la ragione della loro musica) è della stessa natura di quello che agiva nelle opere della giovinezza: la forza dionisiaca del ritmo che va concretando la sua interna dialettica in giuoco di volumi, ora puri ora melodici e timbrici, fino alla più grande ariosa architettura. E - come si era visto dianzi - sempre la sua musica si presenta come musica di masse per pubblico di masse, da guardarsi nella sua organica interezza, come appunto il popolo guarda, attonito e insieme rapito, al prodursi dei grandi fenomeni della Natura.
Composizioni. - Teatro: La cambiale di matrimonio (comica; Venezia autunno 1810); L'equivoco stravagante (id., Bologna, autunno 1811); Il cambio della valigia, ovvero L'occasione fa il ladro (id., Venezia, 1812); Demetrio e Polibio (Roma 1812); L'inganno felice (Venezia 1812); La pietra del paragone (Milano 1812); La scala di seta (Venezia 1812); Aureliano in Palmira (Milano 1813); L'Italiana in Algeri (Venezia 1813); Tancredi (Venezia 1813); Il Turco in Italia (Milano 1814); Elisabetta (Napoli 1815); Sigismondo (Venezia 1815); Torvaldo e Dorliska (Roma 1815); Il Barbiere di Siviglia (Roma 1816); La gazzetta (Napoli 1816); Otello (Napoli 1816); Cenerentola (Roma 1817); La gazza ladra (Milano 1817); Armida (Napoli 1817); Adelaide di Borgogna ovvero Ottone re d'Italia (Roma 1818); Adina (Lisbona 1818); Mosè (Napoli 1818); Ricciardo e Zoraide (Napoli 1818); Bianca e Faliero (Milano 1819); I due Bruschini (Venezia 1819); La Donna del lago (Napoli 1819); Ermione (Napoli 1819); Edoardo e Cristina (Venezia 1819); Maometto II (Napoli 1820); Matilde di Shabran (Roma 1821); Zelmira (Napoli 1821); Semiramide (Venezia 1823); Il viaggio a Reims (Parigi 1825); Le siège de Corynthe (Parigi 1826); Mosè (rielaborato; Parigi 1827); Le comte Ory (rielaborazione del Viaggio a Reims, Parigi 1828); Guillaume Tell (Parigi 1829), oltre a varie altre rielaborazioni, rifacimenti, adattamenti che vanno in scena (un po' dappertutto ma specialmente in Francia, Italia, Inghilterra) fin nel secondo Ottocento.
Cantate: Il pianto d'Armonia (Bologna 1808); Didone abbandonata (ivi 1811); Egle e Irene (1814); Teti e Peleo (1816); Igea (1819); Partenope (1819); La riconoscenza (1821); Il vero omaggio, L'Augurio felice, La sacra alleanza, Il Bardo (Verona 1823); Il ritorno (1823); Il pianto delle Muse (Londra 1823); I pastori (Napoli 1825); Il serto votivo (Bologna 1829).
Musica sacra e religiosa. - Oratorî: Ciro in Babilonia (Ferrara 1812); Saul (Roma 1834); Stabat Mater (comp. 1832-41); Petite Messe solennelle (1864); Tantum ergo (1847); Quoniam, O salutaris, ecc.
Musica vocale di vario genere: Non posso, o Dio, resistere (cantata); Oh quanto son grate (duettino); Ridiamo, cantiamo (a 4 v.); Alle voci della gloria (scena ed aria); Les soirées musicales (8 ariette e 4 duetti); Inno a Pio IX (coro); Dall'Oriente l'astro del giorno (a 4 v.); Cara Patria (cantata); Chant des Titans (coro); Se il vuol la molinara; La separazione (pezzo drammatico).
Musica strumentale: Le rendez-vous de chasse (fanfara per 4 trombe, 1828); Tre marce nuziali (per le nozze del duca d'Orléans); Marcia (per il sultano Abdul Megid); 5 quartetti per archi.
Bibl.: G. Carpani, Le Rossiniane ossia Lettere musico-teatrali, Padova 1824; N. Bettoni, Rossini e la sua musica, Milano 1824; P. Brighenti, Della musica rossiniana e del suo autore, Bologna 1830; L. Musumeci, Parallelo tra i maestri Rossini e Bellini, Palermo 1832; Anonimo, Osservazioni sul merito musicale dei maestri Rossini e Bellini in risposta a un Parallelo tra i medesimi, Bologna 1834; Anonimo, Rossini e la sua musica; una passeggiata con Rossini, Firenze 1841; Anonimo, Dello Stabat Mater di G. R.: Lettere storico-critiche di un Lombardo, Bologna 1842; G. Raffaelli, R. (canto), Modena 1844; F. Regni, Elogio di G. R., Torino 1864; E. Montazio, G. R., Torino 1862; G. Vanzolini, Della vera patria di G. R., Pesaro 1873; L. C. Ferrucci, Giudizio perentorio sulla verità della patria di G. R. impugnata dal prof. Giul. Vanzolini, Firenze 1874; S. Silvestri, Della vita e delle opere di G. R., Milano 1874; A. Zanolini, Biografia di G. R., Bologna 1875; R. Gandolfi, Onoranze fiorentine a G. R., Firenze 1902; V. Cavazzani-Mazanti, Rossini a Verona durante il congresso del 1822, Verona 1922; G. Malerbi, G. R.: Pagine segrete, Bologna 1922; G. Radiciotti, G. R. (opera fondamentale per gli studî biografici rossiniani), voll. 3, Tivoli 1928-35; H. Beyle (Stendhal), Vie de R., Parigi 1823 (la sostanza del libro è tratta interamente dalle Rossiniane di G. Carpani, sopra citate); Berton, De la musique philosophique et de la musique mécanique, ivi 1824; Imbert de Laphalèque, De la musique en France: R. Guillaume Tell, in Revue de Paris, 1829; I. D'Ortigue, De la guerre des dilettanti ou de la révolution opérée par M. R. dans l'Opéra français, Parigi 1829; N. Bettoni, R. et sa musique, ivi 1836; L. de Loménie, R. par un homme de rien, ivi 1842; Aulagnier, Quelques observations sur la publication du Stabat-Mater de G. R., ivi 1842; Anonimo, Observations d'un amateur au sujet du Stabat de M. G. R., ivi 1852; E. Troupenas, Résumé des opinions de la presse au sujet du Stabat de R., ivi 1842; Escudier (frères), R. Sa vie et ses oeuvres, ivi 1854; E. de Mirecourt, R., ivi 1855; A. Azevedo, R. Sa vie et ses oeuvres, ivi 1865; N. Roqueplan, R., ivi 1869; E. Beulé, Éloge de R., ivi 1869; A. Pougin, R.: Notes, impressions, souvenirs, commentaires, ivi 1870; O. Moutoz, R. et son Guillaume Tell, Bourg 1872; E. Van der Straeten, La mélodie populaire dans l'opéra Guillaume Tell de R., Parigi 1879; I. Sittard, R., ivi 1882; E. Michotte, La visite de R. Wagner à G. R., Bruxelles 1906; L. Dauriac, R., ivi 1907; E. de Curzon, R., ivi 1920; É. Oettinger, R., l'homme et l'artiste, Bruxelles 1858, ed. or.: R., Komischer Roman, Lipsia 1847 (romanzo satirico); O. Gumprecht, R. in Musikalische Charakterbilder, ivi 1869; F. Hiller, Plaudereien mit R., in Aus dem Tonleben unserer Zeit, ivi 1868; A. Struht, R. Sein Leben, seine Werke und Charakterzüge, ivi; La Mara, R., in Musikalische Charakterköpfe, ivi 1874-76; Hogarth, Memoirs of the musical Drama, Londra 1838; H. S. Edwards, R.'s Life, ivi 1869; id., R. and his School, ivi 1881.