Rossini, Gioacchino
Un crescendo di capolavori
Gioacchino Rossini, compositore italiano attivo nella prima metà dell’Ottocento, è conosciutissimo per alcuni suoi capolavori, come Il barbiere di Siviglia, anche da chi non frequenta assiduamente l’opera classica. Ma la sua personalità non si esaurisce nella pur strepitosa vena comica di autore di opere buffe, che smise di scrivere ancor giovane. Compose, infatti, immortali capolavori anche nel campo dell’opera seria e della musica sacra. Il suo genio artistico si sposò con un acuto senso della scena teatrale e con un notevole senso pratico dello spettacolo
Gioacchino Rossini nacque a Pesaro nel 1792. Il padre, proveniente da Lugo di Romagna, era trombettista e cornista e la madre una cantante d’opera. Da entrambi, perciò, Gioacchino ereditò inclinazioni musicali e dal padre una tempra di buon umore romagnolo insieme a una certa tendenza libertaria che gli procurarono noie giudiziarie con il governo apostolico pesarese.
Mostrate spiccate doti musicali, dopo varie vicende scolastiche da irrequieto alunno di musica Gioacchino entrò nel 1806 nel Liceo musicale di Bologna per istruirsi in violoncello e pianoforte. Diventò qui discepolo di un famoso insegnante di composizione, padre Stanislao Mattei, maestro di cappella in S. Petronio, dedito perciò allo stile ‘severo’ della musica sacra e ben lontano da quella musica teatrale che Rossini precocemente conobbe per naturale inclinazione e per aver seguito gli impegni canori teatrali materni.
Inevitabilmente, l’insegnamento accademico di padre Mattei spazientì Rossini, che infatti nello stesso anno del tirocinio scolastico produsse la sua prima opera del genere serio, Demetrio e Polibio, che però rimase ineseguita fino al 1812.
Nel frattempo venne alla luce la prepotente e irresistibile vena del comico con una serie di opere buffe, tutte accolte con favore: La cambiale di matrimonio (1810), farsa in un atto già caratterizzata da notevole vivacità e da uno spontaneo senso del comico, cui seguirono L’equivoco stravagante (1811), in due atti, e L’inganno felice, La scala di seta, La pietra del paragone, L’occasione fa il ladro (tutte del 1812), dove, nel breve volgere di pochi anni, fu definito e organizzato quello che divenne il prestigioso stile rossiniano.
Lo stile rossiniano si determinò prepotentemente e si consolidò nelle opere di felice invenzione compositiva nel periodo dal 1812 al 1816, come Il signor Bruschino e L’italiana in Algeri (entrambe del 1813) e Il turco in Italia (1814).
Sopra ogni altro esempio, compose poi l’opera che costituì l’apice di tale stile, che coglie magnificamente i diversi lati dei vari personaggi, dall’amorosa tenerezza allo smaccato umorismo: Il barbiere di Siviglia, opera giocosa in due atti, ennesima versione librettistica (la nona!), questa volta dovuta a Cesare Sterbini, desunta da un capolavoro settecentesco delle scene francesi che portava la firma di Beaumarchais. Rossini la condusse in porto in una ventina di giorni e il 20 febbraio 1816 fu rappresentata al romano Teatro Argentina. La prima fu però un celebre fiasco, turbata da fischi e proteste forse organizzate da una fazione di pubblico in difesa di un precedente (e applaudito) Barbiere apparso 34 anni prima e firmato da un operista all’epoca famosissimo, Giovanni Paisiello; i sostenitori di Paisiello si vennero quindi a scontrare con quelli del giovane Rossini, che nel suo Barbiere ha depositato pagine memorabili ed esemplari.
In seguito, ultimo grande capolavoro del genere comico fu La Cenerentola, rappresentata al romano Teatro Valle nel gennaio del 1817, in cui si avverte il cambio di atmosfera nella ispirazione di Rossini: l’opera unisce momenti d’incantevole dolcezza quasi infantile a momenti, in qualche caso irresistibili, in cui predomina lo stereotipo dello stile buffo. Questo fu preludio di un passaggio al genere, detto semiserio, di La gazza ladra, titolo che raccolse un successo trionfale tra il pubblico milanese del Teatro alla Scala nel maggio di quello stesso anno.
Certe attitudini caratteriali e comportamentali di Rossini lo mostrano profondo conoscitore delle convenzioni del teatro del suo tempo, avveduto navigatore che si districa entro gli intrighi, le beghe, gli interessi dell’impresario del teatro lirico, nonché entro i proverbiali capricci dei divi del canto e gli intrallazzi dei librettisti. A questi ultimi va riconosciuto in alcuni casi il merito di aver offerto adeguati appigli a Rossini per le sue vivacissime invenzioni dinamico-vocali-orchestrali e nel dare anima e sostegno alle sue misture d’ironia e d’arguta comicità: esempi famosi sono «Ah! Bravo Figaro/bravo bravissimo» (cavatina d’entrata del barbiere Figaro) e «Questo è un modo avviluppato/questo è un gruppo rintrecciato», con una musica basate su doppie consonanti, nella Cenerentola.
Questi esempi hanno attratto l’attenzione, tra gli altri, di scrittori di gran fama, come il francese Stendhal in una biografia del 1823 e, molto più recentemente, un altro illustre letterato, Riccardo Bacchelli, in una monografia del 1941.
Nel frattempo, avvertendo i mutamenti del gusto del pubblico e le nuove tendenze in campo scenico e nei libretti, Rossini cominciò a privilegiare strutture e argomenti solenni del genere serio, già saggiato in precedenza con alcuni esiti felici, in particolare nel Tancredi (1813).
Questa tendenza trovò campo d’azione a Napoli, dove Rossini fu impegnato al Teatro S. Carlo per circa otto anni e dove rappresentò una serie di opere di grande complessità drammaturgica, a cominciare dalla Elisabetta, regina d’Inghilterra (1815); per proseguire con Otello (1816), primo impatto con il teatro shakespeariano (in realtà molto manomesso dal librettista Francesco Berio di Salza); e Armida (1817), con un soggetto tratto dal poema di Torquato Tasso. Più decisamente il nuovo corso viene confermato con l’azione tragico-sacra del Mosè in Egitto, in 4 atti, presentato ancora a Napoli durante la quaresima del 1818 e portato a maggior completezza l’anno dopo, quando Rossini vi aggiunse l’alto lirismo della preghiera di Mosè «Dal tuo stellato soglio».
In questo modo Rossini ‘serio’ si aggiudicò fama pari a quella raggiunta dagli splendori dell’opera buffa. Così fra le opere che seguirono il Mosè prendono notevole rilievo gli ultimi lavori scritti per Napoli, come Ermione (1819), Maometto II (1820) da un testo teatrale di Voltaire, Zelmira (1822), fino all’ultima opera scritta per un teatro italiano, Semiramide, andata in scena al Teatro La Fenice di Venezia nel 1823.
Dal 1824 Rossini si stabilì a Parigi, dove mise in scena Il viaggio a Reims per l’incoronazione di Carlo X nel 1825 (la cui musica in parte rifluì nell’opera semiseria Il conte Ory nel 1828), e poi due opere in francese per l’Opéra, scritte rimaneggiando precedenti lavori napoletani (L’assedio di Corinto nel 1826, proveniente dal Maometto II, e Mosè e Faraone nel 1827, dal Mosè in Egitto).
Questa produzione francese si concluse con l’ultimo capolavoro, Guglielmo Tell, 4 atti basati sulla tragedia di Friedrich Schiller e rappresentata all’Opéra parigina nel 1829. Si racconta l’epopea dell’eroe della libertà e dell’indipendenza elvetiche, e Rossini, fin dalle genialissime note e dalla veste orchestrale della ouverture, mostra tutto il suo estro. L’ambientazione sonora dell’opera presenta uno spessore che già prelude al romanticismo: paesaggi alpini, canti dei pastori montani, dolcissimi episodi interrotti dalla eccitata cavalcata ‘guerresca’; Rossini, inoltre, riserva all’episodio finale, in cui l’arciere è costretto a rischiare la vita del figlio, un particolare e sincero calore umano, a suggello dei molti momenti elevati che s’incontrano in tutta l’opera.
Dopo il Guglielmo Tell iniziò a diffondersi la voce della decisione di Rossini di far calare il silenzio sulla sua attività di operista, non però di compositore: il musicista per tutto il resto della sua vita non scrisse più opere, ma si limitò a comporre brevi pezzi di musica vocale e da camera che presentò come Peccati di vecchiaia.
A questi vanno aggiunti due impegnativi lavori sacri: nel 1841 lo Stabat Mater e nel 1853 la Petite Messe solennelle per soli, coro, armonium e due pianoforti: il silenzio del compositore non aveva attenuato il suo ironico gusto per il paradosso, testimoniato dall’associazione, nel titolo di questa composizione sinceramente dedicata «al buon Dio», di due qualifiche nettamente opposte, come «piccola» e «solenne».
A partire dal 1855 Rossini si stabilì in una bella villa di Passy, un sobborgo di Parigi, dove si spense nel 1868 nell’universale cordoglio.