Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
Gioachino Rossini domina con la sua fama il mondo operistico italiano ed europeo per tutta la prima metà dell’Ottocento. Il suo nome è legato principalmente all’opera buffa, in particolare al Barbiere di Siviglia, ma Rossini è egualmente importante come compositore di opere serie, alle quali dà la forma rimasta in vigore fino al 1870 circa. Malgrado l’enorme successo, la sua carriera di operista s’interrompe nel 1829 con il Guillaume Tell, che apre al melodramma nuove prospettive romantiche. Dopo quest’opera egli si ritira dalle scene, trascorrendo lunghi anni – definiti del “silenzio rossiniano” – tra l’Italia e Parigi, circondato dalla stima e dal rispetto di musicisti e intellettuali di ogni nazionalità. In questi anni si dedica per suo diletto a comporre brani da camera, sia vocali sia strumentali, che appaiono oggi stupefacenti per l’ironia che anticipa certe esperienze del Novecento.
Il nome di Rossini è legato principalmente all’opera buffa, in particolare al Barbiere di Siviglia, ma egli è egualmente importante come compositore di opere serie, alle quali dà la forma rimasta in vigore fino al 1870 circa. Solo intorno al 1950, grazie all’attività di studiosi e all’avvento di una nuova generazione di cantanti, l’opera di Rossini è stata rivalutata in toto.
Oggi il nome di Gioachino Rossini evoca immediatamente il mondo dell’opera buffa. Ma, quando Rossini muove i suoi primi passi come musicista – dapprima nelle vesti di cantante e poi in quelle di compositore – i generi operistici in auge sulle scene italiane sono due, ereditati principalmente dal Settecento, e con caratteristiche ben distinte: l’opera seria e l’opera buffa. Rossini è l’ultimo operista dell’Ottocento a frequentare in eguale misura i due generi che hanno ormai acquisito la medesima dignità.
A partire dagli anni Trenta invece, il gusto del pubblico muta radicalmente e all’ambientazione quotidiana e prosaica che caratterizza l’opera buffa si preferiscono i finali tragici, i conflitti insanabili e gli amori impossibili; le scene italiane vedono così prevalere l’opera seria. Questo cambiamento è preannunciato dallo stesso Rossini: egli scrive 39 opere tra le quali, escludendo quelle del periodo parigino, 14 buffe e 18 serie; le opere buffe sono concentrate quasi tutte nel periodo iniziale della sua attività, tra il 1810 – anno del suo debutto come autore di farse, ossia opere in un atto – e il 1817, anno nel quale scrive un capolavoro del genere buffo, La Cenerentola. Ma già dal 1815, anno del primo contratto con il Teatro San Carlo di Napoli, egli dedica le sue energie principalmente alle opere serie.
Questo percorso non è casuale: per un giovane compositore è più facile debuttare come autore di opere buffe o di farse, che hanno un mercato più ampio, ma il genere che consacra definitivamente un autore è quello serio.
Quando Rossini compare sulla scena, opera seria e opera buffa vivono un momento di crisi; i modelli settecenteschi, infatti, si sono progressivamente esauriti, e i maggiori compositori italiani sono morti, come ad esempio Cimarosa, o si sono trasferiti all’estero come Paisiello, Spontini e Cherubini. Malgrado ciò il teatro è sempre al centro della vita sociale, la richiesta di nuove opere è incessante e quindi c’è largo spazio per un giovane dotato d’inventiva e capacità.
L’intervento di Rossini sui modelli settecenteschi sta soprattutto nella contaminazione dei due generi, che progressivamente si avvicinano. L’opera seria dell’Ottocento si arricchisce così di brani d’insieme, le arie solistiche diminuiscono e, al pari dei duetti, assumono una forma più duttile, adatta a esprimere sentimenti non stereotipati. L’opera buffa d’altro canto assorbe molte strutture formali di quella seria, adottando uno stile di canto più virtuosistico e nobile. I personaggi buffi di Rossini non sono più i tipi derivati dalla commedia dell’arte, ma individui dotati di una fisionomia caratteristica, basti pensare a Figaro o a Rosina nel Barbiere.
L’ascesa del giovane Rossini come compositore “buffo” è fulminea, e la sua attività frenetica. Il debutto avviene nel 1810 con la farsa La cambiale di matrimonio, rappresentata nel piccolo Teatro San Moisè di Venezia che gli commissiona altre quattro opere. Ma il suo primo grande successo è La pietra del paragone (1812), scritta per la Scala, quando è appena ventenne. Sin da questi primi esempi la fisionomia musicale di Rossini è chiaramente delineata: l’impulso ritmico, l’uso buffonesco delle parole e un’orchestrazione più ricca, che gli procura l’accusa di “fracassista” o “tedeschino”, sono i caratteri di uno stile che lo rendono subito popolare e riconoscibile tra gli operisti dell’epoca.
Anche la sinfonia rossiniana presenta dagli esordi la sua tipica struttura: in forma-sonata priva di sviluppo, spesso preceduta da un largo e con il famoso crescendo agganciato al primo tema. Questa struttura viene adoperata indifferentemente per le opere buffe e per le opere serie, anzi, una sinfonia pensata per un tipo di opera viene usata per l’altro tipo, come quella del Barbiere di Siviglia, originariamente composta per l’opera seria Aureliano in Palmira e adoperata anche per Elisabetta regina d’Inghilterra.
Il primo capolavoro comico di Rossini arriva immediatamente nel 1813 con L’italiana in Algeri, un libretto di Angelo Anelli che sposa il gusto per le “turcherie” con situazioni di comicità irresistibile, abilmente sottolineate dal musicista che interviene qualche volta anche sul libretto. Nell’Italiana è evidente come Rossini rispetti la forma e le convenzioni del genere, imprimendogli contemporaneamente uno stile nuovo.
L’esempio più calzante è il finale del primo atto, che da sempre nell’opera buffa ha un ruolo importante dal punto di vista drammaturgico e musicale. Secondo la definizione di Lorenzo Da Ponte – il famoso librettista di Mozart – il primo atto è “una spezie di commediola o picciol dramma da sé, e richiede un novello intreccio ed un interesse straordinario”. Si compone di più sezioni, tutte cantate, senza recitativo e – afferma sempre Da Ponte “trovar vi si deve ogni genere di canto”. È il momento in cui la trama si complica e tutti i personaggi si presentano a poco a poco in scena, fino alla stretta, l’ultimo brano, in cui tutti sono presenti e cantano contemporaneamente.
In Rossini il finale primo assume proporzioni più ampie e un’importanza maggiore. In particolare, la stretta dell’Italiana è un esempio di come egli porti alle estreme conseguenze le forme settecentesche, imprimendo loro una velocità e un ritmo inusitati che travalicano ogni esigenza di realismo. In questo punto dell’opera si deve descrivere lo stupore dei personaggi dinanzi a una situazione inaspettata (l’incontro tra Isabella e Lindoro). Rossini fa di questo stupore il fulcro di una situazione davvero caotica esemplificata già dal testo che pare sia stato aggiunto da lui stesso.
Gioachino Rossini
Va sossopra il mio cervello
L’italiana in Algeri
TADDEO, MUSTAFA’, ELVIRA, ISABELLA, ZULMA, LINDORO, HALY:
Va sossopra il mio cervello
Sbalordito in tanti imbrogli
Qual vascel fra l’onde e i scogli
Io sto/Ei sta presso a naufragar
CORO:
Va sossopra il suo cervello
Ei sta presso a naufragar
ELVIRA:
Nella testa ho un campanello
Che suonando fa din din
ISABELLA e ZULMA:
La mia testa è un campanello
Che suonando fa din din
LINDORO e HALY:
Nella testa ho un gran martello
Mi percuote e fa tac tà
TADDEO:
Sono come una cornacchia
Che spennata fa crà crà
MUSTAFA’:
Come scoppio di cannone
La mia testa fa bum bum
Gioachino Rossini, L’italiana in Algeri, 1813
Rossini alterna due idee musicali basate sulle due sezioni del testo “Va sossopra...” e “Nella testa ho un campanello...”; i suoi procedimenti (accelerazione ritmica e crescendo dinamico, uso di parole onomatopeiche e loro ossessiva ripetizione) sono ormai giunti alla perfezione: sulle scene non si era mai sentito nulla di simile e giustamente Stendhal, il primo biografo di Rossini e suo ammiratore incondizionato, descrive questa musica come una “follia organizzata e completa”.
Stendhal
Sull’Italiana in Algeri
Vita di Rossini
La cavatina di Lindoro, l’amante amato, nell’Italiana in Algeri “Languire per una bella”, è di perfetta freschezza. L’effetto ne è potente, la musica semplicissima. Questa cavatina è una delle cose più belle che Rossini abbia mai scritto per una voce autentica di tenore. Non dimenticherò mai l’effetto che vi produceva Davide, il primo o per meglio dire l’unico tenore che esista oggi. Era uno dei più grandi trionfi della musica. Trascinati dal giuoco di questa voce elegante, pura, sonora, gli spettatori dimenticavano ogni cosa. Il grande vantaggio della cavatina è appunto che non abbonda di passione, non è troppo drammatica. L’azione è appena cominciata. Noi non siamo obbligati a pensare a certe circostanze più o meno complicate, possiamo abbandonarci completamente al diletto trascinante che s’impadronisce di noi. È la musica più fisica che io conosca.
Tale diletto si rinnovella subito dopo, ma se il piacere che il nuovo pezzo ci propone fosse esattamente della stessa natura, sarebbe necessariamente men vivo.
Il duetto tra Lindoro e Mustafà “Se inclinassi a prender moglie”, è gradevole quanto la cavatina, ma c’è dentro una sfumatura più drammatica e seria; Lindoro si difende dal prendere in moglie la donna che il bey vorrebbe passargli. I nostri gravi letterati dei Débats hanno trovato folle l’azione dell’opera senza vedere, poveretti, che se non fosse così folle non converrebbe più a quel genere di musica, che è essa stessa una follia organizzata e completa. Se i nostri stimatissimi letterati desiderano ragionevolezza e passione, rimandiamoli a Mozart. Nella vera opera buffa la passione si presenta solo a tratti, quasi a riposarci della gaiezza; solo allora la pittura di un sentimento tenero è irresistibile, offre l’incanto dell’imprevisto e del contrasto. Come all’Opera, quando la musica è buona, l’anima non può essere occupata a metà dalla passione, e la passione continua ci occuperebbe troppo, ci stancherebbe, così addio ai piaceri dell’opera buffa! (...)
Credo che solo i più grandi imbecilli potrebbero aspirare alla paternità della critica che i nostri stimatissimi letterati hanno rivolta a questo finale.
È ben vero che il bey dice:
Come scoppio di cannone
La mia testa fa bambù;
e che Taddeo risponde
Sono come una cornacchia
Che spennata fa crà-crà.
Ma come mai questi poveri pennaiuoli non si son detti che Marmontel o il signor Etienne avrebbero potuto scrivere otto o dieci versi deliziosi, delicatissimi, incantevoli per questo finale, e la musica restar quella di un Delayrac o di Mondoville? È come se ci saltasse in testa di lodare, nella Trasfigurazione, la pena che s’è data Raffaello di dipingere su una finissima tela d’Olanda, proprio di prima qualità...
A Venezia, alla fine di questo finale cantato da Paccini, Galli e la Marcolini, gli spettatori non riescivano più a respirare, e si asciugavano gli occhi.
L’impressione è appunto quella che la gente di gusto si aspetta da un’opera buffa; essa è estremamente forte, si tratta dunque di un capolavoro. Né si era obbligati, a Venezia o a Vicenza, di perder tempo ad esprimere i particolari di questo ragionamento. Tutti gridavano, quasi soffocando dal gran ridere: Sublime. divino!
Ciò che caratterizza questo capolavoro, è precisamente la sua estrema rapidità, l’assenza d’enfasi. È impossibile dire di più con meno parole; ma come far capire queste cose a chi fa attenzione solo al libretto? Rousseau s’è incaricato della risposta. Si trova difatti questa frase italiana in un certo punto delle sue Opere: Zanetto, lascia le donne e studia la matematica...
Stendhal, Vita di Rossini, Firenze, Passigli Editori, 1990
Nell’Italiana anche i tipi vocali prediletti dal compositore sono già ben individuati. C’è una prima donna contralto (Isabella), un tenore (Lindoro) nella parte di amoroso, e due bassi buffi, uno “nobile” (Mustafà) a cui è destinata una parte vocale più impegnativa, e uno spiccatamente comico (Taddeo). Questa tipologia vocale si ritrova in tutte le opere buffe di Rossini, con l’aggiunta di un terzo tipo di basso, definito deus ex machina per il ruolo che occupa nello svolgimento della vicenda, che si avvicina al moderno baritono: Figaro, nel Barbiere, ne rappresenta l’esempio più riuscito, mentre nella stessa opera Don Bartolo corrisponde al buffo “caricato” e Don Basilio a quello “nobile”.
Rossini riserva a Isabella anche delle arie quasi da opera seria, come la sua cavatina “Cruda sorte” e, nel finale, “Pensa alla patria”, in cui ella spinge i compagni all’azione con delle parole che si attirano gli strali della censura. Più tardi Rossini rivendica questi versi come esempio dei suoi sentimenti patriottici; in quel contesto, tuttavia, suonano fondamentalmente ironici o, tutt’al più, forniscono alla protagonista un rondò di bravura.
Lo stesso anno dell’Italiana, e sempre per Venezia, Rossini scrive la sua prima opera seria di successo, Tancredi, su libretto di Gaetano Rossi, tratto da una tragedia di Voltaire. Anche per l’opera seria esiste una tradizione ben consolidata, benché in crisi da lungo tempo: il problema da risolvere è fondamentalmente quello della drastica dicotomia tra recitativo – il momento dell’azione – e aria, il momento lirico, espressione dei sentimenti o, come si dice in questo periodo, degli “affetti”.
La rigida alternanza tra questi due momenti, tipica dell’opera settecentesca, non soddisfa più le esigenze del pubblico, né dei compositori. Rossini codifica allora l’uso di una struttura più fluida, fornendo le basi all’opera di Donizetti, Bellini e Verdi. La tipica struttura rossiniana, che rimane in vigore fino al 1870 circa, è quella in quattro tempi: tempo di attacco, adagio o cantabile, tempo di mezzo e cabaletta; essi sono preceduti da una scena, costituita in genere da un recitativo. In questo schema cantabile e cabaletta corrispondono al momento lirico, mentre tempo di attacco e tempo di mezzo corrispondono al momento dinamico, ma forniscono un materiale più fluido della vecchia accoppiata aria-recitativo. Tale schema viene usato sia per le arie, sia per i duetti e sia per i brani d’insieme, come i finali d’atto. In questo caso al cantabile si sostituisce un largo concertato e alla cabaletta la stretta, di cui si è parlato a proposito dell’opera buffa.
La più famosa cabaletta di Rossini è quella di Tancredi nell’opera omonima, “Di tanti palpiti”. Brano di estremo virtuosismo, cavallo di battaglia di tante interpreti, ha dato vita a uno dei numerosi aneddoti sulla facilità nel comporre di Rossini. Si racconta infatti che l’abbia scritta nell’attesa di un risotto, ed è detta per questo “aria dei risi”. L’eroe è appena sbarcato sulla terra natia e anela all’incontro con l’amata Amenaide; su un cullante motivo dei bassi (il mare), anticipato sin dall’introduzione che precede il recitativo, flauto e oboe introducono la melodia, preparando l’ingresso di Tancredi (un contralto).
Tancredi segna un momento importante nella produzione rossiniana, ma la carriera di operista “serio” subisce una svolta dopo l’incontro con l’impresario milanese Domenico Barbaja, che gestisce il Teatro San Carlo di Napoli, uno dei più prestigiosi in Italia. Barbaja lo pone subito sotto contratto, dapprima come compositore e in seguito come direttore artistico. Per Napoli Rossini compone solo opere serie, a cominciare da Elisabetta regina d’Inghilterra (1815) che è anche la sua prima opera ad avere come protagonista la Colbran. In quest’opera, Rossini abolisce l’uso dei recitativi secchi, che bandisce d’ora in poi dalle opere serie, e abolisce o muta radicalmente le sinfonie che perdono la loro funzione di rumoroso invito all’ascolto. Per Rossini la permanenza a Napoli è importante sotto diversi aspetti: il Teatro San Carlo offre allora una compagnia di canto e un’orchestra davvero eccellenti, con le quali egli ha modo di lavorare insolitamente a lungo, mettendo in scena opere sue e di altri compositori. Inoltre, per la particolare tradizione del luogo, Rossini ha modo di entrare in contatto con l’opera francese, a cui si ispira per il nuovo ruolo del coro, ad esempio in Mosè in Egitto (1818). A partire dall’Elisabetta, le opere napoletane mostrano un interesse per soggetti e autori tipici del melodramma romantico, come la storia inglese (Elisabetta), il Medioevo, i romanzi di Walter Scott (La donna del lago). Tra tutte spicca Otello (1816), cui il gusto ancora settecentesco del pubblico impone il lieto fine, ma che – nella concezione del terzo atto come entità unitaria – anticipa soluzioni dell’opera posteriore.
Al vertice della produzione seria di Rossini si trova Semiramide, anche questa su libretto di Rossi tratto da Voltaire, composta per il Teatro La Fenice di Venezia nel 1823. Rossini dedica alla sua composizione più tempo del consueto, e il risultato è una specie di summa dell’opera seria italiana. Per il soggetto, per l’esasperato gusto belcantistico, per il “barocchismo” vocale (esemplare l’aria di Semiramide “Bel raggio lusinghier”, trionfo della coloratura) viene considerata spesso un’opera “reazionaria”; ma al contrario la concezione unitaria di certe scene, come l’introduzione e il finale primo, è nuovissima per l’opera italiana. Si tratta in entrambi i casi di scene “monumentali”, formate da più sezioni che si integrano in un blocco unico.
Rossini coltiva anche un terzo genere, quello semiserio, che alla fine del Settecento si affianca ai due generi principali.
Esso è derivato dalla francese comédie larmoyante, di gran moda all’epoca della Rivoluzione francese, che in Italia aveva dato l’esempio più interessante nella Cecchina ossia La buona figliola di Niccolò Piccinni. L’opera semiseria condivide l’ambientazione quotidiana e le forme dell’opera buffa, mentre con l’opera seria ha in comune l’argomento drammatico. Il capolavoro di Rossini in questo genere è La gazza ladra (1817), tratto dal dramma La pie voleuse di D’Aubigny e Caigniez, ispirato a un episodio realmente avvenuto. L’opera è oggi raramente rappresentata, mentre la sua sinfonia è uno dei brani più celebri e viene generalmente presa ad esempio dell’allegria e della vitalità ritmica che contraddistinguono lo stile rossiniano; ma La gazza ladra è emblematica anche di un’altra peculiarità di Rossini: egli non crede affatto che la musica possa esprimere dei sentimenti determinati senza l’ausilio delle parole, ma tutt’al più fornire al dramma quella che chiama “l’atmosfera morale”. È dunque tipico dello stile rossiniano utilizzare la stessa musica per testi diversi e, nel caso della sinfonia della Gazza ladra, il primo e il terzo tema dell’allegro, con il loro ritmo scoppiettante, vengono riutilizzati in un momento molto drammatico, quando la protagonista Ninetta si trova in carcere, ingiustamente accusata del furto commesso dalla gazza.
Con Semiramide Rossini chiude di fatto la sua carriera italiana. In quello stesso anno egli e la Colbran lasciano l’Italia per una trionfale tournée a Parigi e a Londra. Rossini ha 31 anni e ha composto finora 34 opere ma da questo momento la sua produzione subisce un rallentamento. Egli accetta l’incarico di “direttore della musica” del Théâtre Italien, assumendo l’impegno di allestire le sue opere e quelle di altri musicisti italiani, e in questa veste favorirà non poco, e con generosità non comune, i giovani Bellini e Donizetti.
Per il maggior teatro parigino, l’Opéra, Rossini scrive appena due opere nuove: l’opéra-comique Le comte Ory (1828) e il Guillaume Tell (1829); rielabora invece per il gusto francese alcune opere del periodo napoletano, il Maometto II (col titolo Le siège de Corinthe) e il Mosè in Egitto (Moïse et Pharaon), che comunque avrà maggior fortuna una volta ritradotto in italiano con il titolo di Mosè.
In esso Rossini anticipa un tema tipicamente risorgimentale, cioè il riscatto di un popolo oppresso, e il coro vi assume la veste di protagonista. Proprio una rappresentazione immaginaria di Mosè in Egitto nel Teatro La Fenice di Venezia nel 1820 è al centro di un racconto di Balzac, Massimilla Doni. In esso la protagonista, la nobile veneziana Massimilla, illustra con perizia e passione a un medico francese, ospite nel suo palco, l’intera opera.
Ma è il Guillaume Tell a chiudere la parabola rossiniana e ad aprire contemporaneamente la strada ai compositori successivi.
Esso condivide i caratteri del neonato grand-opéra e dell’opera romantica: il soggetto patriottico, il sentimento della natura, l’uso di melodie popolari, la moderazione del virtuosismo (sono pochissime le arie solistiche) e la predominanza del coro.
Anche la sua sinfonia è diversa da tutte quelle precedentemente scritte, per la forma (quattro tempi senza interruzione) e per l’intento programmatico di anticipare l’atmosfera dell’opera. Merita rilievo l’uso di temi popolari, in particolare il ranz des vaches (ridda delle vacche), una melodia usata dai pastori svizzeri: Rossini non si limita a riprodurla, ma ne fa un elemento di omogeneità, deducendone degli elementi che utilizza in diversi luoghi dell’opera.
Dopo il 1829 Rossini non compone più nulla per il teatro. A lungo si è indagato sui motivi di questo ritiro dalle scene, peraltro più volte annunciato dal compositore. Un motivo incidentale è la rivoluzione del 1830 che fa tentennare gli accordi già presi con i teatri parigini. Determinante, inoltre, è il lungo esaurimento nervoso che lo tormenta per quasi vent’anni, imputabile all’intenso lavoro degli anni precedenti. Quando Rossini supera la sua crisi personale, il mondo dell’opera è cambiato e l’ideale belcantistico è definitivamente tramontato. Egli si sente un po’ un sopravvissuto, anche se lo stesso Guglielmo Tell e la musica che compone per se stesso in quegli anni dimostrano una notevole capacità di rinnovare il suo stile; tuttavia, ormai ricchissimo, Rossini preferisce ritirarsi piuttosto che compiere uno sforzo che la malattia non gli consente di affrontare.
Solo dopo il ritorno a Parigi, nel 1855, Gioachino ritroverà le forze e la voglia di dedicarsi alla musica. Il suo salotto della Chaussée d’Antin si apre ogni sabato a intellettuali e artisti del calibro di Delacroix, Liszt, Chopin, Meyerbeer, e in quella occasione vengono eseguiti i brani, sia vocali sia strumentali, che Rossini non pensa nemmeno di pubblicare e che chiama, con deliziosa ironia, i suoi Péchés de vieillesse, peccati di vecchiaia. Sono in tutto 13 volumi di composizioni vocali e pianistiche, alle quali Rossini dà titoli ironici e dissacranti, quali Quatre hors-d’oeuvres (antipasti), Prélude convulsif, Valse torturée, Première communion, Mon prélude hygiénique du matin.
Rossini vi applica inoltre spiritose didascalie, come nel caso del Petit train de plaisir che descrive un viaggio in treno concluso da un deragliamento.
La marche funèbre che accompagna i morti nell’incidente è seguita da un motivo gioioso che descrive la “disperazione” degli eredi.
Il maggiore dei “peccati” del vecchio compositore, e uno dei suoi capolavori, è la Petite messe solennelle (1863). Anch’essa viene composta senza una specifica committenza, e la prima esecuzione avviene in forma strettamente privata, nel salotto della contessa Pillett-Will.
Il titolo, in cui contrastano gli aggettivi “piccolo” e “solenne”, è emblematico dell’ironia rossiniana e nello stesso tempo indica bene i caratteri della partitura: “petite” perché destinata a un piccolo organico (soprano, contralto, tenore, basso, otto coristi, due pianoforti e armonium) e “solennelle” perché intrisa da uno spirito profondamente religioso, veramente solenne. Commoventi sono le parole che Rossini appone sulla partitura: “Buon Dio, ecco terminata questa povera piccola Messa. È della musica sacra quella che ho scritto, o della musica sacrilega? Ero nato per l’opera buffa, lo sai bene! un po’ di scienza, un po’ di cuore, tutto qua. Tu sia dunque benedetto, e accorda a me il Paradiso”.
Per l’esiguità dell’organico, per l’asciuttezza della scrittura, la Petite messe non ha precedenti nella musica sacra ottocentesca. Rossini dimostra in numerosi brani una perfetta conoscenza delle opere di Bach e del contrappunto, soprattutto nel Preludio religioso per armonium solo. L’ultima pagina della composizione è l’Agnus Dei: alla dolcissima melodia intonata dal contralto risponde, quasi sussurrando, il coro a voci sole con le parole “Dona nobis pacem”.
Alla terza ripresa le voci di solista e coro si uniscono, ma la messa non si conclude con un tutti trionfale, bensì con pochi e scarni accordi dell’armonium.
La meditazione sulla morte accompagnata dalla fiducia nella felicità di una vita ultraterrena trovano in questo brano una delle più compiute e toccanti espressioni.
La vocalità rossiniana è ancora strettamente legata all’ideale belcantistico che vede il primato della voce sulle altre componenti dell’opera: il cantante è coautore insieme al compositore e nelle sue arie è libero di improvvisare. Con Rossini, che incomincia a scrivere tutte le colorature, si chiude la fase dello strapotere del cantante; tuttavia la melodia rossiniana rimane essenzialmente vocale, vale a dire si esprime al meglio attraverso le caratteristiche della voce umana, e il piacere della bellezza della voce rimane il centro della sua poetica. In linea di massima la sua preferenza va a un tipo di voce naturale, non “sforzata” come nell’opera romantica. Alla voce di soprano preferisce il contralto e al tenore il basso che porta verso l’acuto, anticipando l’odierno baritono. Figaro rappresenta l’ideale di voce maschile, mentre il Lindoro dell’Italiana, che ha la tessitura tenorile più acuta fra tutti i personaggi di Rossini, come tutti i tenori rossiniani è confinato nel ruolo di “amoroso”. Isabella e Rosina hanno una voce da donna matura, col proprio punto di forza nel registro medio, ma con la capacità di ascendere agli acuti.
Di conseguenza Rossini non apprezza l’innovazione rappresentata dal cosiddetto “Do di petto”, introdotto dal tenore Duprez nel Guillaume Tell, anzi paragona il cantante a un cappone sgozzato; il Do di petto segna comunque l’avvento del tenore romantico, prima d’allora infatti i cantanti affrontavano le note acute in falsetto.
Pur guardando all’ideale del “belcanto”, Rossini scrive una sola opera seria, Aureliano in Palmira, per un castrato. Ai primi dell’Ottocento gli evirati si avviano ormai sul viale del tramonto, ma il compositore esprime più volte il suo rimpianto per il loro canto che, in una lettera tarda, definisce il “cantar che nell’anima si sente”.
Al posto degli evirati, Rossini adopera il contralto en travesti, come nei personaggi di Tancredi nell’opera omonima, di Malcom nella Donna del lago, di Arsace in Semiramide. Ma in generale anche per i ruoli femminili questo registro rimane il preferito, una scelta legata forse alle possibilità canore della sua prima moglie, la cantante spagnola Isabella Colbran, per la quale nascono quasi tutti i ruoli principali delle opere serie. A detta dei contemporanei la Colbran era sì un contralto, ma con la possibilità di estendere la voce verso gli acuti, e univa a una padronanza totale della coloratura, una figura statuaria e doti drammatiche non comuni.
Per la peculiarità di questo stile di canto, è solo a partire dagli anni Cinquanta del Novecento che l’opera di Rossini è stata rivalutata in toto, grazie all’attività della Fondazione Rossini di Pesaro e all’avvento di alcune cantanti come Joan Sutherland, Maria Callas, Marilyn Horne in grado di affrontare l’ardua vocalità belcantistica.