gioco
Attività ricreativa praticata liberamente, fine a sé stessa e gestita generalmente da regole arbitrarie e vincolanti. La spontanea sottomissione al sistema di regole, distingue il g. da altre forme di divertimento che possono essere, invece, caratterizzate da una semplice infrazione di regole (per es., suonare i campanelli per la strada), ma distingue il g. anche dalla vita sociale non ludica le cui regole vengono accettate ma non liberamente scelte.
Le discipline che si sono occupate dello studio del g. sono diverse: dalla psicologia all’etologia, alla matematica, alla psicoanalisi e altre ancora. Esiste indubbiamente un’universalità temporale e spaziale nell’attività ludica dell’uomo. Infatti il g. è presente sin dall’antichità (basti pensare alla Tavola di Ur, una specie di dama, trovata in Iraq, che risale al 2600÷2400 a.C.), ed è presente in ogni popolo della Terra. Il g. si riscontra anche in molte altre specie animali.
Gran parte dei Mammiferi, infatti, gioca, e così anche diverse specie di Uccelli. Ultimamente è stato scoperto che giocano anche alcuni rettili, come le tartarughe, e i coccodrilli, e persino un mollusco, il polpo. L’uomo trae dal g. numerosi benefici: negli adulti scioglie le tensioni e aiuta la concentrazione, mentre nei bambini è fondamentale per lo sviluppo cognitivo e la crescita neurologica. Una comparazione tra diverse specie di mammiferi ha rivelato che la presenza e la complessità del g. sono correlate con la dimensione del cervello: più il cervello di una specie è voluminoso, in proporzione al corpo, più il g. ha un ruolo cruciale nella sua vita. Inoltre esiste una correlazione tra sviluppo neurologico e il g., dimostrata dal fatto che topi, privati della possibilità di giocare, non sviluppano pienamente le connessioni neuronali della corteccia prefrontale.
Tre teorie principali tentano di spiegare l’evoluzione del gioco. La prima, quella del surplus di energia di Herbert Spencer, sostiene che il bambino attraverso il g. scarichi un eccesso di energia, ma l’osservazione che spesso un bambino sente il desiderio di giocare, anche se è stanco, mostra che non vi è una chiara relazione tra energia e pulsione al gioco. Secondo la teoria di Granville S. Hall, invece, nel g. i bambini ripercorrerebbero le attività e i comportamenti dei nostri antenati. Ma se certi g. come la lotta, sembrano confermare questa teoria altri g. moderni, come l’andare in bicicletta, non trovano analogie nelle società primitive. La terza ipotesi, quella più accreditata, di Karl Gross, ipotizza che il g. infantile altro non sia che un esercizio per allenare gli istinti e i comportamenti necessari da adulti, come dimostra il fatto che spesso i giochi dei bambini sono giochi di imitazione dei comportamenti adulti. Anche negli animali vengono usati nel g. schemi che sono comuni ad altre attività quali la caccia, gli accoppiamenti e la fuga. In tal senso il g. sarebbe una ‘palestra’ dove il bambino e il cucciolo sperimentano e migliorano comportamenti e movimenti fondamentali per la vita adulta.
Un grande contributo alla comprensione del g., dal punto di vista della psicologia evolutiva, viene dagli studi di Jean Piaget. Secondo questo autore esiste una corrispondenza diretta tra g. e sviluppo mentale del bambino, che tramite il g. cerca di affermare la propria presenza nel mondo. Si possono descrivere così diverse fasi dello sviluppo del comportamento di gioco. Il primo stadio è quello sensomotorio (0÷18 mesi) in cui il bambino ripete schemi motori che gli arrecano il piacere di sentirsi la causa di un evento. Il proprio corpo diventa così il primo g. che ha a disposizione. La seconda fase consiste nel g. simbolico e fantastico (fino a circa 5 anni); in questa fase il bambino impara a ‘far finta di’ sviluppando così il pensiero astratto. Successivamente i giochi acquistano connotazioni sociali e sono guidati da regole scaturite da patti convenzionali: il g. da simbolico diventa così costruttivo.
Altri autori cercano di analizzare il g. con un’ottica sociologica, considerandolo come il primo e basilare prodotto culturale dell’uomo. Per Johan Huizinga l’uomo è soprattutto Homo ludens più che sapiens, in quanto è il g. a consentire uno sviluppo di qualsiasi società. Secondo il sociologo francese Roger Caillois, i giochi si dividono in quattro categorie:
• g. di competizione (agon): tutte le gare in generale, sia fisiche come quelle sportive, sia mentali come una partita a scacchi;
• g. di fortuna (alea): dove il fattore primario è il caso, dal semplice ‘testa o croce’ alle lotterie, dalle scommesse alla morra cinese;
• g. di simulacro (mimicry): in cui si fa finta di essere qualcun altro, da ‘guardia e ladri’ ai g. di ruolo, ai g. in rete come Second life;
• g. di vertigine (ilinx): in cui si sfidano le leggi fisiche, dalle giostre come l’ottovolante agli sport estremi.
Con la psicoanalisi, l’attenzione si concentra sulle emozioni e le sensazioni che il bambino prova giocando. Per Donald W. Winnicott, il g. è un mezzo per analizzare, e possibilmente curare, la psicopatologia del bambino. Il g. viene visto, infatti, come un’espressione infantile della creazione di simboli in cui vari aspetti si intrecciano, dalla fantasia (➔) alla realtà, dai sentimenti all’intelletto. I bambini, a differenza degli adulti, manifestano i propri bisogni e il proprio inconscio principalmente con il g., e non con i sogni, in quanto l’azione è l’espressione principale del bambino. Secondo Sigmund Freud, i giochi devono essere interpretati tramite un simbolismo inconscio e servono per elaborare le ansie presenti nella vita del bambino. Il g. fornisce infatti i mezzi per affrontare situazioni di angoscia (➔), quali la separazione dalla madre (per es., nel g. del cucù o del nascondino). Per Melanie Klein, il g. può essere inserito in un contesto clinico ed essere paragonato alle associazioni libere degli adulti, e rappresentare così il modo migliore per interagire con il bambino durante l’analisi.